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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 71. CANNES FILM FESTIVAL I Festival di Cannes 2018 Vince il cinema giapponese I DI GIOVANNI OTTONE I 2018

FESTIVAL DI CANNES 2018

Vince il cinema giapponese

Palme d’Or A ‘Shopliftres’, magnifico dramma di Kore-eda Hirokazu, ma è imperdonabile l’esclusione dal Palmarès dei capolavori del turco Nuri Bilge Ceylan e del cinese Jia Zhang Ke

DI GIOVANNI OTTONE

""Shoplifters"" di Kore-eda Hirozaku

Cannes 2018

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Il Festival di Cannes 2018,  ha presentato un buon livello qualitativo con  molte opere di genuino cinema d’autore e un’importante presenza di cinema asiatico e russo, segnatamente dal Far East, sia nelle sezioni della Selezione Ufficiale sia nelle due sezioni autonome collaterali, La Quinzaine des Réalisateurs e la Semaine de la Critique. Complessivamente sono state molte le prove di una definizione di nuovi territori espressivi. Si sono evidenziati numerosi esempi di un cinema ancorato al mondo attuale, con diverse declinazioni di realismo, ma non ripiegato su una piatta raffigurazione di una realtà desolante segnata dalle urgenze della crisi economica e da varie forme di violenza e di degradazione morale. Senza dubbio i temi prevalenti hanno riguardato anche quest’anno alcuni nodi centrali dell’esistenza umana contemporanea: l’identità personale, specie a livello femminile, tra problematiche esistenziali, morali e sociali; l’amore e la crisi della coppia e della famiglia; le difficoltà della vita e la morte nelle sue varie forme; la difficile condizione giovanile in termini di relazioni personali e sociali; la negazione del diritto al lavoro; la violenza e l’intolleranza in ragione di pregiudizi e di  violazione dei diritti civili. In aggiunta si deve segnalare la significativa “manifestazione”  del 12 maggio quando 82 attrici e registe, di ogni generazione, alcune delle quali notissime, hanno  salito tutte unite la famosa scalinata del Palazzo del cinema, “les Marches”, per lanciare  un messaggio di richiesta di parità, dignità e rispetto nel mondo del cinema, quindi rivendicando maggiore spazio professionale per il genere femminile, ma anche per protestare ancora una volta contro le terribili violenze e violazioni di diritti a cui sono sottoposte le donne in tutto il mondo nell’epoca contemporanea.

La Giuria della “Compétition Officielle”, presieduta  dalla nota attrice australiana Cate Blanchett, e  comprendente Ava Duvernay,  Léa Seydoux, Khadja Nin, Kristen Stewart, Robert Guédiguian, Denis Villeneuve, Chang Chen e Andrey Zvyagintsev, ha premiato alcuni dei film più rappresentativi di precise qualità autoriali, estetiche e narrative, ma purtroppo non ha considerato alcuni tra i film migliori. In effetti è di enorme soddisfazione che Kore-eda Hirokazu abbia finalmente ottenuto la Palme d’Or per il miglior film con un’opera, Shoplifters, che è forse la sua più valida e compiuta nell’ultimo decennio. E anche il Premio alla miglior regia assegnato a Pawel Pawlikowski per Cold War rappresenta un pieno riconoscimento a una delle migliori mise en scène, seppure non la migliore in assoluto, fra i film del Concorso Ufficiale. Inoltre, se da un lato, fortunatamente, il Palmarès non ha compreso film con tematiche politicamente corrette, ma molto ricattatori, grossolani, semplicistici e poverissimi dal punto della messa in scena, come ad esempio quelli di Eva Husson e di Stéphane Brizé, dall’altro sono stati riservati Premi importanti a film decisamente sopravvalutati come quelli di  Alice Rohrwacher, Jafar Panahi, Spike Lee e Sergey Dvortsevoy. Tuttavia è assolutamente non comprensibile e imperdonabile l’esclusione dal Palmarès dei due film migliori: The Wild Pear Tree, di Nuri Bilge Ceylan, che è il vero capolavoro, magistrale, emozionante, e coraggioso, dell’edizione di quest’anno del Festival di Cannes e che, a mio giudizio non è solo il miglior film del Concorso, ma vanta la miglior sceneggiatura, la miglior regia e il miglior attore, Murat Cemcir, mentre Ash is Purest White, di Jia Zhang-ke, è un film meraviglioso sia perché contiene l’intero universo cinematografico del regista, sia in termini di dialettica tra desideri e sentimenti e di lucida rappresentazione di un doloroso cambiamento  nella Cina del nuovo millennio e vanta una regia quasi perfetta e la miglior attrice, Zhao Tao.

Tutti i film della Competizione Ufficiale

Di seguito il commento critico dei 21 lungometraggi in concorso secondo il mio ordine di preferenza, segnalando i Premi assegnati dalla Giuria dei lungometraggi e  altri  riconoscimenti della critica.

The Wild Pear Tree (Ahlat Agaci), ottavo film di Nuri Bilge Ceylan (Turchia), è a mio giudizio il miglior film del concorso ufficiale e quello con la miglior regia, ma è stato escluso invece dal Palmarès (voto: 8 e mezzo / 9).  Si tratta di un vero capolavoro: emozionante e coraggioso, con una scrittura e una messa in scena di ottima fattura, arricchita da magnifici dettagli. Propone una lucida cronaca familiare in un significativo contesto sociale e culturale. Offre soprattutto l’efficace rappresentazione del carattere e dell’animo di un ventenne ambizioso, orgoglioso e insoddisfatto, nell'affacciarsi all'età adulta, tra sogni di realizzazione, sentendosi superiore al prossimo, e presa di coscienza del fallimento delle proprie speranze. Descrive  la  triste dinamica esistenziale di una famiglia di ceto modesto  in provincia, tra il porto di Canakkale, sullo stretto dei Dardanelli, vicino al sito di Troia e a Gallipoli, e le campagne  retrostanti. Luoghi  scelti e ben conosciuti da Ceylan perché vi ha trascorso l'infanzia. Sinan (Aydin Dogu Demirkol), da poco laureato e in attesa del concorso per diventare insegnante, appassionato di letteratura e aspirante scrittore, è autore di un  memoriale, che contiene racconti ed episodi della sua terra e della sua famiglia, intitolato appunto "The Wild Pear Tree". Tornato nel villaggio rurale dove è nato, si impegna con tutte le sue forze a racimolare il denaro  necessario per  pubblicare il suo libro. Ma si trova a dover fare i conti con i debiti accumulati dal padre, Idris (Murat Cemcir), un maestro alle soglie della pensione che  da anni è gravemente ludopatico, impelagato nelle scommesse sulle corse dei cavalli e in altri giochi d’azzardo. Come già Once upon a time in Anatolia (2011) e Winter sleep, Palme d’Or al miglior film a Cannes nel 2014, anche The Wild Pear Tree costituisce un  magnifico affresco delle relazioni umane, ma propone anche una sottile e risoluta disanima pluristratificata, e mai didascalica, delle problematiche di una società tuttora patriarcale, bloccata nel conservatorismo ipocrita e conformista. Risulta incentrato sulla dialettica tra un padre irresponsabile e debole e un figlio tormentato e pieno di rancore, con sentimenti ambivalenti rispetto al luogo nativo, che avverte come opprimente, ma non rassegnato. È fortemente caratterizzato da un susseguirsi di lunghi, elaborati, ma spesso anche toccanti, dialoghi, a volte con forti contrapposizioni  di opinioni e di valori, tra un sarcastico, risentito o disilluso Sinan e i suoi interlocutori. Conversazioni che avvengono spesso in interni o nel corso di lunghe camminate in contesti paesaggistici diversi. 

Cannes 2018

"The Wild Pear Tree" Nuri Bilge Ceylan

 

The Wild Pear Tree propone un dispiegarsi geniale di architetture narrative e verbali, con continua espansione dei confronti tra i personaggi e con modificazioni di toni e posture. Configura un’armonia mai scontata che combina consistenza e leggerezza e che cattura totalmente la mente e l’animo dello spettatore,  che non viene affatto sovrastato dalla durata di poco più di tre ore, perché va oltre ogni concetto di classicità, senza mostrare mai compiacimenti o manierismi. Occorre anche rilevare la novità, rispetto alla filmografia di Ceylan, della presenza nel film di  riferimenti, più o meno espliciti, alla situazione politica del Paese che emergono durante le conversazioni (ad esempio la repressione delle lotte studentesche, il conformismo come modello  proposto da autorità e “imprenditori”, il confronto  sul peso della religione nella società). È del tutto evidente che nel cinema di Ceylan  il momento della parola è ormai diventato determinante per rapportarsi a una società vessata da norme liberticide e dalla censura della libertà di pensiero e di espressione. The Wild Pear Tree appare visivamente affascinante, essendo costellato da geniali architetture visive e da splendidi e dinamici tableaux vivants giocati sull’interazione tra i personaggi e tra loro e il paesaggio,  e offre una  fotografia eccezionale,  dai toni  variegati, curata dall’abituale collaboratore di Ceylan, Gökhan Tiryaki.

