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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 69. CANNES FILM FESTIVAL I Vince la denuncia politica de l britannico Ken Loach I DI GIOVANNI OTTONE I 2016

CANNES 2016

 

vince la denuncia politica del britannico

Ken Loach, ma prevale il tema della famiglia

 

 

DI GIOVANNI OTTONE

"I, Daniel Blake" di Ken Loach

Cannes 2016

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Il Festival di Cannes 2016, pur mantenendo complessivamente la sua leadership a livello internazionale, in ragione buon livello qualitativo di  molte opere di genuino cinema d’autore viste nelle sezioni della Selezione Ufficiale, non ha presentato,  a differenza di molte edizioni degli ultimi anni precedenti, quei 3 o 4 capolavori che restano nella memoria. Secondo alcuni critici uno dei fattori che hanno determinato un livello qualitativo inferiore alla media del passato è da ricercare nella  concorrenza del Festival di Toronto che si svolge a settembre e che per svariati motivi si è molto potenziato diventando un’opzione privilegiata per  molta produzione americana, ma anche di Paesi importanti asiatici e latinoamericani, anche perché è considerato un trampolino di lancio essenziale per la corsa agli Oscar. Tuttavia, rispetto all’edizione dello scorso anno, il Festival di Cannes ha presentato elementi di differenza non irrilevanti. Nel 2015 la coppia costituita dal nuovo Presidente del Festival Paul Lescure e dal riconfermato, e ormai storico, Delegato Generale Thierry Fremaux   confezionò una Competizione Ufficiale che puntava soprattutto su film, frutto di grandi coproduzioni europee con vocazione transnazionale, privi di significativa ricerca estetica e di precisa identità propria e marcati da troppi stereotipi narrativi, con massiccia presenza di opere francesi, per garantire un’affermazione del cinema nazionale e rendere più “popolare” il Festival. Senza dimenticare la chiacchierata possibile ingerenza della dirigenza sulla Giuria che determinò un Palmarès a senso unico  che denotava il trionfo dei francesi e l’ossessione di premiare opere ampiamente inquadrabili nella categoria “cinéma grand publique”, con tematiche “sociali” e “umanitarie”. Quest’anno Fremaux ha praticamente rinunciato alle coproduzioni con vocazione transnazionale costruite ad hoc per inseguire ambizioni di affermazione a Hollywood e, pur inserendo nella Competizione Ufficiale, priva di opere prime, autori che ne sono habitués, già premiati in passato, si è limitato a 4 film francesi su 21 complessivi, ha promosso altri registi “neofiti” o  che in passato erano stati ospitati solo nella sezione “Un Certain Regard” e in quest’ultima ha inserito ben 7 opere prime su 18 film complessivi, rendendola molto più interessante rispetto alla corrispettiva dello scorso anno. Quindi, in sede di bilancio, si deve riconoscere che, nell’ambito complessivo della selezione ufficiale del Festival, sono state scelte e presentate alcune significative prove di definizione di nuovi territori espressivi e si sono evidenziati importanti esempi di un cinema ancorato al mondo attuale, ma non ripiegato su una piatta raffigurazione di una realtà desolante segnata dalle urgenze della crisi economica e da varie forme di violenza e di degradazione morale.  E inoltre si deve notare che senza dubbio il tema prevalente in diversi film, più o meno riusciti, è stato quello dei legami familiari, con varie letture, più melodrammatiche o minimaliste, ma anche, purtroppo, in certi casi, viziate da sguardi moralistici, nella complessa dialettica dell’epoca contemporanea.

I Palmarès della Selezione Ufficiale e i film inopportunamente esclusi

La Giuria della Competizione, presieduta da George Miller, il regista australiano settantenne che stupì il Festival l’anno scorso con il suo visionario , totalizzante, ironico ed emozionantissimo Mad Max: Fury Road, e piuttosto variegata nella sua composizione, probabilmente divisa da diverse sensibilità, ma anche viziata da una certa superficialità di giudizio, ha emesso un verdetto parzialmente squilibrato. In effetti nel Palmarès, in cui fortunatamente non  hanno trovato posto un paio di film molto “studiati”, artificiosi e piatti, ancorché appoggiati massicciamente da molti critici europei e americani, spiccano le contraddizioni, alcuni riconoscimenti astrusi e,  almeno due o tre gravi esclusioni. Ma soprattutto sorprende in negativo l’attribuzione  della Palme d’Or ad un film mediocre e quasi imbarazzante, in termini di schematismo narrativo, di messa in scena ricattatoria e di estetica datata, ma che evidentemente ha permesso  ai giurati di  lanciare un messaggio di attenzione agli strati sociali più umili, vittime della crisi del welfare state e dell’insensibilità dell’assistenza sociale burocratizzata e terziarizzata nell’Europa occidentale.

Cannes 2016

"I, Daniel Blake" di Ken Loach

 

I, Daniel Blake, del veterano inglese Ken Loach, già vincitore della Palme d’Or nel 2006, è stato premiato come miglior film. Racconta la vicenda di un carpentiere  quasi sessantenne di Newcastle, reduce da un infarto cardiaco, stritolato dalla burocrazia degli uffici addetti alla valutazione della residua capacità lavorativa e dai centri di ricerca occupazionale e privato dell’indennità di invalidità, mentre non può riprendere a lavorare essendo stato sconsigliato dal suo medico. L’uomo si lega in una relazione di reciproca solidarietà con una trentenne disoccupata, madre single di due bambini, costretta ad accettare uno squallido alloggio per non finire in un ospizio e ridotta  ad elemosinare il cibo in una mensa per i poveri e poi a prostituirsi per mantenere i figli e per inviarli a scuola.

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Nonostante una sincera e lucida disanima delle odiose procedure degli uffici che puntano a scoraggiare chi ha diritto all’assistenza per tagliare i sussidi, Loach fa prevalere  l’arida logica del goffo messaggio politico. Vincola lo sviluppo della sua storia di piccoli eroi - vittime agli stereotipi delle figurine di un microcosmo manicheo, ad una  direzione degli attori, e conseguente recitazione, molto convenzionale e ad un finale scontatissimo ed ”esemplare”. Purtroppo anche questo film, che combina toni da commedia dell’assurdo e tragico melodramma, ed è a tratti commovente, conferma l’involuzione, che data da molti anni, di un autore condizionato sempre da una visione ideologica aprioristica, confusamente comunista, e appesantito da un’evidente finalità moralistica qualunque sia l’argomento o il genere che affronta.

Al contrario Il Gran Premio della Giuria è andato con merito a Juste la fin du monde, sesto film del prodigioso ventisettenne canadese Xavier Dolan. Adattamento, con molti ripensamenti, secondo le voci, di una pièce teatrale scritta nel 1990 da Jean-Luc Lagarce, malato di Aids e deceduto cinque anni dopo, il film racconta il ritorno a casa, dopo 12 anni di assenza, di un commediografo di successo (Gaspard Ulliel), consapevole della propria malattia con esito infausto a breve, di cui vuole mantenere il segreto. Il nuovo incontro con la sua problematica famiglia, composta da una madre vanitosa e vezzosa, ma insensibile (Nathalie Baye), una sorella piena di complessi e farmacodipendente (Léa Seydoux), un fratello maniaco, aggressivo e pieno di rancore (Vincent Cassel) e la moglie di quest’ultimo (Marion Cotillard), insicura, emarginata e sottomessa, lo precipita in un angosciante e  assurdo déjà vu.

Determina un dramma travolgente, malinconico e amaro, condensato in  poche ore, con una deflagrazione di ricordi, recriminazioni, accesi contrasti e strazianti tentativi di riconciliazione. Dolan conferma una grande maestria nel descrivere il tipico ambiente piccolo borghese e nel tratteggiare ossessioni moralistiche, desideri occulti e comportamenti non politicamente corretti.  E anche nel rappresentare, con serio disincanto, l’intensità delle situazioni e il caleidoscopio dei sentimenti.  Ancora una volta la scrittura e la messa in scena denotano scelte estetiche originali: primi piani molto serrati, pochi flashbacks armonicamente inseriti, che non interrompono l’intensità del confronto, dialoghi spumeggianti, coloriti e imprevedibili, e una colonna sonora molto ricca e indovinata. Forse non è il film migliore di Dolan, perché denota una certa rigidità nel flusso narrativo d’insieme, appesantito dai tre lunghi confronti separati, teatrali ed emblematici, tra il protagonista e rispettivamente la madre, la sorella e il fratello, interpretati da tre noti attori francesi, a volte ripetitivi e troppo sopra le righe. Tuttavia conferma il suo grande talento che esprime un cinema geniale e raffinato, “romantico”, anticonvenzionale ed elegiaco, colorato e creativo, che fonde momenti dolorosi e spunti vivacemente graffianti e grotteschi.

