10 film fuori concorso della Selezione Ufficiale di Cannes 2018
Di seguito le valutazioni critiche dei migliori film della Selezione Ufficiale presentati fuori concorso, nelle Séances Spéciales e nelle Séances de Minuit.
"Gongjak" di Yoon Jong-Bin |
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Gongjak, di Yoon Jong-Bin (Sud Corea), (voto: 8), è un magnifico thriller di spionaggio ispirato da una storia vera: incalzante, con una suspense continua e con risvolti politici inquietanti. Un feroce gioco di inganni e colpi di scena che svela il dramma e i loschi giochi di potere nel confronto tra Sud e Nord Corea. Nel 1993, a Seoul, Park Suk-young (il convincente Hwang Jung-Min), ex ufficiale militare, viene ingaggiato dal NIS, l’agenzia nazionale dei servizi segreti, e diventa l’agente, con nome in codice “Black Venus”, incaricato di carpire informazioni sull'avanzamento del programma nucleare nordcoreano. Assunta l'identità di un businessman interessato a fare affari con lo stato della Nord Corea, si installa a Pechino e, poco a poco, riesce a conquistare la fiducia di Ri Myong-un (Lee Sung-Min), un quadro di vertice nordcoreano che gli fa incontrare il dittatore Kim Jong-il a Pyogyang.
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Da quel momento Park Suk-young riesce a muoversi con efficacia nel territorio nordcoreano. Ma, in seguito, scopre una trama occulta di accordi segreti tra agenti e politici deviati dei due Paesi per boicottare Kim Dae-jung, candidato del Partito Democratico alle cruciali elezioni presidenziali del 1997 in Sud Corea. Nel frattempo la sua identità di spia sta per essere scoperta dagli sgherri di Kim Jong-il. Yoon Jong-Bin costruisce uno scenario impeccabile nei dettagli e del tutto incisivo, alla John Le Carré, con personaggi complessi e interpreti meravigliosi. Giocando con intelligenza sul confronto psicologico e sui canoni migliori del genere spionistico, con solo sporadiche accelerazioni, confeziona un film molto godibile ed emozionante, a tratti persino commovente quando mostra i risvolti più umani della relazione tra i due protagonisti.
Dead Souls, di Wang Bing (Cina), (voto: 7 e mezzo), è un oderoso documentario, di ben otto ore e un quarto, che, coraggiosamente e con straordinaria sensibilità, ricostruisce la memoria di una delle più immani tragedie della Repubblica Popolare della Cina. Si tratta della deportazione nei “campi di rieducazione”, veri campi di lavoro coatto istituiti dal governo comunista cinese, di circa un milione di persone, condannate senza alcun processo regolare. Sono i dissidenti del regime, definiti “deviazionisti di destra” e “controrivoluzionari”, sia proletari che intellettuali, e imprigionati durante il “Grande balzo in avanti”, la folle politica di massiccia collettivizzazione e crescita economica forzata, voluta da Mao Zedong, che causò una gravissima carestia alimentare con milioni di morti, tra il 1958 e il 1961. Wang Bing aveva già realizzato nel 2010 la sua unica opera di finzione, The Ditch, un capolavoro lucido e straziante che tratta lo stesso argomento, svelando una sconvolgente realtà storica, censurata per decenni dal regime dittatoriale cinese. Un film che segue le vicende di un gruppo di prigionieri detenuti nel campo di lavoro Jiabiangou, nella provicia nordoccidentale del Gansu, in una parte, in quota, del deserto di Gobi. |
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"Dead Souls", Jia Wang Bing
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Uomini che hanno perso qualsiasi speranza perché condannati letteralmente a morire di fame e di stenti, a causa di fatiche disumane, per effettuare lavori totalmente inutili, e per effetto delle condizioni climatiche estreme. In Dead Souls Wang Bing riprende il discorso, incontrando e intervistando i sopravvissuti, ormai ottantenni e novantenni, dei “campi di rieducazione” di Jiabiangou e di Mingshui, per comprendere chi fossero questi sconosciuti, le terribili prove che hanno dovuto affrontare, il destino cui sono andati incontro e la loro delusione rispetto a speranze e sogni miseramente crollati. Strutturato quasi interamente con una serie di interviste, eseguite rigorosamente con inquadrature fisse frontali, e suddiviso in due parti, di durata sostanzialmente uguale, intitolate “Mingshui I” e “Mingshui II”, il film, privo di qualsiasi tentazione spettacolare, presenta un materiale girato nel corso di dodici anni, tra il 2005 e il 2017. La prima sezione vede una successione di testimonianze, ma ogni itinerario individuale rievocato appare simile, disperato e atroce: la mancanza di cibo, le malattie, alloggi inesistenti per cui i confinati dovevano scavare buche nel terreno dove riposare quel poco tempo concesso quando terminavano i massacranti turni quotidiani di lavori forzati, le umiliazioni e i piccoli stratagemmi per evitare il totale annientamento. La seconda sezione, che contiene le interviste più recenti, propone un percorso di riappropriazione del dolore personale e di recupero della propria dimensione umana, da parte dei sopravvissuti. L‘approccio di Wang Bing va ben oltre la denuncia e descrive i disperati tentativi dei prigionieri per conservare la loro dignità È un film durissimo, onesto e impressionante, privo di qualsiasi tentazione di manipolazione retorica o ideologica.
"Ten Years Thailand", A.Assarat, W. Sasanatieng, C. Sriphol e A. Weerasethakul |
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Ten Years Thailand, di Aditya Assarat, Wisit Sasanatieng, Chulayarnon Sriphol e Apichatpong Weerasethakul (Thailandia), (voto: 6 e mezzo / 7) è un’opera collettiva, articolata in 4 cortometraggi, di filmmaker di generazioni differenti, che immaginano un futuro ipotetico e distopico per la Thailandia, ma mostrano anche riconoscibili riferimenti alla situazione attuale del Paese marcata dall’autoritarismo conservatore del sistema di potere dominante. In effetti dal 2014 la Thailandia è governata da una dittatura militare che ha messo un freno alla dissidenza, alla libertà di opinione, alla diversità di pensiero. e all’espressione artistica in pubblico di tematiche non gradite. La crescita di un nuovo aggressivo e totalizzante nazionalismo viene incentivata attraverso norme e regole che promuovono solo quello che viene considerato come “pensiero corretto”.Ten Years Thailand mostra approcci diversi, ma uno scopo comune: prospettare le storture del futuro basandosi sulla restrizione degli spazi di pensiero e di libertà d’azione odierni.
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Racconta un Paese già condizionato dal potere repressivo, in cui la popolazione sembra aver accettato divieti e privazioni di diritti, affidandosi ambiguamente all’etica pacifista buddhista, non concependo veri atti di ribellione collettiva e arrendendosi al conformismo. Assarat propone un episodio di “normale” e “pacifica” censura, mettendo in scena, in bianco e nero, l’intervento ispettivo, “cortese”, ma fermo dei militari, a una mostra di fotografie che determina la rimozione di quelle, istantanee veritiere di strada, ritenute lesive dell’orgoglio dell’esercito e della religione. Sasanatieng configura un’efficace allegoria di un mondo in cui pochi esseri umani sono prede di caccia di uomini e donne con la testa di gatto. Siriphol realizza una piccola farsa poetica, grottesca e variopinta, che ridicolizza perfino la figura della principessa reggente, in abiti militari e intenta a neutralizzare il popolo attraverso i programmi televisivi, mentre imperversa uno strano monaco in una paranoia cyberpunk. Infine Weerasethakul mette in scena, sullo sfondo di un parco che inneggia alla nuova Thailandia, un venditore di apparecchiature di ossigenoterapia per contrastare le apnee notturne, proponendo quindi l’allegoria del buon sonno come anestesia delle coscienze e l’oblio nel torpore.