 

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Shoplifters (Manbiki Kazoku - Une affaire de famille), di Kore-eda Hirozaku (Giappone), ha ottenuto la Palme d’Or al miglior film (voto: 8). È un  magnifico dramma. Propone la questione della famiglia, in particolare i legami affettivi esistenti in quella entità e la proiezione sociale della stessa, un tema che attraversa tutta la filmografia del cinquantacinquenne Kore-eda Hirokazu. Racconta, con straordinario respiro narrativo, delicatezza e apparente semplicità di toni, ma anche con grande intensità emotiva, la parabola esistenziale di un nucleo familiare inconsueto, che vive ai margini della società, infrangendone le regole, ma i cui membri mostrano forte spirito comunitario e, tra loro, palesano sentimenti genuini. Il quarantenne Osamu (Lily Franky) lavora saltuariamente come operaio edile in una ditta di costruzioni. La sua partner trentenne Noboyu (Sakura And?), scaltra e battagliera, è impiegata come stiratrice in una lavanderia sita in uno  vetusto capannone. L’anziana Hatsue (Kilin Kiki), che chiamano nonna, , assicura il reddito più sicuro, una magra pensione, a cui si aggiungono versamenti periodici di piccole somme che  ottiene dalla famiglia della seconda moglie dell’ex marito. La sedicenne Aki (Mayu Matsuoka)  studia, ma  si esibisce anche in un peep show club senza pretese. Shota (Kairi Iyo), un bambino di dieci anni, intelligente e introverso, non va a scuola, ma accompagna ogni giorno Osamu, che lo considera suo figlio, in un itinerario tra supermercati e negozi di abbigliamento. I due agiscono come taccheggiatori, rubando prodotti alimentari e non con tecniche ingegnose e sperimentate e quindi assicurano la spesa alimentare necessaria alla famiglia. Vivono tutti insieme in una modestissima, angusta e sporca  casetta, con un minuscolo giardino, in un quartiere proletario di Tokyo. Una sera Osamu e Shota si imbattono in una bambina di circa quattro anni, che si nasconde infreddolita dietro un cassonetto. La portano a casa e la nutrono. Hatsue e Noboyu scoprono che la piccola Yuri (Miyu Sasaki)  presenta lividi ed ecchimosi e non vuole tornare a casa dai genitori. Poco a poco, grazie a un meccanismo di rivelazione progressiva di piccoli dettagli, si apprendono i tristi e oscuri segreti di ognuno dei componenti della “famiglia”, tra i quali non esistono legami naturali di sangue. Si sono trovati casualmente, reduci da tristi storie di abbandono subito, e accettati nel corso degli anni.  Finché un giorno un banale incidente mette la polizia sulle tracce degli Shibata. Di fronte alle istituzioni e alla società,  che si appellano a leggi e diritti,  che  come ovvio,  tutelano codici di comportamento preordinati e definiti, la bizzarra “famiglia” costruita e difesa da Osamu e  da Noboyu viene smascherata e crolla inesorabilmente. Kore-eda Hirokazu ha realizzato un’opera che contiene e ripropone spunti ben presenti  nei suoi film precedenti dedicati a tematiche familiari: Nobody Knows (2004), Still Walking (2008), I Wish (2011) e After the Storm (2016). Shoplifters ripropone soprattutto questioni cruciali come il legame affettivo versus il legame di sangue, il rapporto a volte conflittuale tra genitori e figli e la necessità di affrontare il problema delle proprie radici. Si rapporta quindi soprattutto ai più recenti film realizzati da Kore-eda: Little Sister (Umimachi Diary) (2015) e Like Father, Like Son (2013).  Grazie a una scrittura essenziale, ed elaborata senza sembrarlo,  il film promana una  straordinaria fluidità narrativa, pur affrontando, un contesto di alterità radicale e mostrando una realtà ben poco nota, miserabile, eppure umanissima, marginale, eppure  a suo modo dignitosa, di un Paese, il Giappone, tra i più prosperosi, ma con un marcato controllo sociale.  

Al centro  di Shoplifters vi è una famiglia fittizia, composta da emarginati sociali, con lavori umili e redditi insufficienti, uniti da una comune strenua lotta per sopravvivere e per apparire normali cittadini. Il bisogno li porta ad arrangiarsi mediante una costante pratica di piccole illegalità: frodi al sistema della sicurezza sociale e piccoli furti. Kore-eda conferma la sua originale poetica umanista ed è certamente memore dei film di due grandi maestri, Yasujiru Ozu e Mikio Naruse, ma dimostra di non essere un imitatore. Scandaglia, con la consueta naturalezza, le contraddizioni  dei personaggi in un contesto molto problematico e sviluppa, senza analisi psicologiche artificiose, un  pregevole caleidoscopio di sentimenti attraverso un ritratto semplice, ma emozionante, evitando accuratamente il sensazionalismo e la deriva didascalica. Il film è venato di sottile malinconia, genuina tenerezza e fini accenti comici. La messa in scena denota massima pulizia e sobrietà stilistica. La scelta dei tempi delle inquadrature e il montaggio, curato dallo stesso regista, sono sempre perfettamente funzionali alla descrizione degli stati d'animo dei personaggi.

 

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"Shoplifters", Kore-eda Hirozaku

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Ash is Purest White (Jiang Hu Er Nv), di Jia Zhang-Ke (Cina), avrebbe certamente meritato il Premio alla miglior attrice  a Zhao Tao o un qualsiasi altro Premio al film, ma è stato escluso invece dal Palmarès (voto: 7 e mezzo / 8). È un eccellente melodramma che ripropone lo sguardo acuto di Jia Zhag-Ke sulle contraddizioni del cambiamento nella Cina del nuovo millennio e sulla perdita di valori morali nella vita delle persone, attraverso un’originale reinterpretazione di canoni di genere. Racconta il contrastato e malinconico consumarsi di un amore e la forza e la dignità della protagonista femminile, ma propone anche  le dinamiche della violenza, del tradimento, della lealtà, della fatalità, dell'orgoglio, della sofferenza e della sopravvivenza, come ha confermato il regista alla stampa. Nel 2001 a Datong, un'antica e depauperata città dello Shanxi,  al centro di una declinante area mineraria carbonifera, la ballerina trentenne Qiao (Zhao Tao, musa e consorte di Jia, impressionante in un ruolo di grande complessità) è la compagna del quarantenne Bin (Liao Fan), ambizioso boss di una gang criminale dominante nella mafia locale. Una notte una banda di giovani delinquenti attenta alla vita di Bin e Qiao, per salvare l'amante, gravemente aggredito e ferito, spara in aria. Dopo l'arresto, viene condannata a cinque anni di carcere, per possesso illegale di un'arma,  perché ha omesso di dichiarare che la pistola era quella di Bin. Scontata la pena, nel 2006 Qiao si reca a Fengjie, una città in espansione affacciata sullo Yangtze River, a  monte della grande diga delle Three Gorges e riesce infine a incontrare Bin, depresso e senza potere, ma l'uomo afferma di essere legato a una nuova compagna e rifiuta di seguirla nuovamente  nello Shanxi.. Undici anni dopo, a Datong, Qiao, che ha scelto di stare da sola, gestisce una casa da gioco, ritrovo degli anziani  aderenti delle gang. Bin, ridotto in carrozzina perché emiplegico in seguito a un'emorragia cerebrale, consumato dall'alcolismo e rovinato economicamente, si reca  da lei. Qiao, supera ogni rancore, lo accoglie e lo fa curare, nonostante l'uomo si dimostri incattivito, permaloso e sarcastico.  Nei film realizzati negli ultimi anni, in particolare in A Touch of Sin (2013), Jia racconta la Cina di oggi e il suo “progresso” che calpesta la dignità della gente comune attraverso l'arroganza e la sfacciata corruzione dei funzionari pubblici locali e dei nuovi ricchi. Ash Is Purest White  propone una parabola simile, nella partizione in tre fasi temporali (con il mutamento del contesto, l’evoluzione dei personaggi, i loro risvolti emotivi e il gioco delle relazioni proiettati in una prospettiva storica), a quella del precedente Mountains May Depart (2015), ma è un film con una diversa intimità ed è ambientato in un ambiente sociale diverso. La dialettica deflagrante è quella tra desideri e sentimenti, tra accettazione o meno di una nuova realtà e anche tra delusione e libera ricerca di nuove prospettive, con l'incapacità di dimenticare il passato. Determinante risulta l'approccio audace e sottilmente partecipativo e la squisita costruzione drammatica dei personaggi protagonisti (Qiao ricompone aspetti reinventati di tutte le eroine dei film di Jia), travolti dalle conseguenze delle loro azioni, tra aspettative, disillusioni, conflitti e momenti di rievocazione delle proprie radici, in un mondo in cui i mutamenti sono radicali e in cui anche le leggi della malavita si sfaldano.

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"Ash Is Purest White", Jia Zhang-Ke

 

In effetti, nel film convivono immagini di diverse realtà sociologiche della Cina dell’ultimo ventennio: un’antica miniera di carbone e vecchie abitazioni, nel villaggio dove vive il padre di Qiao, che  ricordano il passato millenario e l’epoca maoista; i grattacieli della nuova speculazione edilizia, e i segni di un mondo in cui i valori umani sono soffocati dalla ricerca del denaro a tutti i costi, a Fenjie; i diversi mezzi di trasporto, i vecchi autobus e i convogli ferroviari, da quelli con vagoni a scompartimento unico ai supertecnologici treni ad alta velocità. Ash Is Purest White contiene l'intero universo cinematografico di Jia: lo Shanxi dove è nato, teatro dei suoi primi film, la regione delle Three Gorges dove ha girato Still Life (2006) e Dong (2006), i treni, le sale da ballo, la canzone feticcio Y.M.C.A. dei Village People. Ma propone anche  suggestioni e dettagli che ricordano alcuni film di John Woo, di Hou Hsiao-hsien e persino di Wong Kar-wai. La messa in scena conferma lo stile di Jia, improntato al realismo stilizzato, con originali venature poetiche. La splendida composizione visiva privilegia densi piani prolungati e piani sequenza in un contesto di narrazione lineare, ma discontinua e parzialmente ellittica, che spesso mostra le conseguenze delle azioni prescindendo dalle cause.  