 

Cannes 2016

"Juste la fin du monde", Xavier Dolan

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Del tutto bizzarra e poco credibile è invece stata la decisione di assegnare il Premio alla miglior regia ex aequo al quarantenne romeno Cristian Mungiu, che ha riconfermato la sua qualità, già riconosciuta con l’assegnazione della Palme d’Or nel 2007, con uno dei film migliori della Competizione, e all’appena sessantenne francese Olivier Assayas, indubbiamente autore tra i più interessanti per la dimostrata, nel passato, profondità dello sguardo, sensibilità  poetica nella messa in scena e capacità di analisi psicologica e generazionale, ma, in questo caso, regista, di un film molto deludente e pretenzioso. Evidentemente si deve supporre che anche quest’anno si è innescata una lobby a favore del cinema nazionale: il componente forse più forte e autorevole della composita Giuria, il regista francese Arnaud Desplechin, ha saputo imporre “un pari merito” del tutto  inaspettato. E comunque Il Premio alla miglior regia, piuttosto che ad Assayas, si poteva tranquillamente  attribuire con pieno merito anche a  Paul Verhoeven, Cristi Puiu, Asghar Farhadi o persino a Park Chan-Wook, in una ipotetica classifica di merito.

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"Bacalauréat" di Cristian Mingiu

 

Bacalauréat, di Mungiu, è un dramma centrato sulla relazione tra padre e unica prole, un chirurgo ospedaliero e la figlia studentessa diciottenne destinata a un futuro di studi all’estero. Alla vigilia dell’esame per il diploma liceale, passaggio obbligatorio per la successiva carriera in Inghilterra, un ambiguo incidente costringe il medico ad agire per ottenere comunque il risultato della promozione, derogando dai principi morali che aveva insegnato alla figlia, con amare conseguenze. Emerge che anche oggi in Romania domina la corruzione, valgono gli stessi metodi e ci si deve salvare singolarmente. La messa in scena di Mungiu è rigorosa e diretta, con un pedinamento visivo compulsivo dei personaggi e un lucido resoconto delle loro modalità comportamentali, ed evita lo sterile moralismo didascalico, anche se nel finale eccede nel giustapporre troppo tutti i fili della storia.

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Personal shopper, di Assayas, è un contorto e noioso thriller parapsicologico. Il regista punta a coniugare, con indole nettamente intellettualista, una riflessione mal riuscita sull’identità e sull’apparire, nel mondo dello spettacolo e dell’alta moda, con motivi di cinema di genere rappresentati in forma grossolana e grottesca e con una banalissima “sorpresa” finale. Sulle tracce del suo precedente Sils Maria (2014), pure deludente e irrisolto, ma almeno non privo di qualità drammatica, giocata sul confronto tra due donne nei ruoli di “serva” e “padrona”, in ambito artistico e in epoca contemporanea, si dipana la vicenda inverosimile di  una personal shopper di vestiti e gioielli per conto di una miliardaria, capricciosa ed eccentrica, attiva nel mondo della moda e dello spettacolo e filantropa, che non si vede mai  perché sempre presa da eventi in giro per il mondo. La ventenne Maureen, che è convinta di poter  percepire messaggi extrasensoriali, si divide tra Parigi e una grande casa in campagna disabitata, in attesa di essere venduta, dove suo fratello gemello  è morto in seguito ai postumi della disfunzione cardiaca congenita di cui lei stessa è portatrice, e dove lei avverte oscure presenze. Vittima di minacciosi e beffardi fantasmi e di uno sconosciuto mittente che dimostra di conoscere ogni sua mossa, e che intrattiene con lei  una viziosa e pericolosa connessione continua basata su un  ossessivo scambio di SMS, la giovane vive un cortocircuito emotivo, tra crisi di identità e pulsioni divergenti, speranze e timori, ossessioni e visioni. Assayas cerca di ottenere intensità e pathos con una messa in scena molto studiata, ma il film, evidentemente costruito su misura per l’attrice protagonista, l’americana Kristen Stewart, che si pure si impegna, finisce per avvitarsi su sé stesso, tra simbologie criptiche e parallelismi sottotraccia e una commistione ardita e imperfetta di linguaggi artistici. Ci si perde tra intellettualismo criptico e suggestioni soprannaturali, che appaiono ben discordanti rispetto alla vena cinematografica del regista.

Il doppio Premio, alla miglior sceneggiatura al cinquantenne iraniano Asghar Farhadi e alla miglior interpretazione maschile a Shabab Hosseini, convincente protagonista di Forushande (The Salesman), dello stesso Farhadi, ha rivelato l’intenzione da parte della Giuria di valorizzare pienamente un film a cui, per oscuri motivi, non si è voluto o potuto assegnare la Palme d’Or. Pur essendo un poco inferiore rispetto ai suoi film precedenti, soprattutto il Premio Oscar Nader and Simin, A Separation (2011), ma anche About Elly (2009) e Fireworks Wednesday (2006), la nuova opera di Farhadi, a nostro giudizio il miglior film della Competizione, conferma la sua capacità di inquadrare le contraddizioni culturali ed esistenziali presenti nel Paese, ovvero di mettere a nudo, in modo raffinato, le convenzioni, le tradizioni, i conformismi e le costrizioni di una società, dominata dalla dittatura teocratica e uniformata agli unici espedienti che consentono di sopravvivere: le bugie e la doppia morale. Il film si sviluppa come un thriller atipico, ma si sostanzia in un’accurata analisi dei comportamenti, assumendo un chiaro significato politico.

A Teheran una coppia di intellettuali trentenni, Emad, insegnante,  e Rana, sono obbligati a trasferirsi in un appartamento provvisorio, messo a disposizione da un amico, perché hanno dovuto evacuare il loro a causa del rischio di crollo del palazzo. Nel frattempo i due sono anche impegnati attivamente come attori dilettanti in un noto dramma teatrale, “La morte di un commesso viaggiatore” del  drammaturgo americano Arthur Miller, in allestimento tra mille difficoltà, per contrasti artistici all’interno della troupe e per la difficoltà di superare le obiezioni della censura del governo. Poco a poco si apprende che la precedente inquilina del nuovo alloggio, che non si vede mai, era una donna sola con un bambino, frequentata da diversi uomini. Emad e Rana, nonostante la loro apertura mentale, si sentono a disagio  pensando a cosa  poteva essere avvenuto dove loro attualmente si sono stabiliti. Poi un giorno Rana, mentre attende il marito, sente suonare e lascia aperta la porta, recandosi poi in bagno per fare una doccia. Ma subito dopo viene aggredita da uno sconosciuto, che è probabilmente uno dei frequentatori della precedente inquilina, lo respinge, viene ferita al capo, sviene e poi è soccorsa dai vicini.

 

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"Forushande (The Salesman)", Asghar Farhadi

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Mentre l’assalitore  riesce a dileguarsi, pur avendo lasciato una traccia di sé. Allo spettatore  non viene mostrata l’aggressione, ma solo il prima e il dopo, con la rievocazione della stessa nel racconto di vittima. Quindi si assiste al successivo confronto tra marito e moglie, dove lei non sa o non vuole spiegarsi bene e lui appare sempre più turbato e umiliato. Emad deve fronteggiare una crescente e penosa pressione psicologica, aggravata dai commenti maliziosi dei vicini, che lo porta ad iniziare una personale inchiesta per individuare l’aggressore, con amare conseguenza. Farhadi  realizza un dramma pluristratificato, che mantiene sempre coerenza e intensità, anche se l’intreccio tra la vicenda esistenziale della coppia e la pièce di Miller, pur tenuto insieme da parallelismi tematici (identità maschile in crisi, uso della menzogna, frequentazione di prostitute, ecc.), a tratti introduce alcune rigidità, ma certamente non dinamiche artificiose. La sua solida sceneggiatura e l’intelligentissima messa in scena inquadrano un microcosmo e  svelano progressivamente l’intimità di individui che mostrano una credibile sofferenza esistenziale. Ogni protagonista deve faticosamente fare i conti con le proprie emozioni e con vari pesi che gravano sulla coscienza. Peraltro il regista non si perde nei meandri di uno sterile psicologismo e non giudica mai i suoi personaggi, né manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante una catarsi conclusiva. Introduce selettivamente nuovi dettagli ad ogni snodo della narrazione, mantenendo la scorrevolezza narrativa. In ogni caso solo una lettura fuorviante, dettata da astrusi schemi mentali ”progressisti” nostrani, può vedere nel comportamento di Emad unicamente l’ossessione di verità e giustizia, facile metafora dell’intransigenza ideologica del regime sciita. In  realtà la questione è ben più complessa e implica dilemmi più profondi rispetto alla relazione tra marito e moglie, ai pregiudizi verso le donne e il sesso, alle contraddizioni che dilaniano, anche in Iran, gli intellettuali progressisti e alla questione della rispettabilità di fronte al giudizio degli altri. Farhadi tesse una trama che  costringe lo spettatore a modificare continuamente la sua opinione rispetto ai singoli personaggi. In effetti nel film ognuno di essi è al tempo stesso colpevole e innocente a seconda del punto di vista con cui lo si può giudicare. Occorre inoltre sottolineare la pregevole direzione degli attori e l’emozionante uso della telecamera che combina diversi piani ed angolazioni.