Whitney, di Kevin Macdonald (UK), (Voto: 6 e mezzo), è un documentario onesto, senza reticenze, ricco di sfumature e sostanzialmente esaustivo, che ricostruisce la straordinaria e tragica traiettoria esistenziale di Whitney Houston. L’icona afroamericana della musica pop degli anni ’80 e ’90, spesso chiamata semplicemente "The Voice", soprannome attribuitole da Oprah Winfrey, venne poi inghiottita nel vortice oscuro della depressione, dell’alcolismo e della tossicodipendenza. Una cantante di cui sono state vendute complessivamente 200 milioni di copie di dischi, fra singoli e album, che ha vinto 6 Grammy Awards e che detiene sia il record di American Music Awards, avendone ricevuti ben 22, sia quello per il numero più alto di prime posizioni consecutive nelle classifiche degli hit musicali, superando Diana Ross & The Supremes e i Beatles. Nel 2006 il Guinness dei Primati l’ha dichiarata “l’artista più premiata e famosa di tutti i tempi”. Inoltre la sua canzone I Will Always Love You è il singolo più venduto di un cantante nella storia della musica moderna. |
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"Whitney", Kevin Macdonald
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Lo scozzese Kevin Macdonald, già autore di interessanti documentari, come One Day in September (1999) e Marley (2012), e di riusciti lungometraggi finzionali, come l’originale The Last King of Scotland (2006) e i mainstream di genere State of Play (2009) e Black Sea (2014), grazie anche alla perfetta intesa con il montatore Sam Rice-Edwards, Macdonald ha assemblato magistralmente un'enorme mole di materiale di repertorio, footage, filmati privati e documenti inediti (in particolare sulle ultime settimane di vita della diva) e ha cucito insieme brani da decine di interviste a parenti e amici di Whitney. L’incipit colorato e vibrante celebra gli anni ’80, l’epoca di Reagan e dell’edonismo tra pop e disco music, poi si ritorna al bianco e nero degli anni ’60 e ’70, quando Whitney bambina, chiamata Nippy in famiglia, all'età di nove anni, incominciò a cantare nel coro della New Hope Baptist Church fino a diventarne solista all'età di 11 anni. Quindi il contesto storico e politico, ma anche familiare e religioso, è il punto di partenza da cui prende corpo un percorso analitico che ricostruisce fluidamente, e disseziona senza remore, le tappe della carriera professionale di Whitney e le difficili prove della sua vita personale, tra fragilità e dolore. Cantante, modella , diva e donna solo apparentemente felice. In effetti poco a poco emerge una dimensione personale di Whitney Houston fortemente melodrammatica, che va dalla accertate molestie sessuali subite durante l’infanzia ad opera della zia Dee Dee Warwick, sorella della celeberrima Dionne Warwick, (che sembrano aver determinato importanti conseguenze nella vita sessuale della cantante) fino al tormentatissimo matrimonio con il cantante attore e ballerino Bobby Brown, geloso della popolarità di Whitney, violento verso di lei e responsabile della sua iniziazione alle droghe, fino al loro divorzio avvenuto nel 2006. Successivamente è descritto il terribile declino di Whitney, non certo aiutata da familiari spesso parassiti, tra solitudine e pulsioni autodistruttive e strenui sforzi per riemergere, fino alla morte prematura, per probabile overdose da farmaci e stupefacenti, nel 2012. Ne risulta un'opera molto viva e incalzante, con un’alternanza di informazioni, immagini, quesiti e qualche clamorosa rivelazione, ma anche venata di malinconia e sostanzialmente priva di retorica, falso glamour e giudizi morali. Vi prevale largamente la scansione della vita personale e intima della cantante, costellata di demoni, scandali, polemiche, cadute clamorose e inaspettate resurrezioni. Una rievocazione mai di maniera di un'artista eccezionale, sconfitta da sé stessa e continuamente assediata dai media e dalle televisioni.
E, ancora, le valutazioni dei film negativi o deludenti, presentati fuori concorso.
"The House that Jack Built", Lars von Trier |
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The House that Jack Built, di Lars von Trier (Danimarca), (voto: 4 / 5), era lo scandalo atteso del Festival. Si tratta di un horror, con pretese di metafora filosofica, costruito come elegia nerissima del male assoluto, con il chiaro obiettivo di essere disturbante e provocatorio al massimo livello. Peraltro la storia del quarantenne Jack (Matt Dillon, molto efficace nella parte), efferato e nichilista serial killer di donne che, affascinato dalla matematica e dall’architettura, trasforma i prodotti delle sue gesta, condite da eccessi narcisistici di violenza (dosati cinicamente con immagini sensazionaliste), in macabra messa in scena artistica, non solo è noiosa, ma porta alle estreme conseguenze la disonestà di Lars von Trier nei confronti del pubblico, che viene morbosamente ricattato. Un lavoro prolisso,suddiviso in cinque capitoli, corrispondenti a cinque delitti, infarcito di citazioni e intermezzi in cui von Trier, oltre a propinare teorie sulla condizione umana e sulle sue contraddizioni, in particolare la presunta propensione naturale dell’uomo ad abusare dei propri simili fino alle più estreme conseguenze e la presunta naturale idiozia delle donne, ribadisce tra l’altro, la sua ambigua ammirazione nei confronti di Albert Spee, l’architetto di Hitler.
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La messa in scena gioca maldestramente a ripetere canoni di genere, di uno pseudo thriller a tinte forti, mentre le trovate geniali sono limitate. Fino all’epilogo, sarcastico e visivamente raffinato, in cui il protagonista pluriomicida Jack scende all’Inferno accompagnato da Verge (Bruno Ganz in un cameo di gran pregio), caricatura del Virgilio dantesco, configurando una svolta pop con scenografie che richiamano Goethe e Gustav Doré. Alcuni critici, folgorati dal film, hanno scritto di un’opera definitiva, summa del percorso artistico trentennale di von Trier e della sua visione del mondo, mentre ci pare invece che il film sia semplicemente una ennesima versione di una rappresentazione escatologica sempre più grossolana, pretestuosa e manierista.
Farenheit 451, di Ramin Bahrani (USA), (voto: 4) propone una rilettura del classico romanzo di fantascienza “Farenheit 451” (1953). di Ray Bradbury, già cult film di François Truffaut del 1966, ma non convince. L’approccio, che mescola scenografie e tecnologia da classico cinema mainstream, incerti meccanismi di genere (sequenze d’azione poco efficaci ed emozionanti) e sfaccettature melodrammatiche piuttosto convenzionali, depotenzia la dinamica esistenziale e il significato politico del racconto. L’americano di origini iraniane Ramin Bahrani, autore di opere significative e originali in termini esistenziali e sociali, quali Man Push Cart (2005), Chop Shop (2007), Goodbye Solo (2008) e 99 Homes (2014), introduce alcuni interessanti aggiornamenti della storia rispetto alle opere di Bradbury e di Truffaut e si concentra sui dialoghi, infarciti di considerazioni teoriche e morali, ma non riesce a rendere pienamente credibile le dinamiche di confronto nell’ambito dell’universo distopico descritto. Significativo il cast che comprende Michael Shannon, più convicente, e Michael B. Jordan e Sofia Boutella, non proprio efficaci. |
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"Farenheit 451", Ramin Bahrani
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"The Man Who Killed Don Quixote ", Terry Gilliami |
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The Man Who Killed Don Quixote, di Terry Gilliam (UK), (voto: 4) era un film molto atteso, perché leggendario e “maledetto”. Un’opera caotica e fluviale, dopo una gestazione “epica” e rocambolesca di 25 anni e svariate traversie produttive, che rilegge il capolavoro di Cervantes attraverso un’operazione contorta e di corto respiro di meta-cinema, ovvero di film nel film. Toby (Adam Driver), un regista quarantenne americano ormai cinico, che ha esordito 20 anni prima con un filmetto indie in bianco e nero su Don Quixote, torna in Spagna, nella regione de La Mancha, per girare un altro film ad alto budget sull’eroe di Cervantes. Ma il grottesco e losco produttore (Stellan Skarsgård), in crisi con i finanziamenti, blocca il set. Il regista si avventura nel paesino dove vive il ciabattino (Jonathan Pryce) che aveva interpretato quel suo primo film e lo ritrova, ormai folle e delirante, convinto di essere il vero Don Quixote. Da quel momento si sviluppa una sarabanda, con ritmi indiavolati (ma anche con vari momenti di stanchezza e di impasse) in cui tutti si inseguono, tra vari livelli di finzione (un presente e un doppio passato), personaggi astrusi e ”malvagi”, gitani e un oligarca mafioso russo, passioni, tradimenti e straordinarie avventure.
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La genialità istrionica dell’americano, naturalizzato britannico, Terry Gilliam, nonostante la macchina scenica coloratissima approntata, qualche simpatica invenzione e fulminante intuizione, preziosismi visivi, alcuni momenti commoventi o intrinsecamente tragici e molto mestiere, non riesce mai a rinnovare i fasti dei felici e unici lavori cinematografici dell’epoca dei Monty Python, eccessivi, forse anche narcisistici e baroccheggianti, ma vivacissimi, intelligenti, caustici e anticipatori. Purtroppo, Gilliam sconfina nel territorio della spettacolarità elegante dei film prodotti dalla Walt Disney e non trova mai un’efficace, coerente e graffiante chiave poetica e scenica. Propone una narrazione labirintica, dispersa in mille rivoli, stratificazioni, complesse evoluzioni e incastri, lascia troppa iniziativa interpretativa agli attori, i quali replicano singolarmente la loro consueta maniera, e oscilla tra generi diversi senza riuscire ad amalgamarli, dal mitologico surreale, al dramma picaresco e storico, al fantasy e alla pochade.