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Cold War (Zimna Wojna), di Pawel Pawlikowski (Polonia), ha ricevuto meritatamente il Premio alla miglior regia (voto 7 / 7 e mezzo). Peraltro giova ricordare che Ida (2013), il film precedente di  Pawlikowski, è ancora più riuscito e forte in termini drammatici, politici e di messa in scena.  

Cold War è un ottimo melodramma che racconta con intensa essenzialità le tappe di una storia d’amore tra  il musicista borghese Wiktor e la cantante, di estrazione popolare, Zula, ostacolata dal regime comunista polacco,  durante gli anni ’50. Molto efficace nel descrivere  la forza della passione tra i due amanti, ma anche  la incapacità / impossibilità, in particolare della donna, di adattarsi a vivere sentendosi liberi nel mondo dello spettacolo, effervescente e snob, di Parigi, essendo comunque esuli, lontani dal proprio Paese. L’epilogo è indimenticabile: tragica espressione di dignitosa, ma assoluta disperazione.  I punti di forza del film sono i seguenti: il formato 4:3, il vibrante bianco e nero, L’eccellente fotografia, gli ottimi attori protagonisti e il convincente production design. Pawlikowski si ispira all’itinerario esistenziale dei propri genitori e conferma la sua squisita capacità di descrivere la psicologia femminile e il suo stile assolutamente privo di retorica,  che ricorda sia  l’austerità di Robert Bresson, sia la straordinaria problematicità dei primi film di Polanski e di quelli di Kieslowski. Forse l’unica pecca del film è una certa  contrazione  narrativa della storia, dovuta probabilmente alla volontà di evitare la tentazione retorica. Pawlikovski avrebbe potuto escludere alcune locations e invece concedere ancora maggior respiro alla  travagliata dinamica della storia d’amore.

 

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"Cold War", Pawel Pawlikowski

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Dogman, di Matteo Garrone (Italia), ha ottenuto con pieno merito il Premio al miglior attore  assegnato a Marcello Fonte (voto: 7 / 7 e mezzo). È un  dramma atipico, tragico, sporco e disperato, ispirato da un efferato fatto di cronaca, un brutale omicidio avvenuto nel 1988, il caso del famoso “canaro” della Magliana, Pietro De Negri, autore del truce assassinio dell’ex pugile Giancarlo Ricci. Racconta un’umanità periferica che abita in un non-luogo squallido e desolato: la location è quella dell’ex Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno. Garrone torna con ottimi risultati al suo cinema che ha dato prova di sapersi muovere tra i generi (dramma, noir, horror, commedia), costruendo uno specchio “oggettivo” di voci, facce, comportamenti e suoni e seguendo una logica di “tempo del racconto”. Conclude una trilogia ideale insieme ai suoi precedenti L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2004). La vicenda si svolge in quartiere di periferia, affacciato su un mare sporco, con palazzi dalla architettura “moderna” di pessimo gusto ormai deperiti, attorno a una grande piazza abbandonata all’incuria. Tutti si conoscono: proletari e sottoproletari e pochi negozianti ed esercenti incupiti, solidali contro i violenti, piccoli criminali e tossicodipendenti che si aggirano nell’insediamento. Marcello (Marcello Fonte) è un trentenne piccoletto che. si dedica con impegno al suo negozio dove esegue attività di pulizia e  estetica – toilette per cani. Mite e benvoluto dai  proprietari dei negozi vicini, il protagonista ne ricerca la benevolenza e l’amicizia. Inoltre, ogni volta che gli è possibile trascorre il suo tempo con la figlia tredicenne Alida (Alida Baldari Calabria), accompagnandola amorevolmente al corso di immersioni subacquee che lei adora.

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"Dogman, Matteo Garrone"

 

E in alcuni casi, sostenuto dalla ragazzina, partecipa a  competizioni di bellezza per le razze canine. Ma Marcello non è un eroe: arrotonda le sue entrate con un discreto spaccio di cocaina. Per questo è continuamente cercato da Simone (Edoardo Pesce), un ex pugile dilettante, psicopatico, tossicodipendente e violento, con cui ha instaurato una torbida amicizia. Marcello è soggiogato dalla spavalderia del ribaldo, il quale che ne approfitta. Ne deriva una penosa sudditanza del più debole nei confronti del più forte. Infatti Simone obbliga Marcello a essere suo complice in alcuni furti di appartamento e spedizioni punitive contro suoi creditori o nemici, non rinunciando a sfogarsi sul piccolo uomo con soprusi e umiliazioni di ogni genere. Garrone propone una complicata relazione vittima - carnefice nei suoi risvolti di  malsana “amicizia”, di desideri semplificati, di ossessione e di ambiguo riscatto, evitando brillantemente la deriva del revenge thriller. È un film crudo, cupo e, a tratti, struggente, puramente naturalista. Ma non mostra mai autocompiacimento o eccessi spettacolari gratuiti da grand guignol, nonostante qualche aspetto prosaico e qualche tono troppo calcolato. Notevole la regia costruita  su una  sapiente variazione della distanza  della macchina da presa durante le inquadrature.

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Le livre d’image, di Jean-Luc Godard ( Francia) (voto: 7), è stato valorizzato dalla Giuria che ha assegnato una Palme d’Or speciale (alla carriera)  allo stesso Godard. Si tratta di un magistrale film di montaggio e cut-up, con magnifiche soluzioni di postproduzione, che assembla un ricchissimo puzzle di materiali visivi e footage che spaziano dal cinema di ogni epoca alla pittura e alla letteratura. Un flusso continuo di immagini e parole, che affascina, ma che si fatica a seguire e a decifrare completamente, organizzato per capitoli, con citazioni letterarie e filosofiche in voice over e scritte-slogan sovrapposte, che spazia su innumerevoli temi, con sintesi folgoranti o discutibili. Il film si  dilunga spesso sulle contraddizioni del mondo arabo con una declinazione vagamente pacifista e a favore della difesa  della convivenza civile tra diversi. Godard conferma tutta la sua storia cinematografica di rottura con l’ordine esistente, di sperimentalismo e di virtuosismi formali, “post-moderni”, spesso geniali. Ma riafferma anche la sua logica affabulatoria solipsistica. Come nel precedente Adieu au langage (2014), Godard riflette sul senso delle immagini  e rimanda all’insufficienza della parola e al flusso continuo del pensiero. Tuttavia è un Godard  molto meno sentenzioso e velleitario, brillante e persino arguto e autoironico, ed evita qualsiasi battuta antisemita, quantunque proponga invece una significativa citazione di Joseph de Maistre,  storico esponente del pensiero conservatore e reazionario.

 

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"Le livre d’image", Jean-Luc Godard

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"Asako I and II", Ryusuke Hamaguchii

 

Asako I and II (Netemo Sametemo), di Ryusuke Hamaguchi (Giappone), (voto: 6 e mezzo / 7), è             un brillante antimelodramma: un mosaico di sentimenti e di sfumature della cultura giapponese. Propone una love story  contemporanea che ricorda i romanzi di Balzac, deliziosamente artificiosa. A Osaka la studentessa universitaria Asako (Erika Karata), dolce, piuttosto naïf e priva di interessi intellettuali, vive il suo  appassionato amore romantico con un ventenne, il misterioso, affascinante, e più o meno anticonformista, Baku (Masahiro Higashide). Ma lui all’improvviso scompare senza aver fornito alcuna spiegazione o giustificazione. Due anni dopo, a Tokyo, la donna incontra Ryohei (Masahiro Higashide), executive che lavora in un’azienda commerciale. Un giovane che, fisicamente, sembra un sosia di Baku, ma che presenta un’indole molto diversa, essendo ben integrato e moderatamente carrierista. Dopo varie  incertezze il loro amore,  agevolato dalla  frequentazione di alcuni buoni amici, porta a una fruttuosa relazione di cinque anni. Ma poi Baku, divenuto un famosissimo modello, riappare.