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"Ma'Rosa" di Brillante Mendoza

 

Il Premio alla miglior interpretazione femminile è stato attribuito con una buona scelta a Jaclyn Jose, protagonista di Ma’ Rosa, del noto regista filippino cinquantenne Brillante Mendoza. Un’opera notevole, a metà strada tra il cinéma vérité, il documentario sociale e il dramma esistenziale: concentrata nello spazio di 24 ore, autentica, realista e priva di pathos retorico, nonostante alcuni limiti artificiosi. La quarantenne Ma'Rosa, madre di quattro figli adolescenti, vive in uno slum dove tutti la conoscono e la apprezzano. Gestisce insieme al marito Nestor un  piccolo emporio, ma in realtà i coniugi spacciano clandestinamente anche narcotici. Una notte  vengono arrestati. Nel commissariato i poliziotti li costringono a vendere il loro fornitore di droga e poi li ricattano chiedendo molto denaro per rilasciarli senza accuse. I figli di Rosa devono procurarlo ad ogni costo. Nel film risalta  il ritratto femminile della protagonista, intenso e controverso, che esemplifica la tragedia quotidiana  dello sforzo di sopravvivere nelle baraccopoli di Manila.

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Al contrario appare del tutto incomprensibile il Premio della Giuria ad American Honey, primo film americano della cinquantenne britannica Andrea Arnold, già inserita nel Palmarès di Cannes con il medesimo Premio nel 2006 e nel 2009. Un  road movie di produzione americana che, nonostante alcuni felici spunti documentaristici sulle periferie omologate povere degli USA e su un’umanità degradata, propone la “storia” di una singolare comunità di giovani, con una messa in scena piatta e ripetitiva, uno sguardo superficiale e spesso compiaciuto rispetto alla subcultura giovanile e abbondanza di banali clichés melodrammatici. La Arnold cerca di imitare Gus Van Sant e Harmony Korine, ma, da un lato non certo le prove migliori dei due autori americani, e, dall’altro, sembra  interpretare  certe specificità culturali e antropologiche americane con una postura accondiscendente molto europea. Un gruppo di una dozzina fra adolescenti e ventenni di varia provenienza, con alle spalle lavori precari, disadattamento e latente disperazione, viaggia su un van, spostandosi nelle pianure del Mid West e del Sud, dal Kansas al Texas, da una città all’altra.  Arrivati a destinazione dormono in squallidi motel e girano nei quartieri suburbani vendendo abbonamenti di riviste di vario genere, ma non disdegnano anche piccole truffe. Sono guidati da una leader spinta da una spietata logica di sfruttamento dei giovani “impiegati”. Animati da persistente frenesia vitalistica e da ambiguo entusiasmo, tra danze catartiche e piccole tensioni, sono costretti a condividere una vita costellata da rituali rigidi e umilianti per guadagnare un pugno di dollari. Considerata la propensione della Arnold, nei suoi film precedenti, per le figure femminili problematiche e antieroiche, risulta scontato che al centro della vicenda vi sia una diciassettenne, in fuga da una famiglia distopica, che affronta un controverso e “doloroso” itinerario di formazione, essendo delusa dal  debole, cinico e bugiardo maschio di turno, braccio destro della leader. Un film prolisso, noioso, non emozionante e prevedibilissimo, con i paesaggi monotoni che scorrono oltre i finestrini del pulmino, e pervaso da un’incessante e irritante  ondata sonora  musicale di brani pop e hip hop.

In sostanza la Giuria, ha purtroppo ignorato almeno tre film, che, a nostro giudizio, sono stati tra i migliori film del Concorso e che commentiamo di seguito. L’esclusione più clamorosa dal Palmarès è stata quella di Sieranevada, del romeno quarantenne Cristi Puiu, un dramma che esplora lucidamente tensioni, passioni, rancori reconditi e ipocrisie insiti nella dialettica delle relazioni familiari. Racconta la commemorazione del padre di un neurologo nel giorno dell’anniversario della morte avvenuta  poche settimane prima. La vicenda, che si sviluppa con una narrazione che simula il tempo reale, si svolge quasi completamente nell’appartamento della vedova dove sono riunite una dozzina di persone, tra figli e altri familiari e amici intimi. Durante i lunghi preparativi per la cena, in attesa di un pope invitato per l’occasione, i personaggi discutono di attentati e violenze nel mondo, ma anche del passato comunista in Romania, tra contrasti, nevrosi, menzogne e confessioni sul privato dei vari ospiti. I protagonisti si rifugiano nella discussione di argomenti fittizi per nascondere le loro paure dietro lo schermo della “realtà concreta”.

 

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"Sieranevada", Cristi Puiu

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Puiu fa trasparire poco a poco i loro drammi, lavorando per sottrazione, attraverso le pieghe di una quotidianità “normale”, descritta con un realismo mai banale e con controllati toni grotteschi, e solo nel finale lascia emergere una vena prosaica dissonante. Sotto traccia emerge che nella Romania di oggi gli individui faticano ad assumere le proprie responsabilità, essendo condizionati da residuali abitudini mentali e culturali consolidate durante i decenni della dittatura di Ceausescu. La pregevole messa in scena coinvolge pienamente lo spettatore  mediante un abile gioco di inquadrature e un sapiente uso del fuori campo nello huis clos dell'alloggio. Elle, del veterano olandese Paul Verhoeven, tratto da un romanzo di Philippe Djian, è un thriller riuscitissimo e molto brillante, pieno di sorprese e di spunti geniali e iperbolici. Un film che smonta e capovolge le regole classiche del genere, ma anche una commedia feroce che articola un’anomala, acuta e sferzante  disanima delle differenze di classe e dei desideri e dell’immaginario sessuale femminile e maschile.

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"Elle" di Paul Verhoeven

 

Una sera la cinquantenne Michèle (Isabelle Huppert), borghese navigata che abita in una grande villa d’epoca nella periferia residenziale parigina, subisce una violenta aggressione con stupro da parte di un atletico. uomo mascherato. Non denuncia il fatto alla polizia, ma non può dimenticare, sia perché lo rievoca nella sua mente in forma deformata sia perché successivamente continua a trovare indizi e a ricevere messaggi provocatori che le fanno pensare di essere oggetto di una persecuzione. Quindi decide di attendere ulteriori sviluppi gli sviluppi, osserva con nuova attenzione il suo entourage e conduce un’inchiesta personale. Nel frattempo continua a gestire con mano ferma  il suo grande studio aziendale di videogiochi, di cui è contitolare Anna, la sua migliore amica. E fronteggia con “stoica sopportazione”: un amante, che è il consorte di Anna, con cui la relazione è agli sgoccioli; sua madre quasi ottantenne e tutta rifatta che convive con un gigolò trentenne; l’ex marito in crisi sentimentale e finanziaria; suo figlio Vincent, debole e succube di una fidanzata arrivista e pestifera.