Artic, di Joe Penna (Brasile), (voto: 3 / 4) è un survival drama estremo, ambientato in inverno in un’area disabitata della Groenlandia. Un film mainstream non proprio spettacolare e piuttosto prevedibile, nonostante alcune “calcolate” sorprese per impressionare adeguatamente l’audience. Un quarantenne sconosciuto (Mads Mikkelsen), forse ricercatore scientifico e unico sopravvissuto di un precedente incidente, è accampato nella carlinga di un piccolo aereo precipitato in un pianoro coperto di neve e ghiaccio e circondato da piccoli contrafforti. Overgård, il nome è cucito sul suo giaccone, dimostra di essere esperto, come si desume da alcuni efficaci dettagli, e cerca di resistere alla natura ostile, con temperature anche di – 60°, difendendosi dal pericolo degli attacchi degli orsi bianchi e nutrendosi del poco pesce che riesce a catturare. Poi, un giorno un elicottero, comparso dal nulla, precipita poco lontano e il protagonista salva una donna sconosciuta (Maria Thelma Smáradóttir), gravemente ferita all’addome e in coma.
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"Artic", Joe Penna
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Quindi, avendola caricata su una specie di rudimentale slitta, la trascina in un viaggio disperato nella landa desolata per cercare la salvezza, affrontando indicibili sofferenze, tempeste e pericoli e rischiando più volte la morte. Il trentenne brasiliano Joe Penna, già conosciutissimo youtuber e radicato negli USA, esordisce cercando di realizzare un art movie “eccezionale”, del tutto privo di dialoghi. Tuttavia la sua interpretazione dei canoni di genere è grossolana, con molti aspetti grotteschi e poco credibili e incongrue inserzioni musicali, e, nonostante il riconfermato carisma di Mikkelsen, fatto di fisicità, fascino e doti interpretative eccellenti, il film non riesce mai a procurare vera emozione.
"O grande circo místico", Carlos Diegues |
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O grande circo místico, di Carlos Diegues (Brasile), (voto: 3), è un rutilante fairy tale, ispirato da un poema di Jorge de Lima e impreziosito dalle accattivanti musiche di Chico Buarque e di Edu Lobo. Carlos Diegues, grande affabulatore e veterano del cinema brasiliano fin dall’epoca del Cinéma Nôvo, offre un affresco teatrale molto colorato, costellato di personaggi curiosi, situazioni “strabilianti” e molti clichés. Un film eccessivamente elegante, ma ben poco emozionante, con personaggi che non ispirano grande empatia. Vi si intrecciano l'amore, l'inganno, il sesso e la decadenza, mentre il finale “sorprendente” è poco riuscito.
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Le grand bain, di Gilles Lellouche (Francia), (voto: 3), propone il ritratto appena divertente di un gruppo di uomini depressi e perdenti, di varia estrazione sociale e culturale, a cui viene offerta un’incredibile opportunità di riscatto. Un film a metà strada tra il dramedy con velleità di analisi psicologica e la pochade anticonformista e libertaria. L’esordio alla regia del noto attore francese Gilles Lellouche costruisce la storia senza grande genialità e invenzioni comiche, con molti clichés e momenti di stanchezza, adattandola piattamente alle qualità interpretative del suo cast che comprende attori consolidati del jet set francese, tra cui Mathieu Amalric, Jean-Hughes Anglade, Guillaume Canet, Benoît Poelvoorde e Virginie Efira, peraltro non così brillanti, essendo limitati dalla eccessiva tipicità dei personaggi. Un lavoro senza grandi pretese con meccanismi narrativi piuttosto risaputi, destinato al grande pubblico.
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"Le grand bain", Gilles Lellouche |
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I film della sezione Un Certain Regard di Cannes 2018
Di seguito il commento critico dei migliori film e di un paio fra i più deludenti, presentati nella sezione Un Certain Regard, con annotazione dei premi assegnati dalla Giuria presieduta da Benicio Del Toro.
"Donbass", Sergei Loznitsa |
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Donbass, di Sergei Loznitsa (Ucraina), ha ottenuto il meritato Premio U. C. R. alla miglior regia (voto: 7 / 7 e mezzo). Si tratta di un’immersione senza speranza nella guerra feroce e assurda, iniziata nel 2014 e tuttora in corso nel Donbass, la regione orientale russofona dell’Ucraina. Un territorio occupato da varie gang criminali e da paramilitari separatisti, sostenuti finanziariamente e militarmente dalla Russia, che combattono l’esercito ucraino, appoggiato da ambigui volontari nazionalisti. I 13 episodi, ispirati a fatti reali e collegati tra loro in un percorso ellittico, raccontano le sofferenze di cittadini ordinari esposti al fuoco degli obici, ma anche a furti, soprusi e violenze di ogni tipo e ovunque, tra episodi insensati, grotteschi, tragici ed efferati. Sergei Loznitsa, nato nel 1964 in Bielorussia e cresciuto in Ucraina, conferma un percorso coerente: nei suoi precedenti lungometraggi narrativi, My Joy (2010), In the Fog (2012) e A Gentle Creature (2017), ha costruito impressionanti parabole riguardanti la sopraffazione ricorrente sulla popolazione operata dalle mafie e dai corpi dello stato preposti all’ordine pubblico, presenti da anni in Russia e in Ucraina.
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In Donbass propone un quadro di totale disumanizzazione e di disgregazione sociale, tra corruzione e frodi sistematiche, propaganda aggressiva di false verità e odio diffuso, che condizionano identità e relazioni: un viaggio agli inferi in cui la vita e la morte sono indissolubilmente intrecciate. Loznitsa coniuga un tragico realismo con toni satirici e assurdi. La sua messa in scena si nutre di una straordinaria composizione delle inquadrature, con cesellati piani fissi e piani sequenza e meravigliose scene di teatro da camera. In aggiunta vi è da citare la formidabile fotografia del suo consueto collaboratore, il cameraman moldavo - romeno Oleg Mutu, che usa organicamente il formato scope e che costruisce immagini costantemente utili all'informazione narrativa.
Border, di Ali Abbasi (Danimarca), ha ricevuto il Premio U. C. R. al miglior film (voto: 6 e mezzo). È un dramma - horror che sconfina in un cupo fairy tale, intrigante e piuttosto insolito. La trentenne Tina (Eva Melander), agente della dogana, controlla i passeggeri che arrivano a Stoccolma via mare dalla Finlandia e, grazie al suo olfatto non comune, individua la colpevolezza di delinquenti e trafficanti. Fisicamente sgraziata, incontra Vore (Eero Milonoff), un individuo sospetto, di fronte al quale le sue capacità sono messe alla prova per la prima volta. Tina sente che Vore nasconde qualche cosa, ma non riesce a comprendere di quale mistero si tratti. E inoltre sente una strana attrazione verso quell’uomo che presenta tratti somatici simili ai suoi. Quando, dopo alcune esitazioni, inizia una relazione con Vore, Tina scopre la loro comune identità e natura di creature umanoidi, fisicamente e moralmente ambivalenti, diverse dai comuni esseri umani.
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"Border ", Ali Abbasi
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Da quel momento si innescano esiti inaspettati. L’opera seconda dell'iraniano Ali Abbasi, radicato in Danimarca e già autore del period film horror Shelley (2016), adatta una novella di John Ajvide Lindqvist ed evoca i trolls, figure inquietanti della letteratura fantastica nordica, e fonde vari registri: ambivalenza della natura, sofferenza dei “diversi”, amore, brutalità, humour grottesco e violenza. La messa in scena è ricca di qualità e garantisce un continuo interesse per la narrazione anche nei rari momenti in cui appare un poco arzigogolata.
"Rafiki", Wanuri Kahiu |
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Rafiki, di Wanuri Kahiu (Kenya), (voto: 6), è un film che ha subito una preventiva condanna politica in Kenya, prima ancora di essere concluso. Si tratta di un’opera prima che racconta una storia d’amicizia e di amore lesbico a Nairobi, con meccanismi narrativi semplici, paradigmatici e abbastanza prevedibili. Peraltro mostra un approccio fresco, non banale e abbastanza autentico ed evita sia esagerati toni melodrammatici sia accenti didascalici di scontata denuncia. Ispirato dal romanzo "Jambula Tree", di Monica Arac de Nyeko, ambientato invece in Uganda, il film racconta la vicenda di Kena (Samantha Mugatsia) e Ziki (Sheila Munyiva), due diciassettenni che stanno terminando la scuola superiore. Divise da differenti frequentazioni e gusti in tema di moda e musica e, soprattutto, dal fatto di essere le rispettive figlie di due fieri avversari politici, in corsa nelle imminenti elezioni locali, iniziano a conoscersi e simpatizzano. Poco a poco tra loro nasce un sentimento più forte e una vera relazione passionale.