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Come nel suo precedente, peraltro più drammaticamente riuscito, Happy Hour (2015), il quarantenne giapponese Ryûsuke Hamaguchi punta a caratterizzare psicologicamente i personaggi, dipanando una sottile descrizione delle loro contraddizioni personali e affettive.Documenta, senza essere didascalico, l’altalenante evoluzione delle loro relazioni, mostrando  attitudini e risvolti emotivi e comportamentali diversi. E soprattutto propone il ritratto di un personaggio femminile, quello di Asako, affatto stereotipato, imprevedibile e sfaccettato anche quando sembra esprimere tratti caratteriali e sentimentali piuttosto consueti. Sviluppa una narrazione molto fluida e una messa in scena accurata che presenta un’estetica raffinata: intelligenti soluzioni illustrative, una sapiente combinazione di piani di ripresa e di inquadrature e la fotografia luminosa di  Sasaki Yasuyuki. Nel suo cinema si notano affinità con  maestri del cinema giapponese del passato, quali Mikio Naruse e Kenji Mizoguchi, o del presente, come Kore-eda Hirokazu. In Asako I & II, Hamaguchi riesce a dosare uno humour molto fine e affronta senza seriosità i temi dell’innamoramento, dell’entusiasmo, delle incomprensioni, dell’incapacità egoistica di relazionarsi con gli altri e della paura della solitudine nell’ambito di un gruppo di ventenni piccolo borghesi in un contesto post moderno, marcato dalla relazione controversa con consuetudini e pregiudizi che vengono da tradizioni culturali secolari.. Fino all’epilogo, in cui emerge l’essenza del legame tra Asako e Ryohei, al di là della criticità che hanno vissuto: l’accettazione di sé stessi e una realistica apertura alla vita futura.

Capharnaüm, di Nadine Labaki (Libano), ha ottenuto il Premio della Giuria (voto: 6 / 6 e mezzo). È un dramma dell’infanzia sottoproletaria calpestata e vilipesa, tra l’indifferenza o l’ostilità di tutti, nell’inferno sovrappopolato, caotico e disgraziato dei quartieri  popolari di una metropoli del Medio Oriente, visibilmente Beirut (anche se non esplicitamente identificata). È la storia di Zain (Zain Alrafeea), un dodicenne, e dei suoi piccoli fratelli e sorelle, asserviti a genitori cinici e  marginali, che li sfruttano in ogni modo, li maltrattano oltre ogni limite e li usano come merce di scambio. La svolta avviene quando  quei genitori sottoproletari obbligano Sahar (Cedra Izam), la figlia appena undicenne a sposare un negoziante del loro quartiere, ottenendo in cambio alcune galline e altri generi alimentari. A quel punto Zain, sconvolto per non essere riuscito a impedire quello scambio abominevole, si allontana dall’alloggio fatiscente dove vive la famiglia. Quindi incontra Rahil (Yordanos Shifera) una giovane etiope clandestina, che svolge umili lavori di pulizia e che è madre di un bambino di appena un anno. Le loro vicende si intrecciano drammaticamente.

 

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"Capharnaüm", Nadine Labaki

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Nadine Labaki utilizza un efficacissimo espediente di scrittura e narrativo (come in L’insulte (2017), del libanese Ziad Doueiri): il processo intentato da Zain ai propri genitori, fulcro di una narrazione, largamente in flashback, fluida, solida e convincente, toccante e solo parzialmente retorica, anche nel finale che non è affatto un happy end.  Lo sguardo della Labaki è trasparente e onesto, sinceramente empatico, memore, senza imitarle, delle lezioni neorealiste di De Sica e dei fratelli Dardenne. Certamente alcuni squilibri narrativi e  spunti prosaico, secondo la tradizione mediorientale e, in alcuni momenti, un eccesso di musica,  accentuano i toni naturalisti, ma non inficiano quasi mai la verità oltre la finzione. Solo chi non conosce  la specificità della situazione politica e sociale attuale del Libano o chi è intrappolato in rigidi schemi di giudizio moralisti e storicisti, come molti critici italiani e spagnoli, ha potuto impropriamente denigrare il film, definendolo “un esempio di pornografia del dolore, falso, ipocrita e strumentale”.

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"Blackkklansman", Spike Lee

 

Blackkklansman, di Spike Lee (USA), ha ottenuto il  Gran Premio della Giuria (voto: 6).  È una commedia farsesca d’epoca, ambientata nella provincia americana, a Colorado Springs, con contenuti politici di denuncia. Rievoca gli anni ’70, il razzismo suprematista con simpatie naziste del Ku Klux Klan e i miti dell’attivismo afroamericano, tra  la militanza nel Black Power mouvement, con  incitazioni alla violenza di massa da parte delle Black Panthers, e le battaglie pacifiche per il rispetto e la parità dei diritti. Storia strampalata dell’infiltrazione di Ron Stallworth (John David Washington), l’unico ambizioso e anticonformista agente di polizia negro della città nella sezione locale del Ku Klux Klan, attraverso la mediazione di Flip Zimmerman (Adam Driver), un agente bianco che materialmente incontra i terroristi razzisti, tra improbabile e raffazzonata missione investigativa e beffa goliardica. Il dramma e la tragedia sono sempre sfiorati, ma evitati. Tuttavia il film è decisamente divertente, ricco di idee, intuizioni, suggestioni e trovate esilaranti, nonostante una sceneggiature arzigogolata e squinternata. 

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E il continuo gioco di analogie e riferimenti tra il razzismo dei primi anni ’70 e la situazione attuale negli USA, squassati dalla non politica revanchista e divisiva di Trump, viene condotto in gran parte con brillante, quantunque superficiale, vis comica grottesca e caricaturale. Spike Lee appare ispirato e incisivo e, soprattutto evita i toni predicatori, le saccenti velleità filosofiche e lo sforzo ossessivo del politically correct che hanno caratterizzato molti altri suoi film. Purtroppo Blackkklansman è prolisso, troppo caratterizzato secondo i canoni della produzione mainstream e il ritmo  arranca spesso appesantito da sottotrame ed episodi collaterali. Inoltre il finale propone una carrellata indubbiamente pertinente, ma dissonante rispetto al tono comico del film, di footage che, insieme a una commovente  testimonianza di Harry Belafonte, evocano la persistenza violenza contro i negri negli USA, compresi i recenti sanguinosi fatti di Charlottesville. 

Yomeddine, di A.B. Shawki (Egitto), (voto: 6), è un’opera prima abbastanza convincente che attualizza alcune letture del cinema di Youssef Chahine e che cita e reinterpreta De Sica, Charlie Chaplin e Bresson. Un piccolo racconto di formazione in bilico tra dramma neorealista e fairy tale sentimentale. Un road movie di avventure marginali e picaresche  scandito da un accattivante motivo musicale ricorrente che spezza i possibili climax melodrammatici. Solo apparentemente fragile, ma genuino e, a tratti, toccante, con alcuni difetti negli snodi narrativi, ma largamente privo di retorica, grazie a un approccio non ricattatorio e non didascalico, nonostante racconti la storia penosa di un reietto. Beshay (Rady Gamal), un piccolo ex lebbroso, coperto di cicatrici, dopo 40 anni di reclusione in un lebbrosario, sopravvivendo con la rivendita di metalli trovati in una grande discarica, parte con il suo carretto, trainato dall’amato asino, per ritrovare la propria famiglia che l’aveva abbandonato in tenera età. E si ritrova accompagnato da Obama (Ahmed Abdelhafiz) un orfanello che conosce da tempo e che non vuole staccarsi da lui. Yomeddine configura una parabola circolare in cui si susseguono incontri, episodi di dolorosa discriminazione, furti, piccole violenze, inaspettata amicizia e affetti familiari faticosamente recuperati. Sullo sfondo l’Egitto di oggi, un Paese arcaico e “moderno”, duro e persino feroce, con qualche  nota di solidarietà tra gli ultimi nella scala sociale.

 

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"Yomeddine", A.B. Shawki

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"Leto", Kirill Serebrennikov

 

Leto (L’été), di Kirill Serebrennikov (Russia), (voto: 5 e mezzo), è un  dramma esistenziale, ispirato a fatti veri e tratto da un romanzo. Racconta, con atmosfere da amarcord, i giovani di Leningrado nei primi anni ’80. In particolare  mette a fuoco la scena di piccole band rock, tra blanda protesta generazionale e feticismo nei confronti delle band anglosassoni e americane, Sex Pistols, Lou Reed, David Bowie, Marc Bolan e i T-Rex, Jim Morrison, Blondie, ecc. Si svolge tutto in un’estate e l’asse portante è un timido e incerto triangolo amoroso, che provoca disagio, ma mai tragedia, tra Mike (Roman Bilyk), leader di una band ormai affermata, il più giovane Viktor (Teo Yoo), affascinante newcomer e Natasha (Irina Syarshenbaum), moglie dedicata di Mike e madre responsabile del loro bambino, che si prende una sbandata romantica per Viktor. Una passione che non arriva a travolgere e un contrasto tra maschi che non trascende, tanto che Mike aiuta Viktor ad affermarsi, nonostante la diffidenza dei burocrati brezneviani  del Circolo comunale dove le band si esibiscono. 

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Poca o nulla originalità (molti déjà vu e clichés che richiamano film di genere adolescenziale – musicale britannici o giapponesi), personaggi solo abbozzati, totale timidezza nel rievocare il vero disagio e il dissenso critico nella Russia sovietica, nonostante un accurato production design d’epoca. Peraltro Serebrennikov confeziona un’opera di notevole fattura formale, girata in un accattivante bianco e nero, con ritmi ben studiati e infarcita di virtuosistiche esibizioni musicali (con un eccesso di cover di brani notissimi del rock occidentale). Tuttavia in Leto la drammatizzazione è asfittica e spesso artificiosa, la poesia difetta e i  ricorrenti intermezzi immaginati o sognati, con sperimentalismo di immagini  e interventi grafici pop sovrapposti che ricordano la tecnica Snapchat, a significare  agognate scene di una rivolta, che non avviene mai, sono davvero irritanti. È un film costruito per ammaliare il pubblico,  e, purtroppo, non suscita quasi mai vere emozioni.