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Per non parlare di altri personaggi ambigui e poco amichevoli, essendo stati trattati non proprio gentilmente dalla stessa Michèle, che, si viene a scoprire, all’età di dieci anni aveva subito il trauma di suo padre che ha compiuto una carneficina in un tranquillo quartiere di Nantes. L’uomo, in carcere da 40 anni, sta facendo di nuovo parlare di sé perché rilascia interviste ai giornali chiedendo di essere sottoposto all’eutanasia. Quindi la gente non lo può dimenticare e alcuni inaspettatamente, ogni tanto, riversano il proprio livore contro la figlia del mostro assassino. Poco a poco Michèle  manifesta un’ossessione, in un cui si mescolano  timore e curiosità, nei confronti dello sconosciuto persecutore e, d’altro canto, sente il bisogno di rompere il cerchio di menzogne e ipocrisie  che avvolge le sue relazioni con gli altri. Verhoeven gioca abilmente, con i complessi, le frustrazioni e le pulsioni più controverse e stranianti dei personaggi.  La sua regia denota profondità, precisione e creatività, senza complicazioni di contorta introspezione psicologica o di deriva finalistica,  ed empatia nei confronti della sua protagonista: una prova ben superiore qualitativamente a quella dei suoi film precedenti. Il ritmo narrativo configura una perfetta combinazione di suspence, di intrattenimento e di disincanto, con dialoghi taglienti e scene memorabili. Elementi grotteschi, malinconici e tragici si fondono e si scompongono, con reminiscenze del cinema di Chabrol e di Ozon, ma anche con  stilemi visivi e morbosità degni del miglior De Palma. Isabelle Huppert offre una recitazione straordinaria, interpretando al meglio il suo personaggio, razionale e istintivo, disincantato e determinato, e alterna scetticismo, alterigia e nevrosi, algido sarcasmo, crisi di ira, opportunismo e inaspettato sense of humour, ma anche momenti di sofferenza e di sensibilità. Senza dubbio avrebbe pienamente meritato il Premio alla miglior interpretazione femminile.

Agassi (Handmaiden), del  noto coreano cinquantenne Park Chan-Wook, è un dramma - thriller d’epoca che propone i temi dell’erotismo e della tentazione al femminile. Un film conturbante e convincente, in cui un fine tono ironico è perfettamente fuso con i motivi melodrammatici e con le  rappresentazioni del tradimento, della passione e della vendetta. Ambientato in Corea e in Giappone durante l’occupazione giapponese negli anni ’30, racconta la storia di un complotto criminale ai danni di una nobile ereditiera giapponese ventenne, che vive  praticamente reclusa, in una magnifica magione al centro di una grande proprietà, sotto lo stretto controllo di suo zio, un bibliofilo lascivo e autoritario. Un imbroglione, che  si presenta come un conte giapponese, intende sedurla, quindi derubarla e infine relegarla in un manicomio. L’uomo si serve della collaborazione di una giovane e attraente ladruncola coreana che ha fatto assumere come cameriera personale della vittima designata.

 

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"Agassi (Handmaiden)", Park Chan-Wook

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Ma in breve tempo tra le due donne si sviluppa una liason non solo sessuale, ma anche sentimentale. Tuttavia la storia continua capovolgendo i ruoli con un sottile e imprevedibile gioco tra i tre protagonisti. Park esplora il desiderio sessuale, la seduzione e la liberazione dal senso di colpa, gioca con i dilemmi morali e con le passioni contrastanti e dimostra notevoli doti narrative di rivelazione progressiva. La regia conferma il suo talento estetico e visionario, l’approccio antisentimentale e la sperimentazione dello sguardo, fondendo  e scomponendo, con virtuosi movimenti di macchina e con il montaggio serrato, il movimento, le luci e i colori.

Al contrario il Palmarès della sezione “Un Certain Regard”, attribuito dalla Giuria presieduta da Marthe Keller, pur avendo attribuito anche uno dei Premi, a nostro giudizio del tutto immeritato, sempre a vantaggio della produzione francese, ha saputo valorizzare alcuni dei film più riusciti. Il Premio Un Certain Regard al miglior film è andato a Hymyilevä mies (The Happiest Day in the Life of Olli Mäki), opera prima del finlandese Juho Kuosmanen, che racconta una storia vera. Nel 1962 in Finlandia viene organizzato un incontro di pugilato, con in palio il titolo mondiale dei pesi piuma,  tra il detentore, il negro americano Davey Moore e Olli Mäki, il miglior pugile finnico, un provinciale, panettiere e comunista, uomo semplice e introverso. Viene montato un grande spettacolo, ma Olli, pur allenandosi seriamente, è preso dall'amore per Raija, la sua fidanzata dolce e discreta. Juho Kuosmanen, mette a confronto privato e possibile epopea, ricostruisce perfettamente l'epoca e caratterizza i personaggi in senso moderno, con  una narrazione classica, ma non molto emozionante. Il Premio della Giuria è stato assegnato a Fuchi ni tatsu (Harmonium), del giapponese Fukada Kôji, è un dramma eccellente e contundente che propone il fallimento di una famiglia. Il quarantenne Toshio conduce una vita tranquilla insieme alla moglie Akie e alla figlia preadolescente e gestisce da solo un piccolo laboratorio metalmeccanico casalingo. Un giorno assume come operaio, con vitto e alloggio garantito, l'amico Yasaka, tornato in libertà dopo aver scontato una pena di dieci anni di carcere per omicidio. Inizia quindi una vita in comune e Yasada si impone: insegna a suonare l'harmonium alla bambina e poi seduce Akie. Un giorno la donna lo respinge e all'improvviso scoppia la tragedia. Il Premio alla miglior regia è stato attribuito all’americano Matt Ross, autore di Captain Fantastic, una commedia drammatica familiare che mostra pregi e limiti dell’utopia. Una fiaba moderna  ben impaginata, che distilla i sentimenti senza retorica didascalica. Ben (Viggo Mortensen, perfettamente nella parte), convinto militante anticapitalista e anticonsumista, educa i suoi sei figli, di età tra i 7 e i 18 anni, con un training rigoroso: frugalità, autosufficienza, niente videogiochi e smartphones, duro allenamento fisico, tecniche di autodifesa e apprendimento critico multidisciplinare alternativo alla scuola tradizionale. Vive con la prole in un casale rustico tra le foreste del nord-ovest degli USA in attesa del ritorno dell’amata moglie che, molto malata,  ha dovuto andare a curarsi in Texas, ospite di suo padre, ricco imprenditore. Quando giunge la notizia della morte della donna, padre e figli compiono il lungo viaggio per partecipare al funerale e per imporre la volontà della defunta che voleva essere cremata. Il contatto con il mondo ”normale” provoca gustosi siparietti comici, ma fa anche entrare in crisi la fiducia dei ragazzi nel loro superpapà il quale dovrà faticosamente  ricostruire il rapporto con loro andando oltre il fanatismo ideologico. Il Premio alla miglior sceneggiatura è andato alle francesi Delphine e Muriel Colin, per  Voir du pays, la loro opera seconda. Un film pretenzioso e irrisolto, con una scrittura prevedibile e un’analisi psicologica dei personaggi abborracciata. Non ci si riesce ad appassionare alle peripezie di  due soldatesse al rientro da una missione di molti mesi in Afghanisran, che , in base al regolamento dell’Arméeb Française, devono trascorrere tre giorni in un hotel di lusso su una magnifica spiaggia a Cipro. Tra crisi d’identità e traumi psicologici da superare, attese e confronti,  desiderio e rifiuto delle relazioni sessuali, si dipana  un itinerario drammatico che, anziché spegnerla, aumenta la tensione postbellica. Il Premio speciale Un Certain Regard è stato assegnato a The Red Turtle, opera prima dell’olandese  Michael Dudok De Wit, coprodotta dal famoso Studio Ghibli giapponese, specialista nella produzione di cartoons di qualità. Si tratta di un film d’animazione muto che narra l’amicizia tra un uomo, naufrago su un isola tropicale deserta, e un’enorme tartaruga acquatica. Un’opera genuinamente poetica, ricca di suggestioni umaniste e ambientaliste.

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"Eshtebak (Clash)" di Mohamed Diab

 

Purtroppo la Giuria ha ignorato altri film molto significativi di questa sezione. Eshtebak (Clash), opera seconda dell’egiziano Mohamed Diab, è un dramma claustrofobico, incalzante, duro ed efficacissimo. È ambientato nell' estate del 2013 a Il Cairo, in Egitto, quando, dopo la destituzione del Presidente Mohamed Morsi, leader del partito dei "Fratelli Musulmani", milioni di persone manifestano a favore o contro gli islamisti. Racconta una giornata durante le massicce proteste e i gravi disordini tra opposte fazioni. Tutto il film è girato all'interno di un furgone della polizia in cui sono rinchiusi manifestanti arrestati, islamisti e loro avversari, di diversa condizione sociale, e descrive il destino di una ventina di uomini e donne che si avvita in una tragica spirale.