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Tuttavia, quando una matrona del quartiere le sorprende e aizza la folla contro di loro appellandosi alla diffusa omofobia, subiscono punizioni e violenze e devono fronteggiare l’incomprensione di quasi tutti i loro familiari e di vari amici. Di fronte alla drammaticità e ai rischi della situazione le due ragazze cercano di preservare la propria identità. Il film di Wanuri Kahiu presenta alcune aspetti chiaramente positivi: la vicenda è ambientata in un quartiere non degradato e riguarda un contesto di piccola borghesia e di gioventù “normale” che mostra una certa modernità nell’abbigliamento e nelle preferenze culturali, fatto piuttosto insolito nel cinema africano; la rappresentazione di usi e costumi e morale condivisa di una società improntata al conservatorismo è abbastanza credibile e il pregiudizio omofobico della popolazione e delle famiglie è mostrato senza eccessi retorici o sensazionalisti; la caratterizzazione dei personaggi evita lo psicologismo di maniera; la ovvia autocensura rispetto alle scene di sesso non inficia la messa in scena.
Manto, Di Nandita Das (India), (voto: 6) è un period drama di grande impegno, che racconta gli anni cruciali della vita di Saadat Masan Manto (1912 - 1955), uno tra i più grandi autori di racconti e di sceneggiature nella storia della cultura in India. In quell'epoca Manto è considerato uno scrittore estremamente brillante e poetico, ma controverso perché si dedica a ritratti femminili non tradizionali, spesso anche di prostitute. Orgoglioso, tormentato e alcolista, dopo la sanguinosa partizione tra India e Pakistan, nel 1947, si trasferisce da Bombay a Lahore, essendo musulmano. Ma si trova a disagio ed è costretto a subire un doloroso processo giudiziario dopo che i suoi testi sono stati identificati come prove per l’accusa di oscenità. Contemporaneamente anche i rapporti con sua moglie e i familiari entrano in crisi. L’opera seconda della nota attrice indiana Nandita Das, già regista del convincente dramma realista Firaaq (2008), è un biopic intenso ed elegante. Nonostante qualche passaggio convenzionale, la narrazione è efficace soprattutto grazie alla convincente interpretazione di Nawazuddin Siddiqui nel ruolo del protagonista |
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"Manto", Nandita Das
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"Sofia", Meryem Benm’Barek |
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Sofia, di Meryem Benm’Barek (Marocco, (voto: 6), ha ricevuto il Premio U. C. R. miglior sceneggiatura assegnato alla stessa Meryem Benm’Barek. È un’opera prima che affronta un tema scottante nella società marocchina, la gravidanza fuori dal matrimonio, che comporta sia l’emarginazione sociale della ”colpevole”, sia una pena detentiva per violazione dell’art. 490 del codice penale che sancisce i rapporti sessuali consensuali tra persone non unite da vincolo matrimoniale. Un dramma che, nonostante un’eccessiva stringatezza con conseguente parziale meccanicismo narrativo, configura bene sia la dialettica sociale del contesto, sia la caratterizzazione psicologica dai personaggi. La vicenda si svolge a Casablanca. Sofia (Sara Elmhamdi), ha vent’anni e vive in una famiglia piccolo borghese tradizionale che limita molto la sua libertà, quindi non ha sviluppato una personalità indipendente. Un giorno, proprio durante un incontro decisivo tra i suoi genitori, alcuni parenti più benestanti e un affarista francese da cui dovrebbe nascere una proficua impresa commerciale per la sua famiglia, Sofia si sente male.
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Lena (Sarah Perles), sua cugina, laureata in medicina, si rende subito conto che la giovane, pur negando a sé stessa di essere incinta, ha rotto le acque. Quindi, grazie ad alcune conoscenze, riesce a far ricoverare Sofia in una clinica privata e a farla partorire, ma l’ospedale concede solo 24 ore di tempo per far pervenire i documenti del padre del neonato prima di informare le autorità. Messa alle strette Sofia rivela infine che il padre del bambino sarebbe un giovane apprendista che abita in un quartiere proletario. Ma quando avviene il decisivo confronto tra le due famiglie, entrambe diffidenti e imbarazzate, il giovane indicato nega risolutamente ogni responsabilità. Nonostante il fastidio di dover stabilire una relazione familiare con sconosciuti poveri e rozzi, il padre di Sofia, per salvare la propria reputazione e gli affari, impone un matrimonio con registrazione retrodatata in modo da regolarizzare la nascita avvenuta. Meryem Benm’Barek, a partire dalla sua sceneggiatura che dimostra discreta credibilità e buona conoscenza dell’ambiente sociale e della problematica trattata, propone con sicurezza una disanima delle relazioni tra i personaggi, prevalentemente giocata su espressioni e gesti più che sui dialoghi, da cui emerge la progressiva manipolazione di ognuno verso l’altro e la compenetrazione di cinismo, ipocrita adesione alla morale comune e penoso tentativo di imitazione di comportamenti delle società europee. Peraltro evita sia la retorica naturalista e prosaica sia la sterile deriva didascalica. Il dispositivo cinematografico di Sofia ricorda, in qualche modo, gli intrighi narrativi, i dilemmi morali, la dialettica tra i personaggi, la rivelazione di verità nascoste e la posizione del regista scevra di giudizi che sono tipici dei migliori film del regista iraniano Asghar Farhadi. Peccato che l’epilogo, pur drammaturgicamente efficace, appaia un poco artificioso e inopinatamente sarcastico.
The Gentle Indifference of the World (Laskovoe bezrazlichie mira), di Adilkhan Yerzhanov (Kazakhstan), (voto: 6), è un dramma con interessanti implicazioni sociali. Un film inconsueto e affascinante, ancorché imperfetto e squilibrato, con una caratura teatrale ed echi surreali e di genere. La ventenne Saltanat (Dinara Baktybayev), molto attraente, laureata in medicina, esperta di informatica e appassionata di letteratura e pittura, si ritrova oberasta dai debiti del padre che si è suicidato. Per evitare che sua madre sia arrestata e che la casa e il piccolo podere di famiglia siano confiscati parte dal villaggio natio accompagnata da Kuandyk (Kuandyk Dussenbaev), un amico d’infanzia, leale e innamorato di lei, prestante lottatore, ma squattrinato, che le offre protezione. Giunta in città incontra uno zio che si offre di trovarle un marito cercandolo tra i suoi soci in affari. Purtroppo Saltanat finisce per incontrare solo loschi individui che vogliono approfittarsi di lei, essendo nel frattempo costretta ad accettare umili occupazioni. |
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"The Gentle Indifference of the World ", Adilkhan Yerzhanov
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Poco a poco un sentimento puro di solidarietà e di amore si sviluppa tra i due protagonisti. Finché Kuandyk attua un piano folle e disperato per aiutarla. Adilkhan Yerzhanov propone un approccio esistenzialista, simbolista e tragicamente fatalista, con note di humour dissacrante e suggestioni letterarie e pittoriche. E mostra uno stile minimalista: la scansione narrativa lenta e dilatata, con inquadrature statiche che compongono suggestivi tableaux vivants, panoramiche di paesaggi luminosi a cui si contrappongono interni cupi e minacciosi, è interrotta da accelerazioni stilizzate. Il sottotesto di parabola sull’onore e sulla dignità, e di denuncia di una società indifferente e ben poco disponibile nei confronti di chi soffre disgrazie o rovesci, dove la corruzione e un ottuso machismo imperversano, è risolto attraverso un’elegia poetica e utopica di sopravvivenza e di resilienza anziché in termini di denuncia didascalica.
"Long Day’s Journey into Night", Bi Gan |
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Long Day’s Journey into Night (Di qiu zui hou deye wan), di Bi Gan (Cina), (voto: 5), è un dramma esistenziale - pseudo noir che coniuga realismo di luoghi impoveriti e surrealismo romantico. Un’opera che propone metafore poetiche criptiche, digressioni oniriche, irruzioni del fantastico nel quotidiano e precipitazioni in un suggestivo immaginario ingannevole. Un estenuante itinerario notturno in 3D, filmato in un unico piano sequenza di 50 minuti, dopo un lunghissimo prologo di 80 minuti che evoca un omicidio irrisolto e mette insieme dolori recenti e del passato. Il quarantenne Luo Hongwu (Huang Jue) torna a Kaili, la sua cittadina di nascita, nella provincia sudorientale di Guizhou, da cui era fuggito dodici anni prima. Vuole ritrovare la donna misteriosa che ha amato perdutamente per pochi mesi, ma si imbatte in una schiera di personaggi singolari ed è coinvolto in esperienze assurde. Figure losche, inquietanti o strampalate, pistole, misteriosi messaggi, un vecchio cinema, un karaoke, labirinti e stanze della tortura, un palco su cui si esibisce una cantante tradizionale e una femme fatale che irretisce il protagonista e poi lo abbandona.