Burning, di Lee Chang-dong (Sud Corea). ha ottenuto il  Premio della Giuria della dei critici della FIPRESCI (voto: 5). È un melodramma, con tinte thriller, tanto arzigogolato quanto  poco convincente e credibile, girato con preziosismi estetici ai limiti dell’artificiosità e del narcisismo. Adattamento di un racconto del noto autore giapponese Haruki Murakani. Racconta un triangolo  di passioni contorte e mal espresse tra tre ventenni problematici: Hae-mi (Jun Jong-seo), sfuggente e apparentemente ingenua, Jong-su (Yoo Ah-in), impacciato, permaloso e nevrotico aspirante scrittore di origini proletarie e  Ben (Yeun Steven), bello, misterioso, ambiguo e ricco playboy. Burning è estenuante, non solo per la notevole lentezza e dilatazione narrativa, ma anche per l’incerta e pasticciata caratterizzazione psicologica dei personaggi, i dialoghi spesso grotteschi e la strumentalità di una pseudo suspense insistita, giocata sulla  contrapposizione tra realtà e apparenza, con allusioni criptiche  ed espedienti di corto respiro o ricattatori (come  quel pozzo o  quel gatto che non si sa mai se siano esistiti o meno).

 

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"Burning", Lee Chang-dong

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E alla fine viene affossato da un finale sensazionalista scontato e improntato al romanticismo tragico più vieto. Certamente non mancano spunti interessanti di osservazione della società coreana, in particolare della condizione giovanile e femminile, ma a Lee Chang-dong non interessano davvero  le tematiche sociali o le confuse metafore, morali e non, che propina di continuo allo spettatore, perché privilegia la costruzione estetica. Quindi la messa in scena è curatissima, ma spesso la ricerca ossessiva di contrasti di luce (quante scene girate al tramonto con i personaggi controluce e paesaggi metafisici sullo sfondo) e inquadrature perfette avviene quasi a prescindere dal coerente sviluppo della storia.

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"Ayka", Sergey Dvortsevoy

 

Ayka, di Sergey Dvortsevoy (Russia), ha ricevuto il Premio alla miglior attrice assegnato a Samal Yesyamova (voto: 4 / 5). Si tratta di un  dramma esistenziale neorealista e naturalista non privo di interesse etnologico e sociale, ma viziato da evidenti intenti didascalici. Configura, con pervicace meccanicismo, l’itinerario di disgrazie e di disperata sofferenza di un personaggio archetipo, a fronte della indifferenza e cattiveria di quasi tutti gli altri, e quindi rammenta i romanzi di Dickens e di Zola.  Propone il ritratto ansiogeno di una ventenne kirghisa a Mosca, durante il durissimo inverno nevoso, costretta alla clandestinità dopo che il suo permesso di soggiorno è scaduto. Ayka (Samal Yesyamova) vive in uno squallido alloggio, dove affitta un letto, in coabitazione forzata con altri immigrati, è costretta a svolgere sordidi lavori occasionali sottopagati, viene truffata ed è perseguitata dagli strozzini per un debito contratto quando in precedenza ha tentato una piccola avventura imprenditoriale finita male.

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Ma la vera tragedia avviene all’inizio del film, condizionando tutta l’incalzante racconto, con eccessi poco credibili e metafore esemplari, spesso irritanti: Ayka partorisce un neonato e poi lo abbandona fuggendo dall’ospedale. Quindi inizia la sua odissea, aggirandosi senza meta, sempre allo stremo a causa dell’emorragia post-partum in corso, fino ad un epilogo sensazionalista, costruito ad arte. La messa in scena tutta giocata sul tallonamento ossessivo della protagonista con telecamera a mano, incluse fughe e accelerazioni ad hoc, e sulla ripetitività delle situazioni, imita maldestramente ed enfaticamente lo stile dei primi film dei fratelli Dardenne. Il contesto impressiona, ma l’approccio fatalista impedisce di provare sincere emozioni.

3 Faces (Se Rokh), di Jafar Panahi (Iran)., ha ottenuto il Premio ex-aequo alla miglior sceneggiatura assegnato a Jafar Panahi e a Nader Saeiav (voto: 4 / 5).  In premessa,  il film si pone sulle tracce  dei precedenti di Panahi, This is not a film (2011), Pardé (Closed Curtain) (2013) e Taxi (2015), dignitose performance personali del regista e al tempo stesso audaci testimonianze da parte di un artista  condannato dai tribunali al divieto di realizzare film e di concedere interviste per molti anni. Opere che  denotano l’obiettivo   di documentare, con scarsi mezzi e sapienti accorgimenti (forse, anche se vi sono dubbi, in condizioni clandestine) la vita  del filmmaker a contatto con la gente. 3 Faces è uno pseudo dramma (tra auto fiction, film a tesi e documentario) ambientato in un remoto villaggio di montagna del nord dell’Iran, ai confini con la Turchia. La storia è strampalata e presenta non poche incongruenze e clichés nella sceneggiatura. Panahi, nella parte di sé stesso, è stato spinto ad accompagnare in auto Benhaz Jafari, un’amica attrice, nota star degli sceneggiati e serial televisivi, nella parte di sé stessa, che vuole raggiungere ad ogni costo la piccola comunità rurale.

 

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"3 Faces", Jafar Panahi

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Giunti sul posto sono determinati a risolvere un mistero che è diventato un caso di coscienza. Infatti l’attrice ha ricevuto sul suo cellulare, via Telegram,  il videomessaggio di una ragazza del villaggio che racconta la sua disperazione e che minaccia di suicidarsi, se non aiutata, perché non può realizzare il sogno di diventare attrice, soprattutto a causa degli ostacoli posti alla sua vocazione dalla famiglia, specie dal fratello, sostenitore della cultura patriarcale dominante nel villaggio secondo cui chi  lavora nel mondo dello spettacolo viene disonorato. Questa  farsesca vicenda diventa il filo conduttore attorno a cui si dipanano incontri e colloqui di Panahi e della sua amica attrice con i villici non solo per rintracciare l’aspirante suicida, ma, soprattutto per  dare sfogo a considerazioni scontate o predicatorie sulla vita ordinaria, la famiglia, la condizione femminile, le generazioni, il cinema e gli strumenti della rappresentazione, la verità falsificabile e il falso verosimile, ecc. e per manifestare, tra le righe, velate critiche al conservatorismo della società iraniana. Peraltro, al di là di alcuni interessanti spunti documentaristici e veritieri sugli abitanti del villaggio, la malcelata bonomia accondiscendente dell’intellettuale Panahi verso il popolo   risulta grottesca. Inoltre prevalgono spesso i clichés popolareschi, toni prosaici o fintamente ingenui e bozzettistici, mentre i momenti poetici scarseggiano e  anche l’epilogo, con una sequenza in omaggio al cinema di Abbas Kiarostami, appare ben poco convincente. Il film conferma la deriva del cinema di Panahi, ormai ben lontano dai film realizzati fino al 2006, duri e sobri, che inquadrano perfettamente la crisi esistenziale e sociale in cui è intrappolata la popolazione di Téhéran, evitando i toni patetici e descrivendo acutamente la dimensione psicologica dei personaggi. Come Taxi, anche 3 Faces non risulta efficace, né coraggioso. Mancano la spontaneità e la verità dei personaggi, che appaiono troppo paradigmatici, al limite della caricatura, mentre prevalgono la valorizzazione dei buoni sentimenti e le ipocrite mediazioni.

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"Plaire, aimer et courir vite ", Christophe Honoré

 

Plaire, aimer et courir vite, di Christophe Honoré (Francia), (voto: 4) è un dramma esistenziale, ambientato tra Parigi e Rennes, a metà strada tra il diario intimista nostalgico, di probabile derivazione autobiografica, e l’orgogliosa rappresentazione identitaria della condizione e dei costumi omosessuali libertini durante la tragica epoca del dilagare dell’AIDS in Francia, all’inizio degli anni ’90. Racconta la vicenda dello scrittore parigino, quasi quarantenne e gay, Jacques Tondelli (Pierre Deladonchamps), che abita con il figlio adolescente, ovviamente giudizioso e intelligente. L’uomo,  sieropositivo in peggioramento, cosciente  del poco tempo che gli resta da vivere, nonostante le cure (peraltro inefficaci prima dell’avvento delle terapie retrovirali), è spinto da un pressante impulso vitalistico. Quindi moltiplica gli incontri e si concede varie avventure occasionali e molto sesso promiscuo con ex e nuovi partner (in appartamenti e hotel, in strada e nei piccoli cinema) sostenuto e aiutato da Mathieu (Bruno Podalydès), un vicino di casa e amico comprensivo e servizievole.