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Omor shakhsiya (Personal Affairs) opera prima dell’israeliana Maha Haj, è una divertente commedia minimalista e, sottilmente malinconica. È ambientata tra Ramallah e Gerusalemme, con una puntata anche in Svezia, in una zona incontaminata. Configura, con fine  osservazione dei  personaggi,   atteggiamenti e visioni della vita in una famiglia palestinese piccolo borghese. Tra routine e paradossi surreali, emergono le incomprensioni tra i genitori anziani e i  due figli e la figlia. Un piccolo film di pregio che ricorda, nello spirito e nell’ambientazione nei territori della West Bank, le commedie del regista palestinese Elia Suleiman. Umi yorimo mada fukaku (After the storm), del noto regista giapponese Kore-eda Hirokazu, racconta una vicenda familiare, evitando i clichés melodrammatici e sviluppando, con estrema sensibilità e raffinata precisione, ma anche con sottile ironia, un  pregevole caleidoscopio di sentimenti. Il  trentenne Ryota, romanziere fallito, fondamentalmente onesto, ma con il vizio di tentare la sorte con le scommesse su vari eventi sportivi,  si arrabatta con una piccola attività di detective privato. Separato dalla moglie Kyoko, è considerato inaffidabile. Ma una notte si ritrova con  lei e con Shingo, l'unico figlio di 11 anni, nell'appartamento di sua madre, mentre fuori si abbatte una tempesta di pioggia. Tra rievocazioni del passato e scoperte di nuove affinità, padre e figlio ritrovano motivazioni per un futuro forse diverso. Hell or High Water (Comancheria), del britannico David Mackenzie, è un poliziesco - western contemporaneo con sfondo sociale, ma anche un road movie, scettico e  crepuscolare. Nel Texas profondo due fratelli trentenni, per salvare dalla  confisca il piccolo ranch di famiglia, compiono una serie di rapine nelle piccole filiali periferiche di un'unica banca. Ben presto un vecchio Ranger alle soglie della pensione e il suo aiutante si mettono caparbiamente sulle loro tracce nelle aride pianure, già territorio dei Comanche. David Mackenzie  propone una messa in scena viscerale ed empatica, tra grandiosi piani panoramici, scene d’azione e altre più intimiste, in un crescendo privo di retorica manichea e dirige al meglio Jeff Bridges, Chris Pine e Ben Foster.

La larga noche di Francisco Sanctis, opera prima degli argentini Francisco Márquez e Andrea Testa, è un dramma esistenziale, prevalentemente notturno, con una buona scansione drammatica, ma  un poco carente  in termini di intensità. È ambientato nel 1977 in Argentina, quando la dittatura militare faceva sparire gli oppositori. Francisco Sanctis è un impiegato di basso livello, padre di famiglia con moglie e due bambini, prudente e non impegnato politicamente. Un giorno Elena, una vecchia amica che non vede da anni, gli passa il nominativo di due persone, dicendogli che saranno arrestate quella stessa notte e chiedendogli di avvisarle: una missione rischiosissima.

 

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"La larga noche di Francisco Sanctis ", Francisco Márquez e Andrea Testa

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Varoonegi (Inversion), dell’iraniano Benham Benzadi, è un dramma familiare lucido e articolato che evidenzia la sottomissione richiesta alle donne sole in Iran. La trentenne Nilofaar, non sposata, gestisce da anni il laboratorio tessile di famiglia, ereditato dal padre. Vive a Teheran con la madre che soffre a causa di un serio enfisema polmonare. Quando la donna anziana si aggrava, suo fratello e la sorella maggiore, le chiedono di trasferirsi con la madre in provincia, nel nord. Ma Nilofaar ha iniziato una felice relazione con un ingegnere. Benham Benzadi descrive accuratamente carattere, scelte e azioni dei suoi personaggi.

Gli altri film di tutte le sezioni del Festival

Di seguito i nostri giudizi sui restanti film della Competizione, alcuni dei quali francamente negativi, e su altri film presenti in tutte le altre sezioni del Festival.

Sezione “Compettion Officielle”

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"Toni Ederman " di Maren Ade

 

Toni Ederman, della trentanovenne tedesca Maren Ade, vincitore del Premio della Giuria dei critici della FIPRESCI, che ne hanno lodato la freschezza innovativa, è al contrario una commediola più che mediocre, prolissa, noiosa e banale, con una regia piattamente realista e ripetitiva, viziata da stilemi televisivi. Un maldestro tentativo di raccontare l’intervento inconsueto e burlesco di un “amorevole” padre sessantenne tedesco, comunque molto antipatico e invadente, per “salvare” la figlia trentenne, manager di un’impresa  addetta alle ristrutturazioni aziendali, workaholic e infelice. Una storia bislacca che si risolve in una parata bozzettistica di situazioni e gags in cui si  manifesta una comicità fasulla, inefficace e / o scontatissima. E poi si svolge in gran parte in Romania, ma, alla faccia del ricercato realismo, nel film quel Paese quasi non c’è, perché predomina una sfilata di uffici high tech, hotel e ristoranti di lusso, dove avvengono le confuse trame industriali e finanziarie.

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Aquarius, opera seconda del quarantenne brasiliano Kleber Mendonça Filho, è un dramma esistenziale con velleità di parabola e di denuncia politica e morale. Racconta la vicenda di Clara (Sonia Braga), una vedova sessantenne ancora molto bella e affascinante, stimata esperta di musica in pensione, che abita in uno  spazioso appartamento in un piccolo condominio di due piani, denominato Aquarius e costruito negli anni ’40, posto sul prestigioso lungomare di Boa Viagem a Recife. Il terreno su cui sorge la casa, unico edificio d’epoca della zona, circondato da grattacieli residenziali risultato di  investimenti edilizi in continua espansione, è diventato oggetto di un progetto speculativo di una potente ditta di costruzione e vendita immobiliare che ha acquistato tutti gli alloggi, lasciandoli ormai disabitati, meno quello di Clara. La donna resiste ostinatamente a varie  pressioni, anche da parte dei suoi figli, perché non vuole vendere il proprio appartamento, alvo di tutti i suoi ricordi e colmo di libri, dischi e fotografie che sono parte della sua storia e della sua identità.  Il regista si dilunga nel raccontare la quotidianità di Clara, tra flashbacks del passato, con esperienze felici e dolorose, frequentazioni di amiche e parenti, passeggiate in spiaggia e continui  riferimenti al sesso. Contemporaneamente innesca un  poco convincente registro thriller, descrivendo le squallide provocazioni e la guerra fredda attuate dagli emissari della ditta immobiliare per intimorire la donna, che si mostra sempre più indignata e poi reagisce. Fino al finale-sorpresa del tutto prosaico, fantasioso e assurdamente  insinuante un possibile sequel. Il film, totalmente calcolato e abilmente costellato da situazioni e citazioni politically correct, ben poco plausibili, è prolisso, squilibrato e contraddittorio. Da un lato denota una pretenziosa autoreferenzialità culturale, con passaggi comprensibili solo al pubblico brasiliano, e dall’altro propone il ritratto, quasi grottesco e persino pedante (con tipologia da sinistra europea o americana radical chic) di una eroina femminile anticapitalista che si oppone con energia al sopruso e alla volgarità della speculazione immobiliare. In realtà Clara, la protagonista, appartiene anch’ella alla borghesia élitaria di Recife, possiede una rendita immobiliare di cinque appartamenti, è molto accondiscendente nei confronti di domestici, bagnini e portinai, ma pretende da loro ”le buone maniere”, e sfrutta le sue conoscenze per recuperare documenti compromettenti e per ricattare la società immobiliare. Il film non riesce ad emozionare quasi mai perché la messa in scena è piatta e prevedibile, senza la brillante estetica sperimentale e le provocazioni surreali e oniriche del film di esordio di Mendonça Filho, O som ao redor (Neighbouring sounds) (2012), un ritratto corale delle contraddizioni della classe media di Recife ben più interessante e privo di finalità didascaliche. Insomma il regista  pare voler imitare Ken Loach, ma non possiede né la credibilità politica né la coerenza autoriale del veterano regista inglese. E, soprattutto, il microcosmo manicheo raccontato nel film risulta chimerico perché la degradazione sociale e morale brasiliana, specie nel Nordeste, nella realtà è ben più purulenta e coinvolge tutte le classi e le categorie. Per non parlare della corruzione e della violenza che in una vicenda come quella raccontata avrebbero portato certamente a ben altri sviluppi.