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Già autore di un pluripremiato lungometraggio di esordio, Kaili Blues (2015), il ventinovenne cinese Bi Gan ripropone anche in questa opera seconda il suo cinema “fenomenologico” che comporta una narrazione non lineare ed ellittica, sospesa tra il tempo e lo spazio, soluzioni di messa in scena concepite per sbalordire, immagini curatissime e fluttuanti, spesso claustrofobiche, e un ampio uso del piano sequenza. Tuttavia la trama è volutamente e continuamente destrutturata in un gioco di detours spaziali, contorsioni temporali e, atmosfere indecifrabili che si avvita su sé stesso e il film risulta più pretenzioso e meno efficace rispetto al precedente, rasentando un asfittico manierismo estetizzante. Si notano le fredde citazioni di film di Tsai Ming-Liang e di Wong Kar-wai, ben lontane dalla commovente malinconia che promana dalle opere di quegli autori, e, purtroppo, anche vane imitazioni di certe astruserie narcisistiche di David Lynch.
El Ángel, di Luis Ortega (Argentina), (voto: 4), è un crime drama che racconta la storia vera di Carlos Eduardo Robledo Puch, un diciassettenne soprannominato "l'Angelo della morte" che confessò di aver compiuto, nel periodo di soli due anni, dal 1971 al 1973, 11 omicidi, 1 tentato omicidio, 17 rapine, uno stupro, un tentato stupro, un abuso sessuale, due sottrazioni di minorenne e due furti. Uccise le sue vittime in svariati modi, con accoltellamenti, sparatorie, colpendole a morte con una pietra e tagliando loro la gola. Luis Ortega propone un period film improntato a un naturalismo baroccheggiante con un’interessante scenografia d’epoca, gli anni ’70, e con soluzioni estetiche caratterizzate da un virtuoso gioco dei movimenti della macchina da presa. A partire da una sceneggiatura lacunosa e viziata da troppe semplificazioni, non si disperde in sterili analisi psicologiche, ma l’escalation drammatica risulta incerta, tra vana emulazione di Martin Scorsese ed evidenti similitudini con El clan (2015) di Pablo Trapero. Ne risulta un ritratto criminale di Carlitos (Lorenzo Ferro) in parte grottesco, in parte ambiguamente mitizzante.
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"El Ángel", Luis Ortega
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Oltre alla rappresentazione delle imprese criminali del protagonista, Luis Ortega pone al centro del film la relazione di Carlitos con i suoi miti e ingenui genitori (Cecilia Roth e Luis Gnecco) e descrive le relazioni polisessuali del giovane criminali e i suoi ambigui rapporti con l’amico e sodale Ramón (Chino Darín) e con i genitori di quest’ultimo (Daniel Fanego e Mercedes Morán). Comunque predomina una certa strumentalità nelle modalità narrative che si propongono di suscitare facili emozioni nello spettatore.
I film della sezione Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2018
Di seguito le valutazioni critiche di alcuni fra i migliori film e di un paio tra quelli negativi presentati nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.
"Pájaros de verano", Ciro Guerra |
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Pájaros de verano (Birds of Passage), di Ciro Guerra e Cristina Gallego (Colombia), (voto: 7 e mezzo), è un film avvincente: una magnifica saga, con echi di tragedia greca, una precisa caratterizzazione etnico - culturale e significativi valori estetici. Ambientato nella regione della Guajira, una vasta area desertica del tutto pianeggiante, affacciata sul Mar Caribe, a cavallo dell’incerto confine tra Colombia e Venezuela, racconta un’epopea che riguarda la fiera minoranza indigena dei Wayúu. Si tratta di una popolazione divisa in clan: allevatori di capre e di bovini e commercianti - contrabbandieri, gelosi delle tradizioni culturali e dei complessi codici protocollari e morali, preservati durante secoli, la cui trasgressione comporta gravi pene, fino all’allontanamento dalla comunità. Tra l’altro tutti gli attori che interpretano personaggi Wayúu si esprimono parlando l’idioma wayuunaiki, appartenente dell’antichissimo ceppo linguistico Arawakan (anche se molti esponenti delle organizzazioni di trafficanti parlano anche lo spagnolo), e le loro danze e i costumi sono autentici, rivelando influenze gitane e asiatiche.
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La storia, strutturata in 5 atti e situata nell’arco temporale di 12 anni, dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70, riguarda il progressivo coinvolgimento del clan Pushaina nel traffico della marijuana, coltivata da parte di un altro clan nelle aspre vallate montane del retroterra e venduta a organizzazioni malavitose statunitensi. Una parabola pessimista sull’avidità e sulla lotta senza tregua per il potere che si sviluppa da un inizio quando l’attività nasce su basi artigianali, alla “bonanza”, cioè agli anni degli affari in grande scala, e poi all’insorgere di un conflitto tra le due famiglie allargate, fino a un escalation sanguinosissima, attraverso una catena di sgarbi, provocazioni, e scontri in difesa del rispettivo orgoglio e in risposta a questioni di onore ferito e di violazione dei codici, con mattanze da entrambe le parti, che produce un impressionante “limbo” finale, dopo l’annientamento di entrambe le organizzazioni di narcotrafficanti. All’inizio della storia, nel 1968, il quasi trentenne Raphayet (José Acosta), un piccolo contrabbandiere di benzina e liquori, inizia un modesto traffico di marijuana vendendola a “hippies” americani dei Peace Corps che propagandano la lotta contro il comunismo. È spinto dalla necessità di dover acquistare la cospicua dote di bestiame richiesta per sposare la bella Zaida (Natalia Reyes). E il matrimonio avviene perché Ursula (Carmiña Martínez), la madre della sposa, nonché rispettata ed energica leader del clan Pushaina supera le iniziali riserve e riconosce le capacità del genero. Nel giro di alcuni anni Raphayet allarga enormemente i suoi affari grazie agli ingenti rifornimenti di droga assicurati dal clan di coltivatori della Sierra di Santa Marta, suoi lontani parenti, e ai contatti con le gang negli USA che inviano piccoli aerei per caricare la marijuana. Tuttavia lui, che non è certo un eroe accecato dalle passioni, è costretto a uccidere per la prima volta, spinto dalla ferrea imposizione di Ursula: ammazza Moises (Jhon Narvaez), un mulatto suo antico compare di traffici e socio nel traffico di marijuana che si è montato la testa, spinto dalla megalomania e dall’avidità, ha infranto i codici dei Wayúu e truffato e ammazzato membri del clan dei fornitori. Nel frattempo la prosperità produce due conseguenze: la famiglia di Raphayet e Ursula abbandona il loro villaggio di capanne e si trasferisce in un’incredibile villa fortificata; inizia un massiccio acquisto di armi automatiche sempre più potenti. Poi inizia la guerra con l’altro clan. Ciro Guerra è autore dei convincenti e affascinanti Los viajes del viento (2009), un road movie che propone il ritratto di Ignacio Carrillo, un anziano e rinomato suonatore di accordéon, un juglar ovvero un menestrello nomade, che ha trascorso la sua vita esibendosi nei villaggi del nord della Colombia, e di El abrazo de la serpiente (2015), un potente dramma epico, con venature mistiche e psichedeliche, che racconta la storia dell'incontro tra uno sciamano indigeno, che vive nell'Amazzonia colombiana, poi divenuto un chullachaqui, un individuo senza memoria, e due diversi etnologi bianchi. In Pájaros de verano Ciro Guerra e Cristina Gallego, a partire dalla puntuale sceneggiatura di Maria Camila Arias e Jacques Toulemonde Vidal, propongono un affresco stratificato e molto ben risolto, che rilegge e reinterpreta molti canoni dei generi noir e thriller, adeguandoli al contesto culturale e storico e non disdegnano la contaminazione con il genere western. Inoltre utilizzano sia l’espediente di una specie di cantastorie cieco che iterativamente commenta i passaggi cruciali della vicenda, sia intermezzi in cui si dispiegano sequenze oniriche, e la loro interpretazione da parte dei protagonisti, in un’alternanza tra pregnante realismo, simbolismi e metafore, senza perdere mai il filo conduttore del dramma, né palesare vere tentazioni di costumbrismo o derive didascaliche, nonostante l’evidente sottotesto sociale e politico della vicenda. Da un lato sembra riconoscere un itinerario di impressionante ascesa e di tragica sconfitta di un’avventura criminale che fa pensare, in un contesto ben diverso, a Scarface (1983), di Brian De Palma. Ma dall’altro la perfetta descrizione della progressiva perdita di identità culturale e corruzione dell’anima e dello sviluppo di un crescente conflitto all’interno del clan Pushaina, tra Ursula e Raphayet, con recriminazioni reciproche e il lento imporsi di pregiudizi, paura e fatalismo, prima ancora della battaglia finale, testimoniano l’originalità e la coerenza del progetto e la qualità drammaturgica del film. La messa in scena dimostra una notevole sensibilità estetica attraverso la piena valorizzazione del paesaggio e l’uso di intensi primi piani, conturbanti piani sequenza, sequenze più descrittive negli ambiti familiari, nervose accelerazioni e inquadrature frontali con immagini iconiche. In aggiunta la straordinaria qualità della fotografia curata da David Gallego, il credibile lavoro, ricco di autenticità, di set decoration da parte di Juan David Bernal e di costume design a cura di Catherine Rodríguez e la interessante colonna sonora curata da Leonardo Heiblum.