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Poi conosce Arthur (Vincent Lacoste), ventenne bretone, amante della letteratura, brillante e ostinato, disponibile e amato da una fidanzata e da molti uomini. Tuttavia, nonostante tra loro nasca una bella intesa, Jacques non riesce mai a ricambiare davvero l’amore del giovane, essendo restio a impegnarsi in una relazione profonda, stante l’impossibilità di immaginare un futuro a lungo termine. Christophe Honoré evita largamente i clichés melodrammatici più consueti, ma il suo approccio antiretorico,  non spettacolarizzato e “sentimentale” resta incerto, sospeso tra un’evidente volontà di descrivere lo spirito ludico dei suoi personaggi, privi di sensi di colpa (pur con alcune cadute di stile nella dialettica tra sofferenza psicologica e non rinuncia al piacere fisico ed erotico, spesso ostentatamente autodistruttivo) e necessità drammaturgica di  descrivere  l’angoscia per la prospettiva della morte. Ne risultano una narrazione molto dilatata con lungaggini, dialoghi ricercati e toni ondivaghi nella descrizione della successione di amori, desideri, tradimenti, riconciliazioni e addii. E, soprattutto, una rappresentazione dei molti personaggi, e di un’epoca, a lungo troppo meccanicistica, e appesantita da molteplici citazioni letterarie, cinefile e musicali, che si scioglie in  una maggior credibilità solo nell’epilogo, peraltro abbastanza pasticciato.

Under The Silver Lake, di David Robert Mitchell (USA), (voto: 3) propone un ritratto satirico e affabulatorio del sottobosco di precari e avventizi del mondo dello spettacolo e delle cerchie della subcultura festaiola, con miti new age e riti escatologici, di Los Angeles. Sam (Andrew Garfield), trentatreenne in perenne attesa di raggiungere una qualche notorietà come scrittore o sceneggiatore, ma disoccupato, vive in un modesto residence di villette attorno  a una grande piscina, sulle colline di  Los Angeles, e rischia lo sfratto per morosità. Quando Sarah (Riley Keough), una giovane, attraente ed enigmatica vicina, che ha appena conosciuto e di cui si è invaghito, scompare  improvvisamente, il protagonista si lancia ossessivamente alla sua ricerca attraverso la città.  Questa inchiesta  si traduce in un itinerario costellato da avventure picaresche, incontri, frequentazioni insolite e piste false, sottoponendo Sam a esperienze surreali.  Si  trova immerso in una trama grottesca e  tenebrosa, dove convivono passioni, perversioni e follie, sparizioni e omicidi misteriosi, scandali, presunte cospirazioni, mappe cifrate, messaggi subliminali e una deriva delirante.

 

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"Under The Silver Lake", David Robert Mitchell

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Il film si disperde in svariati e contorti rivoli narrativi, trame, sottotrame ed episodi, avvitandosi su sé stesso in una traiettoria circolare. Costantemente in bilico tra pseudo thriller, dramedy esistenziale e pochade con atmosfere grottesche,  psichedeliche e oniriche,  propone citazioni plurime e raffazzonate, da Chandler a Hitchcock (rivisitato malamente), da De Palma a Lynch e al più recente Paul Thomas Anderson del ben più ammaliante e riuscito Inherent Vice (2014). David Robert Mitchell è noto per il precedente It Follows (2014), un eccellente horror, con protagonisti alcuni teenagers, centrato sull’ossessione collettiva del contagio e su una suspense condita da angoscianti allucinazioni frutto di un’efficacissima messa in scena. Al contrario Under The Silver Lake, pur non privo di alcune trovatine divertenti e di numerosi virtuosismi estetici, è molto prolisso, caotico, farraginoso, discontinuo e infarcito di clichés e di  immagini e suggestioni barocche, pop, degli anni ’60 e ’70, e post-moderne, tanto da risultare falsamente paranoico e visionario, a tratti noioso, e mai davvero originale e provocatorio. Inoltre la direzione degli attori e le performances interpretative sono viziate da troppe incongruenze e stonature. In particolare Andrew Garfield non trova mai la giusta chiave di recitazione.

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"En Guerre", Stéphane Brizé

 

En Guerre, di Stéphane Brizé (Francia), (voto:  2), è un dramma corale squisitamente naturalista, che descrive una vertenza sindacale tesa e violenta. Un film costruito a partire da evidenti premesse ideologiche e con un approccio aggressivo.  La multinazionale tedesca Dimke decide la chiusura  della propria fabbrica francese di componentistica per automobili, Perrin Industrie, ad Agen, nella Nuova Aquitania, in nome di una presunta non competitività della produzione (in realtà per delocalizzare la produzione in Romania e per massimizzare i profitti), annullando i termini di un precedente accordo sindacale costato significative rinunce agli operai pur di ottenere la prosecuzione dell’attività per almeno cinque anni. I lavoratori, guidati dai sindacati, iniziano una dura vertenza, per mantenere i 1100 posti di lavoro, con uno sciopero ad oltranza, tra accese trattative e azioni di picchettaggio, con una durezza e uno spirito militante che ricorda gli anni ’70. Inutilmente.  Tre mesi di blocco della produzione, di confronti molto  animati e duricon i manager, azioni dimostrative finite in scontri con la polizia, incontri con le istituzioni locali e iniziative legali, senza che si  giunga a un qualche accordo. 

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Alla fine sembra profilarsi una soluzione grazie alla mediazione del governo, ma la situazione  degenera dopo il diniego dell’amministratore delegato del gruppo tedesco. En guerre si pone sociologicamente e politicamente sulle tracce  di un altro film di Brizé, La loi du marché (2015), quindi riguarda le problematiche della perdita del lavoro e  della violazione dei diritti dei lavoratori. Tuttavia quel precedente lavoro di Brizé è perlomeno più interessante e compiuto nella caratterizzazione del contesto e del protagonista, Vincent Lindon, valorizzandone il profilo psicologico. En guerre, al contrario, risulta retorico, ossessivamente iterativo e inefficace, nonostante il tentativo di massima drammatizzazione claustrofobica, mediante la continua concitazione, i dialoghi gridati, con sovrapposizione continua di voci, durante  le trattative e gli incontri tra i delegati sindacali, e la ripetizione rituale e ossessiva delle stesse argomentazioni e slogan. Inoltre propone svariati clichés, nella grossolana caratterizzazione dei personaggi e  nel paradigmatico e scontato confronto bloccato tra le parti, e un finale sensazionalista del tutto ricattatorio e imperdonabile. È girato con un vigoroso taglio documentaristico, al netto di  forzature ad hoc e di classici stereotipi: il protagonista Laurent Amédéo, interpretato da Vincent Lindon è “naturalmente” un sindacalista della CGT, il più intransigente ed eroico, vi è il solito sindacato autonomo aziendale collaborazionista e gli operai litigano aspramente e si dividono di fronte alle offerte di indennizzo della proprietà avanzate per costringerli a cedere.  Prevale l’uso della telecamera a mano  con movimenti nervosi e lunghe sequenze in tempo reale accompagnate da una fastidiosa musica cadenzata, risultandone un linguaggio visivo  imperfetto e ibrido che imita i video  postati sui social media, quelli di youtube e le news televisive. La messa in scena punta a offrire un generoso affresco collettivo, ma denota un bozzettismo di corto respiro. Anche l’interazione di Lindon con i numerosi interpreti non professionali del cast è spesso forzosa. Peccato che un tema così attuale e importante sia stato trattato  nella forma di un film – manifesto, con qualche presunzione e  molti schematismi: un’occasione perduta.

Todos lo saben (Everybody Knows), di Asghar Farhadi (Iran), (voto: 2) è un melodramma  stentato e pasticciato che diventa un thriller dai toni grotteschi. Un intrigo narrativo che si sviluppa attraverso dinamiche artificiose, con personaggi più stereotipati o pittoreschi che davvero impegnati a fare i conti con le proprie  emozioni e azioni. La  trentenne Laura (Penélope Cruz), che da molti anni vive in Argentina, accompagnata dai due figli, un’adolescente e un bambino, ritorna nel paese natio in Spagna, in una rigogliosa area rurale, in occasione del matrimonio della sorella. Quando Irene (Carla Campra), la figlia sedicenne, viene improvvisamente rapita, un vortice di bugie e piccole e grandi ipocrisie investono la famiglia allargata di  Laura, ex  proprietari terrieri decaduti, non amati dalla comunità locale. La donna, sempre più disperata (tra l’altro Irene è asmatica e rischia tragiche complicazioni), di fronte alla richiesta di un riscatto,  chiede aiuto a Paco (Javier Bardem), l’ex fidanzato  della gioventù, ora prosperoso viticoltore, che lei stessa aveva repentinamente abbandonato, senza spiegazioni, 16 anni prima per  stabilirsi  in sud America e sposarsi poi con l’argentino Alejandro (Ricardo Darin).