Ma loute, del francese Bruno Dumont, è una commedia molto riuscita e divertente. Un film ricco di humour caustico, anarcoide e macabro, con stilemi da fumetto d’antan, geniale caratterizzazione antropologica e uno strampalato coté thriller. Costruito sulla traccia comico grottesca della sua precedente miniserie televisiva, con valenza cinematografica, P’tit Quinquin (2014), di cui condivide  il territorio di ambientazione, le spiagge sabbiose atlantiche del nord della Francia, racconta una vicenda che si svolge all’inizio del XX secolo. Durante un’estate una composita e petulante famiglia di borghesi ridicoli si installa, come ogni anno, in una magnifica villa  con architettura eclettica, per trascorrere le vacanze al mare. Ben presto entra in contatto con una famiglia di barcaioli poverissimi, con una masnada di ragazzini, che, clandestinamente, si dedica anche a uccidere i turisti con lo scopo di sfamarsi con la loro carne cruda. Ma il regista evita il narcisismo dell’horror. Infatti le abitudini cannibali della famiglia proletaria configurano piuttosto uno sberleffo alla filosofia positivista della fine del secolo XIX.

 

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"Ma loute ", Bruno Dumont

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Nel frattempo una coppia di buffi e stravaganti poliziotti indaga sulle sparizioni dei villeggianti. Dumont opta per uno stile vivace e contundente, arguto e intelligente, con costumi e scenografie d’epoca molto curati, e controlla  perfettamente la messa in scena. Si basa sulla straordinarietà del singolo personaggio e sulla sua interazione con gli altri, conseguendo una configurazione di alterità caricaturale collettiva. Senza curarsi troppo della coerenza dello sviluppo narrativo, giustappone una collezione di gags ed episodi esilaranti, in gran parte recitati in falsetto, sfruttando le doti interpretative dei suoi attori più noti, in primis Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi e Juliette Binoche, ma anche i molti attori amatoriali del cast, a cui consente di destrutturare i personaggi, tra smorfie e gustosi eccessi espressionistici. Pur non mancando momenti ripetitivi e troppo insistiti il film non si avvita mai in una spirale di stupidità prosaica. Emerge  invece uno sguardo divertito, ma non privo di malinconia, sulle differenze di classe in un tempo storico in cui erano ben evidenti e marcate, e compaiono persino sorprendenti momenti lirici e crepuscolari. Loving, dell’americano Jeff Nichols, racconta la storia vera, avvenuta nel 1958 negli USA, di una coppia interrazziale, Richard Loving (Joel Edgerton), un muratore bianco, e Mildred (Ruth Negga), una casalinga negra, che viveva in Virginia. I due si sposarono a Washington, sfidando le leggi razziste del proprio stato che  sancivano come reati le convivenze e i matrimoni misti. Poi, per evitare la condanna alla pena detentiva prevista, furono costretti a trasferirsi in un altro stato. Ma, pur non essendo dei militanti, si appellarono in tribunale, riuscendo infine, nel 1967, a ottenere il pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti che sancì la liceità della loro unione e quindi, da quella data, di tutte le altre, interrazziali, nel territorio americano. Un film di buona qualità, con struttura e impronta classica e alcuni passaggi convenzionali. Il merito di Nichols è quello di optare per un registro antieroico e  per una narrazione ben poco retorica rispetto ai diritti civili.  Sintetizza il lungo iter processuale e si concentra invece sulla dinamica sentimentale tra i due protagonisti e nei rapporti con i figli, con una cronaca di piccole cose, costellata di sinceri momenti poetici. La direzione dei convincenti attori non manca di qualche ingessatura enfatica, ma, nel complesso, è efficace.

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"Paterson " di Jim Jarmush

 

Paterson, dell’americano Jim Jarmush, è una specie di diario esistenziale minimalista molto pretenzioso, costruito sulla falsariga di uno humour ben poco graffiante. Offre la cronaca di una settimana della vita di una coppia di trentenni. Lui, Paterson (Adam Driver, monocorde e del tutto inadeguato)  porta lo stesso nome della piccola città dove abita, è autista della locale compagnia di autobus, ma scrive anche poesie su un quadernetto che porta sempre con sé. Lei, Laura (Golshifteh Farahan, bravina, ma perennemente vezzosa) si diletta nel cucire vestiti e tendaggi, dipingere piatti, tazze e quadretti e confezionare dolciumi, tutti con disegni geometrici rigorosamente in bianco e nero. La loro routine  casalinga è punteggiata da vari rituali, dal risveglio alle  conversazioni serali, quando lui torna dal lavoro e poi porta a spasso il loro cagnetto brutto e impertinente, fermandosi sempre nel solito bar. Jarmush confeziona vari bozzetti in cui Paterson incontra una serie di  personaggi curiosi e incappa in piccoli incidenti. Nel frattempo scorre a più riprese, con estenuanti ripetizioni, la trascrizione dei suoi componimenti poetici sentimentali e naïfs, con lettura in voice over da parte dello stesso protagonista.

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Talvolta dalle conversazioni con i suoi interlocutori occasionali emergono frammenti di storie di personaggi coinvolti in qualche modo con la città di Paterson: l’anarchico Gaetano Bresci, il poeta Carlos Williams, Lou Costello e Iggy Pop. In effetti non succede  granché di rilevante e le stesse immagini e gli stessi dettagli,  inquadrati ed enfatizzati  più e più volte, con spostamenti minimi, alla lunga diventano banali. Jarmush, sempre orgogliosamente indipendente, al suo esordio, negli anni ’80, ha realizzato opere molto originali e intrise di vivace e acido anticonformismo e spunti surreali (Stranger than Paradise e Danubailò), poi, negli anni’90, ha proposto film caratterizzati da uno strano, e parzialmente intrigante,  approccio “orientale” meditativo e da una lentezza ipnotica (Dead Man e Ghost Dog). Quindi, dopo il felice road movie sentimentale Broken flowers (2005), da cui emerge una critica beffarda all’american way of life, ha compiuto una svolta virtuosistica con l’arzigogolato, noioso e pedante Only lovers left alive (2013), un dramma esistenziale “psicologico” e ”romantico”,  con divagazioni new age e un’estetica dandy.  Ora con Paterson è approdato a una sorta di “classicismo del nulla”, ingessato e pomposo, lezioso e irrisolto, nonostante l’ingannevole semplicità poetica. Non stupisce, né emoziona.

The Neon Demon, porta alle estreme conseguenze la poetica del danese Nicolas Winding Refn e segna due svolte nella sua filmografia: una storia al femminile, centrata sulla bellezza pericolosa e viziosa, e  la scelta del genere horror più esplicito. È un’opera  visivamente raffinata, “provocatoria”, ma piuttosto algida e non emozionante. Jesse (Elle Fanning), modella sedicenne, bellissima, apparentemente ingenua, ma determinata, giunge a Los Angeles ed è subito  arruolata da una prestigiosa agenzia. Cosciente degli appetiti e delle invidie che suscita nelle donne e negli uomini che la circondano, diventa il bersaglio di un trio di  donne dell'ambiente che le manifestano falsi complimenti. Vogliono depredare la  sua bellezza e la sua vitalità, essendo sorprese e incattivite a causa del suo repentino clamoroso successo durante le sfilate di moda. Tensione e inconsci desideri preparano un epilogo delirante, in un climax  accuratamente costruito, ma indubbiamente grottesco e quasi ridicolo. La regia vigorosa, con geniali movimenti di macchina, alterna scene ”romantiche” e sequenze di violenza eclatante. Si susseguono immagini virate, contaminate da un'orgia di  giochi visivi e fotografici, colori e squarci di luce nel buio, gesti e sguardi enfatizzati, momenti di allucinazione e divagazioni quasi oniriche e surreali.