Les confins du monde (To the End of the World), di Guillaume Nicloux (Francia, (voto: 7) è un melodramma ambientato nel contesto della guerra coloniale della Francia in Indocina, alla fine della II Guerra Mondiale. Un film solo apparentemente classico, impregnato di senso della sconfitta e confronto distorsivo tra percezione della realtà e coscienza, con momenti molto efficaci e aspetti stilistici pregevoli. Un racconto in cui si mescolano crudeltà, dolore, amore e ricerca della vendetta. Nel marzo del 1945, mentre nelle giungle tropicali sulle colline del nord Vietnam si fronteggiano caoticamente i francesi, i guerriglieri indipendentisti, nazionalisti e comunisti vietnamiti e i giapponesi in ritirata, Robert Tassen (Gaspard Ulliel), un giovane soldato dell’Armée francese, sopravvive miracolosamente a un massacro, con 7000 vittime, perpetrato dai giapponesi, nell’indifferenza dei guerriglieri vietnamiti, in cui sono stati trucidati suo fratello e la cognata incinta. Giunto stremato e gravemente ferito in un villaggio, viene nutrito e curato dai contadini locali.
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"Les confins du monde", Guillaume Nicloux
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Quindi, dopo essere riuscito ad evitare le pattuglie dei nemici, riesce a raggiungere una città della costa e ottiene di essere re-incorporato nel contingente militare francese, avendo rifiutato il rimpatrio. In realtà la guerra per lui è diventata un fatto personale: vuole a tutti i costi ritrovare Vo Binh, un ufficiale dei guerriglieri di Ho Chi Minh, che considera il vero responsabile della morte dei suoi congiunti, per vendicarsi. Intraprende quindi una nuova fase della sua esperienza bellica in cui si trova a partecipare a una serie di missioni cruente in ambienti naturali impervi e ostili: episodi di una guerra sporca con tradimenti, raccapriccianti esecuzioni da parte dei guerriglieri con smembramento dei corpi dei soldati francesi vittime di imboscate, per lanciare un macabro monito, fosse comuni, torture e violenze da parte dei francesi contro la popolazione locale tra cui si nascondono i guerriglieri. Dopo un’iniziale incapacità a legare con i nuovi compagni, dovuta anche al suo carattere scontroso e all’indole di taciturno, Robert diventa amico di Cavagna (Guillaume Gouix) un generoso, ma polemico commilitone. Inoltre incontra Saintonge (Gérard Depardieu), un anziano scrittore, misterioso ed enigmatico, che gli espone la sua filosofia al tempo stesso scettica e cinica e, al contrario, vitalista. Nel frattempo, tutte le volte che torna alla base militare in città, Robert si reca da Maï (Lang Khê Tran), una giovane prostituta vietnamita che non comprende i suoi sbalzi d’umore e la sua gelosia anacronistica. La loro relazione, pur intensa, assume aspetti distruttivi. Guillaume Nicloux propone una rilettura del cinema di genere bellico, interpretando in modo originale la disfatta emotiva dei soldati francesi, sconfitti moralmente in una guerra che appare loro inutile e assurda, anche perché la violenza degli scontri, sempre brevi, con un nemico quasi invisibile si risolve spesso in una deriva onirica o allucinatoria. Configura atmosfere esistenziali distopiche che fanno pensare sia al notissimo romanzo “Cuore di tenebra” (1899) di Joseph Conrad, sia, in qualche modo, al viaggio fluviale per incontrare il Colonnello Kurz in Apocalipse Now (1979), di Francis Ford Coppola, e alla perdita della coscienza in Aguirre, Wrath of God (1972), diWerner Herzog. Les confins du monde presenta una suggestiva scansione narrativa circolare per cui le situazioni sembrano ripetersi senza un preciso punto d’arrivo. Infatti, il finale aperto, ma verosimilmente tragico, con la magnifica sospensione narrativa e la ellissi rispetto al destino di Robert, appare del tutto efficace e conseguente. Lo stile, crudo e realistico, ma mai compiaciuto o narcisistico, si sostanzia in movimenti di macchina avvolgenti, inquadrature fisse molto prolungate e accelerazioni gestite con la telecamera a mano durante le scene d’azione, accompagnati dalla magnifica fotografia ricca di tonalità, curata da David Ungaro.
"Leave No Trace", Debra Granik |
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Leave No Trace, di Debra Granik (USA),(voto: 6 e mezzo / 7), adatta il romanzo “My Abandonment” (2009), di Peter Rock, ispirato da una storia vera. È un dramma familiare atipico, costruito mettendo in relazione due personaggi, che hanno scelto la marginalità e l’anonimato, con il paesaggio boschivo come fattore di protezione. È uno studio di caratteri condotto all’insegna di un notevole understatement. In effetti, al di là dell’empatia e della tenerezza della regista nei confronti dei suoi due protagonisti, che traspare dalla narrazione sempre discreta, chiara e senza artificiose barriere, Granik mette in evidenza le contraddizioni nell’ambito del loro rapporto, ma non li giudica mai. Pur essendo ormai autunno, il quasi quarantenne Will (Ben Foster) e sua figlia quindicenne Tom (Thomasin McKenzie) vivono clandestinamente, appartati e accampati nella zona più fitta di Forest Park, un enorme parco naturale nei dintorni di Portland, in Oregon. Hanno approntato un rifugio temporaneo utilizzando fogli di plastica e assi di legno.
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Vivono in modo spartano lavandosi nei torrenti e cacciando piccola selvaggina e utilizzano una piccola ’attrezzatura per cucinare. Allo spettatore non viene mai spiegata la vera motivazione di quella scelta. Invece si apprende che Will riesce a racimolare il denaro necessario per comprare viveri e provviste necessarie grazie a una piccola attività illegale: il commercio clandestino di farmaci antidolorifici che l’uomo si procura in ospedale falsificando ricette mediche. Gelosi della segretezza della loro vita, lontano dalla civilizzazione, sembrano felici e riducono al minimo le escursioni in città. Ma un giorno vengono sorpresi da un irruzione della polizia, fermati, interrogati e costretti a lasciare il loro rifugio perché occupano abusivamente uno spazio pubblico. Quindi vengono affidati ai servizi sociali che offrono loro un appartamento, un lavoro per Will e la possibilità di frequentare la scuola per Tom. L’uomp cerca di adattarsi ma incontra molte difficoltà. La ragazzai invece è incuriosita da questo nuovo stile di vita. Questo cambiamento influisce sul loro rapporto. Debra Granik è autore del pluripremiato Winter’s bone (2010), un’opera ibrida, perché si presenta come un thriller gotico e come una saga rurale, ambientata in una regione montuosa dello stato del Missouri, ma al tempo stesso è uno straordinario coming-of-age film, combinato con il ritratto di una comunità marginalizzata, tra pauperismo, egoismo, misoginia e violenza, e con lo studio naturalistico dei suoi personaggi. Un film duro, amaro e a tratti lugubre e disperato, che offre momenti di grande suspence, costruiti utilizzando le formule cinematografiche classiche e riecheggiando i fairy tales dei fratelli Grimm. In Leave No Trace conferma la sua preferenza per il character drama e ancora una volta racconta personaggi outsider (in questo caso per scelta), ma, pur articolando un “fugitive tale”, opta per collocare l’elemento thriller solo come cornice perché mette a fuoco, al centro del racconto, la relazione tra padre e figlia. E inserisce il paesaggio boschivo in un ruolo di terzo protagonista. Inoltre il film presenta non poche affinità, sia per il territorio di ambientazione, la costa occidentale degli USA del Pacifico, sia per alcune caratteristiche drammaturgiche e scelte stilistiche, con il secondo e il terzo lungometraggio realizzati dall’americana Kelly Reichardt: Old Joy (2006), un road movie atipico che racconta, con semplicità e fine intensità, una storia di amicizia maschile in un periodo temporale limitato, una fase di passaggio, e Wendy and Lucy (2008), un delicato racconto minimalista, caratterizzato da scarsi dialoghi ed interessanti tagli documentaristici, in cui viene descritta, con lirismo dolce-amaro e con una sottile vena realistica, la condizione esistenziale di una ventenne in viaggio con la sua amatissima cagna. In effetti anche Leave No Trace presenta un approccio minimalista e diretto, sebbene la narrazione sia complicata dalla sottile tensione per la continua ossessiva preoccupazione di padre e figlia di evitare l’incontro con funzionari dei servizi sociali, per paura di essere separati e i normalizzati. L’atmosfera domina l’azione e i silenzi sono più significativi delle parole. Apparentemente succede molto poco, anche se il fermo da parte della polizia è un evento altamente drammatico perché, seppure non violento, mette in crisi l’autonomia che Will considera essenziale per sé e per sua figlia. Mentre è determinante come i due protagonisti mantengano un forte legame di complicità e codici comunicativi peculiari. La contraddizione, che conduce poi all’epilogo, deriva semmai dal diverso atteggiamento che matura in Tom rispetto a nuovi bisogni, a un diverso equilibrio e a un possibile nuovo futuro. E Will, nonostante il suo fanatismo antisistema, anche se non esplicitamente, si rende conto di non poter più condizionare la figlia e che, siccome la ama, deve lasciarla andare. Debra Granik dimostra grande sensibilità e non è affatto didascalica: riesce sempre ad interrompere visivamente i momenti più intimi evitando i toni prosaici e il climax emotivo; evita le facili soluzioni drammaturgiche di maniera; costruisce un ritratto convincente ed essenziale di certi aspetti e contraddizioni della vita negli States e, in particolare, del rapporto tra cittadini e istituzioni. In aggiunta vi è da segnalare sia la qualità della fotografia, curata da Michael McDonough, che cattura specifiche tonalità del paesaggio autunnale, sia le convincenti performance interpretative, tutte giocate su espressioni e gesti, di Ben Foster e Thomasin McKenzie.