 

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"Todos lo saben (Everybody Knows)", Asghar Farhad

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I film di Asghar Farhadi, specie i più significativi e riusciti, Fireworks Wednesday (2006), About Elly (2009), Nader and Simin, A Separation (2011) e  Forushande (The Salesman) (2016), si configurano come “thrillers dell’anima”, in cui ogni personaggio deve faticosamente fare i conti con  il proprio universo interiore e con vari pesi che gravano sulla  coscienza ed è obbligato ad uniformarsi agli unici valori che consentono di sopravvivere nell’Iran di oggi: la menzogna e la doppia morale. E il regista non li giudica mai, né manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante un epilogo catartico. Piuttosto spinge l’audience a modificare e rivalutare continuamente impressioni e giudizi. In questi magnifici melodrammi, sospesi, imprevedibili ed estremamente coinvolgenti, la solida e intelligentissima messa in scena inquadra un microcosmo privato e mette a nudo progressivamente l’intimità di individui che mostrano una credibile sofferenza esistenziale. Ma, al tempo stesso, pur senza essere dichiaratamente politici, assumono un significato più ampio e ci rimandano sottilmente al macrocosmo, ovvero al ritratto vero delle contraddizioni che l’intera popolazione iraniana vive sotto il giogo del regime teocratico. Purtroppo, come già in parte  nel caso del suo precedente Le passé (2013), girato in Francia, anche Todos lo saben sembra essere condizionato da un’ambientazione in un Paese straniero,  di cui tra l’altro il regista non conosce la lingua, e dal fatto di essere una produzione  europea (francese, spagnola e italiana), con un cast di attori ispanici. E Farhadi smentisce in parte la limpida poetica dei suoi film girati in Iran. Questi due film sono  comunque thriller dei sentimenti e offrono un ritratto dell’ambiguità umana, ma  propongono un intreccio di episodi e di storie che configurano un puzzle che si avvita su sé stesso e, soprattutto, mostrano entrambi un  fallimentare intento didascalico. Todos lo saben in aggiunta presenta una più accentuata struttura labirintica, con un accumularsi di scoperte,  rivelazioni di vecchi rancori sopiti, invidie e gelosie represse, segreti infamanti e confessioni di peccati, nonché di metafore di corto respiro e ridondanti e di deviazioni e forzature narrative. E il gioco al massacro tra parenti e amici, innescato da sospetti e congetture e ampliato da conflitti riemersi sul denaro, la terra e la fede, appare  troppo arzigogolato e viziato da mal gestiti canoni di genere. Certamente Todos lo saben appare più corale, ma anche più costumbrista (ad esempio il lunghissimo prologo di 40 minuti  con la festa di matrimonio, prima del rapimento, è pieno di clichés e  cadute di stile ben poco credibili), con attori lasciati a sé stessi e non ostacolati nelle esagerazioni interpretative naturalistiche, stucchevoli colpi di scena con toni sensazionalisti e pacchiani eccessi melodrammatici. Farhadi sembra più preoccupato di tenere insieme i fili di una vicenda complessa e oltremodo dilatata e condizionata dal peso del passato, in cui prevalgono oscuri sensi di colpa e la paura dei personaggi nell’ammettere la verità verso sé stessi. Quindi conduce lo spettatore a perdersi in una sequela di domande e di risposte, derivanti dalle continue svolte narrative, che a loro volta innescano altre domande, con il rischio di un circolo vizioso che impedisce l’approfondimento. Nonostante alcuni dialoghi significativi, la messa in scena non appare complessivamente particolarmente ispirata e denota un certo disagio verso  i troppi personaggi,  nonostante l’ingannevole intensità, molto iberica, delle relazioni, tra vitalismo, fantasmi tragici del passato, passioni contrastanti e  dolore.

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"Lazzaro felice", Alice Rohrwacher

 

Lazzaro felice, di Alice Rohrwacher (Italia), ha ricevuto il il Premio ex-aequo alla miglior sceneggiatura assegnato alla stessa Alice Rohrwacher (voto: 2). Si tratta di un racconto fiabesco con implicazioni morali, collocato in una dimensione “atemporale”, pseudo poetico e molto pretenzioso. Propone un’ambigua e superficiale epica dell’innocenza e dell’intrinseca bontà contadina, travolta dall’avidità degli sfruttatori, e una grossolana manipolazione di tematiche spirituali e religiose,  tesa a sviluppare una confusa denuncia contro le iniquità di un mondo ferocemente classista, la grettezza, l’avarizia e la cattiveria degli uomini e la malvagità del capitalismo e delle banche. È un’opera estenuante, divisa in due sezioni, ma  appesantita da una congerie di trame e sottotrame, scene madri miracolistiche e due o tre finali. La prima parte, ambientata in un’epoca indecifrabile, forse  alla fine degli anni ’80, in una zona rurale, probabilmente nell’Alto Lazio, descrive la miserabile, e grottescamente assurda, condizione di una comunità di mezzadri, comprendente una cinquantina di persone tra adulti, vecchi e bambini.  

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Collocati in una tenuta isolata dal mondo, la fantomatica “Inviolata”, sono costretti a  coltivare il tabacco, e altri prodotti, in condizione schiavistiche dalla  impietosa “marchesa” Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi). La donna praticamente non li paga grazie alle manovre di un losco amministratore, che in cambio dell’attività produttiva fornisce loro pochi mezzi per la pura sussistenza. Quei poveracci vivono quindi in un limbo, non avendo mai osato o potuto avventurarsi oltre il confine della  masseria, segnato da un fiumiciattolo. Sono tenuti dell’ignoranza, ignobilmente sfruttati e privati di qualsiasi tecnologia moderna. I bambini non vanno a scuola e la sera ascoltano le favole raccontate dagli adulti. Tra loro vi è Lazzaro (Adriano Tardiolo, senz’altro efficace), un giovane dal’anima candida, del tutto ingenuo, gentile e servizievole, che non sa mentire e di cui tutti si approfittano per imporgli le peggiori corvées. Finché Tancredi (Luca Chikovani), il figlio della marchesa, viziato, arrogante e insofferente della situazione, lo nota e lo manipola,  giungendo a definirlo suo “fratello” e  spingendolo ad aiutarlo a nascondersi  dopo aver inscenato un finto rapimento che, comunque, innesca la fine dell’incubo. Un giorno i carabinieri, avvisati del fatto, irrompono nella tenuta e “liberano” i contadini schiavizzati. Nel frattempo  vi è un passaggio surreale e Lazzaro, “risorto” dopo una fatale caduta dalla montagna, si ritrova  20 anni dopo, miracolosamente eterno giovane, a girovagare nella periferia di una città (che assomiglia in qualche modo a Milano e anche a Torino) per ritrovare l’amico Tancredi che non ha mai dimenticato.  Quindi  si  imbatte in un gruppo di indigenti, che comprende diversi ex abitanti dell’Inviolata, invecchiati e  annientati nello spirito, che vivono in una stamberga presso uno scalo merci ferroviario. Sono guidati da una coppia di piccoli truffatori: Antonia (Alba Rohrwacher che scimmiotta Giulietta Masina), già compagna di giochi dello stesso Lazzaro quando era bambina, che lo riconosce e lo accetta senza remore, e Ultimo (Sergi López), più cinico e meschino. Le avventure picaresche della combriccola di sventurati alle prese con una società ove dominano indifferenza, astio, crudeltà e violenza verso gli ultimi nella scala sociale, il ritrovamento di Tancredi (Tommaso Ragno), ormai rovinato e delirante, e l’itinerario di “santificazione laica” di Lazzaro concludono l’improbabile parabola. Alice Rohrwacher ha esordito con Corpo Celeste (2011), un  coming-of-age film viziato dall’urgenza di denunciare la regressività dei comportamenti e l’intreccio perverso tra conformismo religioso, opportunismo politico e supina adesione ai modelli estetici della cattiva televisione. Un’opera con un sottofondo di anticlericalismo di maniera, personaggi deboli, molti clichés narrativi, alcuni momenti di voyeurismo banali e controproducenti e la scelta strumentale di costruire alcune scene madri, giocando maldestramente, tra reale e surreale, per ottenere un’epifania visionaria simbolica.  Il successivo Le meraviglie (2014), consacrato con il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, è un dramma familiare con dubbie sembianze di fairytale e di atipico coming-of-age film. Un’opera condizionata dalla volontà di rivalutare con empatia un falso mito: le “comuni”,  improntate all’ecologismo più radicale, che ricordano esperienze tedesche  del passato ormai superate o fallite. Un film, anch’esso ambientato nel mondo rurale e diviso in due parti, che racconta un’ossessione utopica autarchica che travolge una famiglia, in particolare i figli. Mal scritto e squilibrato da una struttura narrativa che fonde precariamente  naturalismo con impronte realiste e suggestioni grottesche e paradossali alla Fellini, il film è appesantito da una deriva parodistica stucchevole e da troppi finali mal assortiti, fino all’ultimo che evoca l’immaginario come  estremo futuro possibile. Lazzaro felice ripropone e peggiora i difetti  del film precedente, qui citato. Sembra davvero che Alice Rohrwacher abbia scopiazzato una serie di maestri del cinema italiano: Pasolini, De Sica, Sergio Citti, Ermanno Olmi di L’albero degli zoccoli (1978), Bernardo Bertolucci di Novecento (1976), Cesare Zavattini di Miracolo a Milano (1951), Ettore Scola di Brutti, sporchi e cattivi (1976) e Federico Fellini di La strada (1954). Un’operazione di cattiva imitazione e un puzzle di idee rubate, isolandole dalla loro  ragione cinematografica, per nobilitare un disordinato fairy tale che aspira al cinema altamente autoriale, senza vera genialità e con una irritante propensione al manierismo e all’auto-replicazione. La sceneggiatura è sgangherata (sballata, come l’ha definita la stessa Alice Rohrwacher) perché non riesce a gestire l’unica intuizione rilevante, con vere potenzialità poetiche: quella del personaggio di Lazzaro, inconsapevole vittima sacrificale. Anziché renderlo vero protagonista e costruire una limpida metafora poetica, il film si disperde in continue deviazioni, con spunti e temi che si accavallano e si interrompono o scompaiono repentinamente. E mostra una caratura drammatica ondivaga e incerta, tra realismo spurio e surrealismo misterioso, prodigioso e paranormale, e una caratterizzazione dei personaggi che non va oltre gli archetipi  caricaturali. La messa in scena è quindi  condizionata dalla scelta di   un registro di realismo magico di corto respiro, con soluzioni derivative o manifestamente casuali e incoerenti,  confuse o grottesche sottolineature  del candore dei poveri e  una spiccata retorica  riguardante i sentimenti di solidarietà, irrisi dai cattivi e dai corrotti. Anche la direzione degli attori è carente e la recitazione dell’intero cast appare troppo prosaica. Purtroppo la velata, ma schematica indole ideologica, impedisce ad Alice Rohrwacher sia una genuina purezza dello sguardo sia  una vera approssimazione ai modelli poetici di Pasolini e di Olmi.