 

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"The Neon Demon ", Nicolas Winding Refn

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"La fille inconnue " di Fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne

 

La fille inconnue, dei fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne, pluripremiati a Cannes nel corso degli anni, e ben due volte con la Palme d’Or, nel 1999 e nel 2005, è  forse il più mediocre fra i loro film. Alla periferia di Liegi Jenny (Adèle Haenel) una dottoressa ventenne, sostituto di un medico di famiglia più anziano, seria e razionale, entra in crisi. Una sera non ha aperto la porta dello studio quando qualcuno ha suonato fuori orario. Il giorno successivo apprende che si trattava di una sconosciuta donna africana immigrata che poi è morta, probabilmente uccisa. Spinta da confusi sensi di colpa e di responsabilità, inizia una faticosa e dolorosa inchiesta personale per ricostruire almeno l’identità della defunta con lo scopo di informare eventuali parenti. Ma poi cerca anche di scoprire chi  è responsabile di quella morte e perché,  innescando amare conseguenze per molte persone. Purtroppo i Dardenne dimostrano di essere ormai ben lontani dai loro primi eccellenti instant movies esistenziali (La promesse, Rosetta, Le fils, e L’enfant), che prendevano spunto dalla realtà sociale più  sfavorevole e sono caratterizzati da intensa fisicità e ambientazione scarna, da uno sguardo laico ed essenziale e da una narrazione realista in presa diretta, senza cascami psicologici o giudizi moralistici.

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La fille inconnue, come già il loro precedente Deux jours, une nuit (2014), accentua ulteriormente la propensione al racconto morale, sconfinando  nel  finalismo didascalico. Il film, pur mostrando un coté apparentemente realista e veridico, grazie alla qualità dell’ambientazione, del production design e della fotografia, è visibilmente troppo costruito. Prevale una scansione narrativa prevedibile, con troppe situazioni stereotipate ed emergono toni melodrammatici decisamente retorici. I Dardenne optano per un approccio umanitario “cattolico” piuttosto sterile, evidenziato anche dalle molte confessioni  presenti nel corso del film, e dimostrano disagio anche estetico rispetto ai meccanismi del genere thriller in cui si sono addentrati, proponendo una suspence del tutto artificiosa. Julieta, dello spagnolo Pedro Almodóvar, ispirato a tre  racconti tra loro collegati del Premio Nobel canadese Alice Munro, è un melodramma privo di convincente disanima psicologica e di vero pathos. Un film che conferma l’involuzione di un autore molto ambizioso, ma ormai prigioniero di una logica cinematografica narcisista e autoreferenziale, ben lontana dalla geniale creatività e dalla spontaneità dei suoi melodrammi atipici degli anni ’80. La protagonista è Julieta, un’insegnante cinquantenne che, dopo molti anni,  ritrova una traccia lontana della figlia Antía, che, non ancora ventenne, si era separata inspiegabilmente da lei, non dandole più alcuna notizia e provocandole un dolore inesauribile. La donna inizia un travagliato processo di memoria e di autocoscienza da cui emerge la complicata e tragica storia d’amore che aveva vissuto con il padre di sua figlia, un pescatore morto in mare in una giornata di tempesta. E giunge alla conclusione che Antía la ritiene responsabile di quella morte, essendo giunta ad odiarla. Da un lato il film è più controllato, con una scrittura e una messa in scena più classiche e meno manieriste, rispetto alle pretenziose e contorte ultime opere di Almodóvar, melodrammi - pastiche, complicati da nervature noir e thriller, baroccheggianti e freddi teatrini, basati su un gioco di specchi, con continui flashbacks, coups de théâtre, trappole e divagazioni (Los abrazos rotos, La piel que habito, Los amantes pasajeros). Tuttavia, dall’altro, non è certo paragonabile alla sua opera più riuscita negli ultimi vent’anni, con cui condivide alcuni aspetti, Todo sobre mi madre (1999), un melodramma, semplice e raffinato al tempo stesso, che dosa molto bene le situazioni e la carica emotiva e fa emergere senza retorica le cose vere della vita. Purtroppo anche in Julieta, pur essendo prevalente il tema della relazione madre - figlia, Almodóvar non è riuscito a limitarsi e lo complica con altri,  più o meno sviluppati: la multiforme identità femminile, la relazione padre - figlia, il passato che ritorna, la gelosia, il tradimento, il senso di colpa, il destino, il fanatismo religioso, ecc. Ne risulta una narrazione stentata, appesantita da un lungo flashback, piena di clichés, con una suspence fasulla e a tratti quasi grottesca, che delude l’aspettativa che suscita. Anche la rappresentazione dei meccanismi dell’amore, della sofferenza e del lutto, pur senza eccessi gratuiti, è pasticciata e poco emozionante.

Rester vertical, del francese Alain Guiraudie, è un dramma esistenziale atipico, artificiosamente provocatorio, costellato da simbolismi criptici e ad effetto e irrisolto. Il protagonista è Léo uno sceneggiatore trentenne che vaga in auto, in crisi di identità professionale e sessuale. Giunto in una zona montuosa infestata dai lupi nella Francia meridionale, si lega a Marie, una pastorella ventenne, già madre single di un  bambino, che vive in una piccola fattoria isolata con il padre, personaggio triste e molto ambiguo. Ma poi, dopo la nascita di un figlio, la donna, stanca dell’atteggiamento inaffidabile di Léo, che va e viene senza spiegazioni, lo abbandona, lasciandogli il neonato. L’uomo si trascina tra peripezie esistenziali e sessuali contraddittorie, fino ad un assurdo finale con i lupi degno di un fairy tale distopico. Il film propone una sfilata di relazioni plurime di carattere sessuale in un mondo in cui desideri e pulsioni appaiono confusi, fragili, variabili e temporanei. E punta su algidi  primi piani anatomici di organi sessuali e sulla sequenza shock iperrealistica del parto in diretta, degna di un documentario medico,  che risultano più inutili che morbosi.

 

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"Rester vertical", Alain Guiraudie

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Mal de pierres, della regista e attrice francese Nicole Garcia, è un melodramma greve ed enfatico. Adatta l’omonimo romanzo di Milena Agus che era ambientato in Sardegna. Viceversa la storia si svolge negli anni ’50 in Provenza.  La protagonista è Gabrielle (Marion Cotillard, in una delle sue tipiche interpretazioni molto sopra le righe), figlia maggiore di una famiglia di ricchi latifondisti, è affetta da una nevrosi maniacale che la spinge a cercare l’amore  come passione assoluta, provocando gran scandalo con i suoi comportamenti irrazionali e disinibiti. Per contenerla i genitori la obbligano a sposare José (Alex Brendemühl), un muratore catalano antifranchista esiliato che hanno assunto come bracciante, uomo tenace e solido. Poi la donna viene ricoverata in un sanatorio  essendo malata di tubercolosi polmonare. Conosciuto un altro paziente, André Sauvage (Louis Garrel), giovane e tenebroso ufficiale, anche pianista, fantastica circa una relazione con lui, rimanendo prigioniera per anni di quell’idea delirante. Nicole Garcia propone una narrazione più che convenzionale e prevedibile,  infarcita di clichés, e risolve in maniera molto grossolana i temi della sessualità e del disagio mentale. The last face, dell’attore e regista americano Sean Pean, senza dubbio il peggior film della Competizione. Si tratta di una love story tragica tra due medici impegnati  nel soccorso di profughi e vittime civili delle  sanguinose e folli  guerre intestine che si sono svolte  negli ultimi anni in Africa, in Sierra Leone, Liberia e Sud Sudan. Wren Pererson (Charlize Theron), bellissima direttrice di una ONG umanitaria, e Miguel Leon (Javier Bardem), affascinante chirurgo in prima linea, si innamorano appassionatamente mentre sfidano gravissimi pericoli e sono testimoni di brutalità ed efferate mattanze. Ma poi vivono il tormento di una crisi di identità senza fine, perché lei è più responsabile, mentre lui è preda della smania adrenalinica di  operare in condizioni estreme. È un fotoromanzo esotico, punteggiato dai peggiori clichés e da situazioni inverosimili sullo sfondo di immagini di orrori bellici: un pasticciaccio talmente grottesco che non riesce nemmeno a ricattare la coscienza dello spettatore, ma solo ad irritarlo e ad annoiarlo.

Sezione  “Hors Compétition et Séances Spéciales”

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"Café Society" di Woody Allen

 

Café Society, di Woody Allen,  è un film di buona fattura con la magnifica fotografia di Vittorio Storaro e un cast eccellente che comprende, tra gli altri, Steve Carell, Jesse Eisenberg e Kristen Stewart. Una brillante commedia, a tratti caustica e graffiante, ambientata negli anni ’30. Nella storia di un giovane ebreo del Bronx che fugge da una famiglia soffocante per andare a lavorare nello studio del potente zio, agente cinematografico a Hollywood, e poi, tornato a New York, dopo una grave delusione d’amore, assume la direzione del night club più famoso, di proprietà di suo fratello gangster, Allen concentra molti dei suoi temi preferiti rispetto all’etica, al sesso, ai tradimenti, agli scontri familiari e agli azzardi della vita, risolvendoli con brio e con gustoso scetticismo, fino a un epilogo aperto, indovinato e moderno.