Weldi, di Mohamed Ben Attia (Tunisia), (voto: 6 e mezzo) propone il ritratto drammatico della disgregazione di una famiglia di onesti lavoratori in seguito a un evento inaspettato. Riadh (Mohamed Dhrif), gruista al porto di Tunisi alla vigilia della pensione, e la moglie Nazli (Mouna Mejri) sono molto protettivi verso Sami (Ben Ayed), il loro figlio unico diciottenne in attesa di finire il liceo. Da un lato si mostrano molto preoccupati per le continue crisi di emicrania che tormentano il giovane, dall’altro lo sovraccaricano di aspettative. Un giorno Sami scompare: si apprende che si è recato in Siria e si è unito all'ISIS. Riadh cerca invano di ottenere informazioni e fattivi interventi da parte della polizia. Poi entra in conflitto con sua moglie e infine, rotti gli indugi, effettua un viaggio in Turchia. Laggiù incontra varie persone senza alcun risultato concreto, anzi ritorna a casa più sconcertato di prima. Solo dopo molti mesi Sami effettua un breve contatto via skype con il padre e la madre solo per far loro conoscere la donna che ha sposato e il bambino nato da poco. Ma a quel punto le strade di Riadh e di Nazli si dividono.
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"Weldi", Mohamed Ben Attia
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L’opera seconda del tunisino Mohamed Ben Attia continua la sua interessante radiografia del disagio esistenziale in una società sottoposta a drammatici cambiamenti, già intrapresa nel suo lungometraggio di esordio, Hedi (2016). Anche in questo film è centrale il rapporto tra genitori protettivi e attaccati alle tradizioni e figli vittime delle propria irresolutezza, del velleitarismo e dell’irresponsabilità. Tuttavia il regista sceglie un approccio e una scansione narrativa diversi rispetto a quelli che caratterizzano Hedi, in cui il vero protagonista è il figlio a confronto con una madre vedova, benpensante, ossessiva e autoritaria. E ne risulta una maggior credibilità dei personaggi e una loro disanima psicologica più incisiva. In Weldi, Ben Attia non svela mai le motivazioni del gesto di Sami, ma racconta i genitori prima e dopo la sua partenza, dall'apparente tranquillità felice alla disperazione. La narrazione è asciutta ed efficace e gli interpreti sono convincenti.
"Petra", Jaime Rosales |
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Petra, di Jaime Rosales (Spagna), (voto: 2), è un antimelodramma tragico e moralista centrato sul cinismo e sulla crudeltà dei borghesi ricchi. Una saga familiare tra menzogne, segreti e colpi bassi. Jaume (Joan Botey) è un sessantenne catalano, grande nome dell'arte moderna internazionale, che umilia la moglie Marisa (Marisa Paredes) e disprezza il figlio Lucas (Alex Brendemühl), un fotografo tormentato, ma incapace di rompere con lui: i tre si confrontano con Petra (Bárbara Lennie), una trentenne che cerca di sapere se il "mostruoso" patriarca è anche suo padre. Jaime Rosales mette insieme estenuanti conversazioni, fredde provocazioni, violenza inaudita e inspiegabile e autolesionismo, salvando, nel corso di un epilogo grottesco, solo le due donne. Imita maldestramente Michael Haneke, essendo peraltro ben lontano dal geniale cinema del regista austriaco, disturbante, spiazzante e molto incisivo perché gestisce con netta distanza emotiva lo studio quasi entomologico dei caratteri dei suoi personaggi, sfidando gli spettatori, ma senza ricattarli emotivamente o tradirli.
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In effetti Rosales, ormai molto involuto rispetto al suo eccellente Tiro en la cabeza (2008), magistrale osservazione statica di una violenza aberrante, ha scelto un registro naturalista grossolano a partire da un approccio aridamente ideologico e narcisista che strumentalizza la vicenda che riguarda la protagonista, ovvero la sua ricerca della figura paterna, per impartire sentenziosi messaggi mal dissimulati. La narrazione di Petra è oltremodo faticosa in virtù della scelta snobistica di procedere per capitoli secondo un ordine disordinato e parzialmente surreale, per occultare flashback e flashforward che complicano banali meccanismi di rivelazione di segreti e di misfatti. Per non parlare della strampalata estetica del film, caratterizzata da ricorrenti long take e piani sequenza ondeggianti del paesaggio da cui entrano ed escono i protagonisti, quasi a sottolineare una postura del regista quale demiurgo - giudice dei suoi personaggi che scimmiotta il cinema di Terrence Malick.
Los silencios, di Beatriz Seigner (Brasile), (voto: 2) è un dramma esistenziale con valenza politica e sociale che sconfina nel cinema di genere a tinte horror. Amparo (Marleyda Soto), una contadina con due bambini fugge dalla guerra civile in Colombia: Ha perso la casa e non ha notizie del marito che è stato sequestrato o assassinato. Ripara in un'isola sita tra le acque del Rio delle Amazzoni alla frontiera con Brasile e Perù, popolata da centinaia di altri desplazados colombiani mescolati alla popolazione autoctona che comprende persone di diverse nazionalità e indigeni amerindi brasiliani. Poco a poco risulta che Nuria (Maria Paula Tabarez Pena), la bambina di dodici anni, sempre taciturna, e suo padre Adao (Enrique Diaz), il marito di Amparo, che riappare tutte le notti, sono dei fantasmi. Attraverso una serie di stratagemmi narrativi di corto respiro, il film cerca di convincere lo spettatore che molti abitanti dell’isola stiano convivendo naturalmente con i fantasmi dei loro cari assassinati o scomparsi. E propone un susseguirsi di dialoghi artificiosi intorno ai temi della colpa, della sofferenza e del perdono. |
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"Los silencios", Beatriz Seigner
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Fino al pasticciato epilogo in cui avviene una sorta di cerimonia spirituale e magica notturna che, incredibilmente, sembra fondere, in termini politicamente corretti, la cultura dei bianchi e quella degli indigeni amerindi, celebrando i fantasmi dei morti insieme ai vivi che li ricordano. Un’epifania folkloristica grottesca in cui i corpi e i volti dei fantasmi sono coperti da disegni e arabeschi dai colori fosforescenti. La brasiliana Beatriz Seigner ha un doppio merito: aver girato la sua opera seconda in un luogo reale, molto suggestivo e aver selezionato un ottimo cast che comprende anche attori non professionali e residenti dell’isola. Tuttavia racconta una storia potenzialmente intrigante con eccessiva enfasi, approssimazione e toni naturalisti prosaici e decorativi, e utilizza malamente i canoni di genere. Forse tenta di imitare, con grande presunzione, suggestioni che provengono dai film di Apichatpong Weerasethakul. Comunque ne risulta un film poco credibile in termini drammatici e etnologici e una dimostrazione di conoscenza molto superficiale del contesto della guerra civile che si combatte in Colombia da oltre 50 anni.
I film della sezione Semaine de la Critique di Cannes 2018
Di seguito il commento critico di alcuni film presentati nella sezione Semaine de la Critique.