Un couteau dans le coeur, di Yann Gonzalez (Francia), (voto: 1) è un thriller  porno gay, con tinte splatter e horror, e con ambizioni di B movie d’autore in virtù di una reinterpretazione di ben noti canoni e clichés di più generi. In aggiunta un sottotesto di denuncia contro l’omofobia. La vicenda è ambientata a Parigi alla fine degli anni ’70, nell’ambiente decadente del cinema porno omosessuale. Anne (Vanessa Paradis), una quarantenne lesbica piuttosto cinica, e capace di muoversi con sfrontatezza spericolata in un mondo dove convivono precarietà, rischio e complesse dinamiche di intreccio tra interessi commerciali e passioni private, è proprietaria di una piccola casa di produzione di film pornografici low budget. La donna cerca di mantenere la sua impresa grazie all’esperienza e alla fama ottenuta nel passato, ma lei stessa è in crisi perché è stata lasciata  da Loïs (Kate Moran), la sua amante e compagna da 10 anni, nonché impiegata come montatrice nell’azienda. Poi, proprio mentre cerca di riconquistare la compagna, un serial killer con il volto coperto da una maschera nera, inizia a pugnalare e uccidere con modalità efferate i migliori attori  della ditta e altri amici e conoscenti di Anne.

 

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"Un couteau dans le coeur", Yann Gonzalez

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La donna non demorde e, per esorcizzare la paura, inizia le riprese di un nuovo queer thriller, intitolato “Homocide”, con protagonista l’effervescente Archibald (Nicolas Maury). In quel film, guarda caso, ispirandosi alla realtà del momento, sesso e morte vanno di pari passo attraverso le macabre gesta di un killer mascherato. L’intreccio tra  i delitti del serial killer e di chi lo interpreta nel film, che diventa presto un piccolo cult nella cerchia dei frequentatori dei cinemini a luci rosse, diventa sempre più ambiguo, ossessivo e disturbante, in un incrocio tra realtà e incubo. Dopo l’esordio con il  teatrale claustrofobico, ossessivo e ricercato Les rencontres d’après minuit (2013), molto dark e con echi di Buñueel, Yann Gonzalez ripropone un cinema fortemente caratterizzato in senso sessuale e omosessuale. Un couteau dans le coeur  presenta una trama  macchinosa, confusa e fortemente ripetitiva, con “colpi di scena” truculenti o rozzamente sensazionalisti, senza alcun serio abbozzo di studio dei caratteri  e in assenza di dinamiche audaci in cui il reale, oscuro e sordido, si confonda con una deriva surreale. La messa in scena si affida a scene di sesso esplicito, spesso ridicole, e ad alcune trovate brillanti e divertenti, ma l’atmosfera è troppo altalenante, tra tragico e stravagante o paradossale, la suspense  è  abbastanza artificiosa e la  ricerca di stilizzazione estetica  scade spesso in una piatta deriva naturalista. Inoltre, per  esplicitare l’apparente centralità della metafora del sesso e dell’omicidio come irresistibile coazione a ripetere, nel film prevale la  reiterazione delle stesse scene e dei dialoghi in contesti diversi. Un fatto o una situazione vengono immaginati o sognati raccontati da un personaggio,  poi appena diversamente da un altro e quindi messi in scena sul set di “Homocide”. E lo stesso dialogo viene riproposto, ma ambientandolo in ambienti diversi. Soprattutto e sostanzialmente, Un couteau dans le coeur  configura un’operazione ben poco originale e segnatamente derivativa in quanto Gonzalez imita malamente i film di Dario Argento e Brian De Palma di Dressed to Kill (1980) e Body Double (1984) e cita ampiamente il cinema porno artigianale degli anni ’70 e ’80, con immagini colorate e scenografie d’epoca ben riuscite. Al contrario dimostra di non aver appreso la lezione contraddittoria, ma geniale, di Nicolas Winding Refn e  del suo cinema di corpi ed emozioni, antinaturalista e perturbante,  in cui il tema della violenza, distorta e dolorosa,  si amalgama con quello dell’amore, tenero e privo di romanticismo, che compenetra radicalmente i personaggi.

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"Les filles du soleil", Eva Husson

 

Les filles du soleil, di Eva Husson (Francia), (voto:  1)  è un   mélo ad alto tasso di retorica, ambientato in una zona di guerra. Propone il ritratto della condizione di alcune donne, già vittime delle peggiori sopraffazioni e violenze, coinvolte in prima persone nel perdurante sanguinosissimo conflitto contro gli jihadisti islamici in Siria. Un’opera che, al di là del profilo produttivo mainstream, si vorrebbe presentare come un atto di denuncia politica attraverso il racconto della orgogliosa dignità e del riscatto  delle donne kurde e che, al contrario, è costruita come una storia convenzionale e molto forzata di vittimismo. Ne risulta una telenovela etnica pietosa, con imperdonabile superficialità di approccio, i peggiori clichés narrativi e, persino, sorprendente banalità artigianale e scarsa credibilità nei meccanismi di genere. Mathilde (Emmanuelle Bercot) è una giornalista francese, fotoreporter e corrispondente di guerra con una lunga esperienza  dei conflitti in Medio Oriente e in Africa (una figura che pare sia ispirata a personaggi reali come Marie Colvin). Scampata alla morte, con pesanti stimmate fisiche (ha perso un occhio in Siria), continuo stress emotivo (ha visto morire il suo compagno in Libia) e laceranti dubbi esistenziali se sia giusto ottemperare al senso del dovere di informare e abbandonare ogni volta sua figlia, raggiunge una località nella Rojava, il Kurdistan siriano.

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Quindi ottiene di poter seguire un’unità militare combattente di donne kurde, la cui particolarità è di essere formata da ex prigioniere degli jihadisti,  impegnata  in una missione ad altissimo rischio per la riconquista di una cittadina dove molte di loro erano state tenute in cattività. Al comando della compagnia “Figlie del sole” vi è Bahar (l’attrice iraniana Golshifteh Farahani). Dopo un’iniziale diffidenza quest’ultima racconta a Mathilde la  propria storia, ripercorrendo un itinerario impressionante, dalla prigionia, dopo aver visto ammazzare suo marito, alla fuga, alla condizione di madre dolorosa che ricerca  disperatamente il suo bambino tuttora sequestrato dai terroristi salafiti e presumibilmente addestrato, con altri adolescenti, a diventare un guerrigliero e un futuro shah?d. Dopo il suo esordio con Bang Gang (2015), un  pessimo dramma giovanile “scandaloso”  a sfondo sessuale, Eva Husson si cimenta con un tema molto attuale e delicato: l’esperienza delle  unità combattenti femminili combattenti kurde impegnate in prima linea nella guerra all’ISIS in Siria, in condizioni assolutamente paritarie con i maschi. A parte il fatto che dimostra una totale non conoscenza e un disinteresse per il contesto politico (pregi e contraddizioni delle YPD, ovvero Unità di Protezione del Popolo, nel Kurdistan siriano e loro rapporti con l’ambiguo partito marxista dogmatico del Kurdistan turco, il PKK di Abdullah Öcalan, noto per la sua pratica terroristica), Husson configura una penosissima e grossolana rappresentazione di umana sofferenza e di situazioni tragiche con personaggi stereotipati (senza tra l’altro mai nominare esplicitamente l’ISIS / Daesh) e, in aggiunta, una pseudo spettacolarità di maniera. Da un lato i numerosi lunghi flashback che accompagnano il racconto di Bahar, in cui si vedono rozzi aguzzini e macellai islamisti che rapiscono, violentano e riducono in schiavitù lei e altre donne e poi la loro fuga rocambolesca. Dall’altro una pseudo suspense con scene, per lo più notturne, in cui  l’unità delle “Figlie del sole” attende il momento della battaglia decisiva che, alla fine, si risolve in ben poco e prepara un epilogo, inverosimile, che inneggia alla speranza e all’eroismo. Lo sguardo è greve e poco efficace, i toni sono  paradossali, con  sguaiati eccessi melodrammatici, la lunga sequenza della fuga di Bahar rasenta l’assurdo e il ridicolo, essendo girata in modo molto maldestro, mentre le scene degli scontri bellici sono prive dei requisiti minimi di credibilità drammaturgica e cinematografica. La messa in scena è molto semplicistica, mentre i dialoghi e la recitazione, in cui prevalgono i toni patetici, dovuta alla direzione imposta dalla regista, risultano talmente rozzi e approssimativi da non riuscire forse nemmeno a ricattare la coscienza di uno spettatore minimamente informato e davvero sensibile, ma solo a contrariarlo a causa della oggettiva strumentalità del progetto rouge

 

 

 

 

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08 - 19 / 05 / 2018

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