"Sir", Rohena Gera |
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Sir, di Rohena Gera (India, (voto: 8), ha ottenuto meritatamente il Premio Gan Foundation Award per la distribuzione ed è, a mio giudizio, uno dei migliori film visti al Festival di Cannes 2018. È un dramma esistenziale ricco di sfumature, credibile, autentico ed emozionante: un piccolo capolavoro. Racconta la dinamica di una relazione tra due persone separate dalla differenza di casta, di classe sociale, di educazione e cultura, ma vincolate da un rapporto classico, quello tra impiegato domestico e datore di lavoro. La ventenne Ratna (Tillotama Shome, molto convincente per la sincerità interpretativa), intelligente e intraprendente, è vedova e viene da un villaggio. Nella grande metropoli Mumbai (Bombay) è diventata la fidata domestica di Ashwin (Vivek Gomber), un trentenne di bell’aspetto e gentile, già aspirante scrittore, rientrato da New York per gestire i cantieri edili della sua ricca famiglia. La donna, minuta e poco appariscente, si muove con sicurezza nel lussuoso appartamento, adempiendo con efficienza alle mansioni assegnatele e sapendo essere riservata e stare al suo posto.
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Ashwin sta vivendo una fase difficile: dopo aver scoperto che la sua fidanzata lo ha tradito, ha rotto la relazione e annullato il matrimonio già programmato dai suoi genitori. Poco a poco si rende conto delle piccole attenzioni di Ratna, che gli prepara ottimi cibi e lo aiuta a sottrarsi all’invadenza dei familiari preoccupati per lui. Un giorno la donna osa consigliarlo di scacciare tristezza e depressione e finisce quindi per uscire definitivamente dal cono d’ombra in cui si trovava. Ashwin apprende quanto Ratna si senta più rilassata e ottimista a Mumbai perché al villaggio la famiglia la colpevolizzava in modo assurdo per la morte del consorte. Inoltre lei gli racconta che non solo lavora per pagare gli studi della sorella minore, ma anche che aspira a diventare una sarta e che nel tempo libero frequenta un piccolo atelier come apprendista non pagata, sognando il giorno in cui possa aprire un piccolo laboratorio in proprio. Ashwin resta affascinato dallo spirito e dal coraggio della donna e le regala una macchina da cucire. L'empatia tra i due giunge all'attrazione reciproca, ma, solo in un’occasione, azzardano un timido contatto fisico. Ratna è intimorita perché sa perfettamente che una loro storia d'amore sarebbe impedita dalle convezioni sociali classiste accettate da tutti in India. Purtroppo, nonostante la loro discrezione, piccoli segni di intimità sono notati da un amico e Ashwin ammette confidenzialmente il suo interesse verso Ratna. Ma poi il pettegolezzo si diffonde e il disagio aumenta. Non vi è un happy end, tuttavia, nonostante Ashwin sia stato costretto dai familiari a ripartire per stabilirsi nuovamente a New York, i due restano in contatto. Rohena Gera costruisce efficacemente il ritratto di una relazione proibita, raccontandola principalmente secondo il punto di vista della donna, a partire da una sceneggiatura finemente misurata e da una conoscenza profonda dei meccanismi della “intimità” che si stabilisce, nelle case indiane delle famiglie della classe media e alta, tra “servi e “padroni”, dovuta alla convivenza, pur in spazi separati. Evitando facili stereotipi e toni retorici o didascalici, mostra grande sensibilità nella costruzione dei due personaggi. In particolare evita di rappresentare Ratna come un’eroina, descrivendo con cura le sfaccettature della sua personalità e il suo itinerario emotivo. E al tempo stesso descrive con sicurezza la generosa ingenuità con cui Ashwin cerca di liberarsi dagli schemi comportamentali borghesi in cui è imprigionato. L’uomo non è affatto disperato, semmai non vuole soffocare la nuova sensibilità umana che prova, essendosi accorto che, anche al di fuori del perimetro degli schemi convenzionali con cui è stato educato, possono esistere intelligenza, grazia e genuina vitalità. Per la messa in scena Rohena Gera ha dichiarato di essere stata ispirata dal noto film In the Mood for Love (2000), di Wong Kar-Wai, e di aver sfruttato spazi, inquadrature e differenze di luminosità tra interni ed esterni per definire la dialettica dei sentimenti e del tempo. I riferimenti all’opera del grande regista cinese di Hong Kong, e, aggiungiamo, al cinema del maestro bengalese Satyajit Ray sono indubbi, ma non si tratta di imitazione quanto di una reinterpretazione originale.
Guy, opera seconda dell’attore francese Alex Lutz (Francia), (voto: 6 e mezzo / 7), è un mockumentary geniale e molto gradevole. Gauthier (Tom Dingler), giovane giornalista, viene informato da sua madre che sarebbe il figlio illegittimo di Guy Jamet (Alex Lutz), un artista del varietà e cantautore ormai settantenne, famosissimo tra gli anni '60 e i '90. L’uomo è in procinto di registrare un nuovo album che riprende molti suoi vecchi brani di successo e di effettuare una tournée. Quindi, fingendo di dover effettuare un reportage, Gauthier incontra e racconta questo personaggio accattivante, vitale e, al tempo stesso, lento e posato, sarcastico e disilluso, nella sua quotidianità. Gran parte delle loro frequentazioni avviene nell’accogliente piccola villa - rifugio di Guy, nei dintorni di Saint Tropez, non lontano dal mare. Il crooner vive circondato dai ricordi di una carriera prestigiosa (fotografie, dischi d’oro, memorabilia, ecc.), in compagnia di Sophie (Pascale Arbillot), una ex groupie divenuta sua segretaria e compagna e dei suoi due amati cavalli con cui ama passeggiare nei boschi.
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"Guy", Alex Lutz
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Accoglie sempre Gauthier con simpatia e con una certa accondiscendenza, divertendosi ad evocare il suo passato, tra successi ed episodi prosaici. Alex Lutz è ben noto per le sue notevoli capacità di mimesi, al cinema e in televisione, dove interpreta riusciti sketches en travesti. In Guy appronta una straordinaria scenografia in cui tutto è falso, ma appare dannatamente veritiero, e interpreta in modo straordinario una star fittizia, inventando gesti e comportamenti e seducendo lo spettatore con la luminosità dello sguardo costantemente indirizzato alla telecamera. La narrazione pseudo documentaristica si sviluppa con grande fluidità, naturalezza e fine humour, mostrando dettagli molto verosimili e proponendo situazioni iconiche.
"One Day", Zsofia Szilagyi |
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Egy nap (One Day), di Zsofia Szilagyi (Ungheria), (voto: 5), ha ottenuto il Premio della Giuria dei critici della FIPRESCI. Propone il ritratto a tutto tondo di una donna sorpresa in una crisi coniugale. Un racconto ambientato a Budapest e concentrato in 36 ore, con una narrazione sempre in tono medio, senza eccessi sensazionalisti, che simula una cadenza in tempo reale. Anna è una professoressa di italiano quarantenne con tre figli piccoli e un matrimonio decennale che difetta di nuovi stimoli. Costretta a una vorticosa routine di impegni e incombenze, deve correre freneticamente per fronteggiare il lavoro di insegnante in un istituto privato, le faccende domestiche, le grane finanziarie con la banca e la corvée dei figli da portare a scuola, all'asilo, agli allenamenti di scherma e ai corsi di danza. La fatica, i dubbi e il senso di trattenuta disperazione si sono intensificati perché Anna non sa come reagire dopo aver scoperto che Szabolcs (Leo Furedi), il marito avvocato, indeciso e frustrato, sta vivendo una relazione con una loro amica (Annamaria Lang).
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In effetti i due coniugi, oberati dalla routine familiare e dallo stress, non riescono a trovare il tempo e l’energia per riesaminare esaustivamente la loro relazione. Il film di esordio di Zsofia Szilagyi è abbastanza credibile e non retorico, ma risulta drammaticamente incerto e irrisolto. Si nota un approccio interessante che può far pensare ai migliori film di Chantal Akerman, ma, purtroppo, l’eccesso di motivi prosaici e un finale piuttosto banale depotenziano i buoni spunti che emergono nella descrizione della solitudine e del disagio esistenziale vissuti dalla protagonista.
Fuga, opera seconda di Agnieszka Smoczynska (Polonia), (voto: 3), è un thriller psicologico dalle forti tinte drammatiche. Una trentenne viene ritrovata dalla polizia a Varsavia: è molto trasandata, non ha documenti e non sa spiegare nulla del suo passato perché non ne ha memoria. La sua agiata famiglia di Wroclaw, che la cerca da due anni, riconosce Alicja (Gabriela Muskata) quando viene mostrata durante un programma televisivo. Tornata a casa dal marito e dal suo bambino, la donna riesce gradualmente a ricordare la tragedia personale che ha determinata la sua fuga. Agnieszka Smoczynska realizza un'opera sensazionalista e ricattatoria, tra amore, dolore, rivelazione di orrori domestici e confuso messaggio femminista, riproponendo canoni molto comuni in tanta parte del cinema polacco contemporaneo
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"Fuga", Agnieszka Smoczynska
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