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Money Monster, dell’attrice e regista americana Jodie Foster, è l’ennesimo thriller dedicato al potere dei media e al dramma di un povero risparmiatore, succube della folle tentazione del gioco in borsa e vittima di una sporca truffa di dimensioni colossali ordita dal finanziare criminale di turno. Un film, con attori famosi quali George Clooney e Julia Roberts, tutto giocato sulla suspence sensazionalista della situazione limite con pericolo di vita, ma scontato, prevedibile, grossolano e ambiguamente moralista. The BFG, di Steven Spielberg, adattamento molto fedele del classico romanzo del britannico Roald Dahl, racconta l’esperienza straordinaria di un’orfanella troppo curiosa. Una notte viene rapita da un gigante gentile vegetariano e ingegnoso ladro di sogni, che la trasporta nella lontana terra degli altri giganti che sembrano orchi e odiano gli umani, ma li apprezzano come nutrimento. È un fantasy molto curato, con massicci interventi di performing capture e simulcam, ricchissimi effetti digitali ed esplosione di  coloratissimi trucchi scenici. Una  fiaba che  appagherà sicuramente il pubblico dei preadolescenti, tra momenti minacciosi e divertenti intermezzi, ma in cui estro e fantasia poetica sono davvero troppo imbrigliati. The nice guys, dell’americano Shane Black, è una scatenata commedia burlesca travestita da  poliziesco. Ma è soprattutto un buddy film, costruito ad hoc su una coppia di attori che si dimostrano efficaci, complementari e abbastanza affiatati: Russell Crowe e Ryan Gosling. La storia, piuttosto complicata, si svolge a Los Angeles negli anni ’70 e vede la coppia di detectives privati di piccolo cabotaggio alla ricerca sia di una ragazza misteriosa, bersaglio di  maldestri assassini, sia di un filmino porno che contiene  fotogrammi segreti di documenti che possono rovinare un grande affare. Un film  divertente, che accoppia action e comicità a raffica, sulla falsariga dei precedenti  due Lethal Weapon, dello stesso Black, ma anche con referenze a Blake Edwards e persino ai film dei nostri eroi Bud Spencer e Terence Hill. Exil, opera toccante e lucidissima del noto documentarista cambogiano Rithy Panh racconta la criminale utopia “ugualitaria” di Pol Pot e dei Khmer Rossi che nel 1975 instaurarono una dittatura agghiacciante in Cambogia provocando due milioni di morti e riflette sulla terribile idea della “purezza rivoluzionaria”. Per rievocare l’incubo il regista utilizza un originale dispositivo scenografico creato in studio che esemplifica la terribile penuria e la fame che  furono obbligati a subire i cittadini deportati nelle campagne e costretti a massacranti e inutili lavori forzati. La mort de Louis XIV, del catalano Albert Serra, ricostruisce gli ultimi giorni della vita del Ra Sole nella Reggia di Versailles. Nell’agosto del 1715 il grande monarca (Jean-Pierre Lèaud, davvero magnifico), già  molto affaticato e sofferente per un lancinante dolore ad una gamba, è circondato  dal suo staff di consiglieri e dai fedeli valletti e sottoposto a consulti dei migliori medici dell’Università. Dedica ancora qualche udienza alla corte, dispensando battute argute e pareri politici e si preoccupa soprattutto dei suoi amati cani da caccia. Ma il sonno è agitato e poi la febbre sale, non riesce più ad alimentarsi e inizia la sua agonia. Serra propone un film in costume, prevalentemente notturno, che ricorda il suo precedente Historia de la meva mort (Story of my death) (2013), anche quello, come questo, una coproduzione ispano-francese. Un’opera molto elegante, di tipologia teatrale, ma del tutto cinematografica nella messa in scena curatissima al limite del narcisismo, classica e personale al tempo stesso, con studiati movimenti di macchina e dialoghi pregnanti che illustrano usi e convenzioni dell’epoca in un’ottica crepuscolare. Gimme Danger, di Jim Jarmush, è un documentario dedicato al cantante-icona Iggy Pop e alla sua band, gli Stooges, sensazionale novità nel panorama del rock’n’roll negli USA, e anche in Europa, alla fine degli anni ’60. Il film ricostruisce minuziosamente l’itinerario del gruppo, dai successi, alle cadute e ai contrasti, avvalendosi di un’ampia intervista, a tratti un monologo, allo stesso Iggy Pop e di interventi degli altri membri del complesso ancora viventi che rievocano anche quelli scomparsi. Si parla di una musica che mescolava vari generi, rock, blues, R& B e free jazz, e che si può considerare antesignana del punk e del rock più alternativo tuttora in voga. Ma si ricordano anche fatti e personaggi della cultura, della società e della politica dell’ultimo trentennio del secolo scorso. Una testimonianza vivace e divertente, ma a tratti anche un po’ noiosa, che suggella anche il sodalizio pluriennale di stima e amicizia tra il regista e il cantante.

Sezione “Un Certain Regard”

Me’ever laharim vehagvaot (Beyond Mountains and Hills), terzo film dell’israeliano Eran Kolirin è un dramma familiare che delinea discretamente profili psicologici e contraddizioni esistenziali in una famiglia del ceto medio, con sullo sfondo le questioni fondamentali che alimentano la continua tensione politica e sociale presente in Israele negli ultimi anni. Racconta crisi di identità, problemi  relazionali tra marito e moglie e con i figli, difficoltà lavorative e pericoli nelle relazioni con i palestinesi. Tuttavia non mancano i clichés e l’ambiguo happy end finale è abbastanza dissonante. Apprentice, opera seconda di Boo Junfeng, regista di Singapore, è un dramma carcerario, non privo di tensione, ma con un’impaginazione piuttosto rigida, analisi psicologica carente e mal riuscita ed eccessi di overacting. Racconta la storia di Aiman un ventenne, assunto come secondino in un carcere di massima sicurezza, che riesce a diventare l’assistente di fiducia di Rahim l’anziano boia, addetto alle esecuzioni capitali mediante impiccagione e maniaco della precisione. Ma quest’ultimo non conosce le motivazioni personali che hanno spinto il giovane a tanto zelo. Uchenik (The student), quarto film del russo Kirill Sebrennikov, descrive la ribellione violenta di uno studente liceale, frustrato sessualmente e ossessionato dalla lettura della Bibbia, che usa come strumento di potere e di sopraffazione  nei confronti degli insegnanti ipocriti e inetti e dei compagni a cui vorrebbe imporre i suoi fanatici dettami integralisti. Un film sgangherato, con un ritmo  nervoso, continue precipitazioni eclatanti e un realismo crudo e “paradossale”. Si nota l’urgenza e si intuisce la volontà di denuncia purista delle contraddizioni giovanili nella Russia di Putin, ma  l’eccesso di temi e di svolte narrative, la recitazione costantemente sopra le righe, i dialoghi concitati e l’ampio uso della telecamera a mano con immagini spesso precarie provocano più noia e irritazione che interesse. La danseuse, opera prima della francese Stéphanie Di Giusto,  racconta, con  scrittura e stile molto tradizionali, la storia vera di Loïe Fuller. Americana, giunta dal selvaggio West a Parigi alla fine del XIX secolo,  divenne, dopo dolori e miserie, una star famosissima e adorata della danza modernista, faticosissima performance fisica, tra amplissimi veli di seta e giochi di luci e ombre, coreografati da lei stessa. Un feuilleton pretenzioso e insipido, con una drammatizzazione abborracciata in cui convergono crisi, resurrezioni, amicizia e gelosia con l’allieva Isadora Duncan e tormentate relazioni sentimentali e sessuali. Pericle il nero, terzo film di Stefano Mordini, ispirato all’omonimo romanzo pulp di Giuseppe Ferrandino, è un thriller con velleità di dramma esistenzialista di un “damned and guilty fugitive”, coprodotto dalla società dei fratelli Dardenne. Interpretato da Riccardo Scamarcio, totalmente fuori parte e grottesco, e ambientato nella comunità napoletana di Liegi, racconta la storia di un manovale della camorra, rozzo e violento, che si vendica del suo padrino che lo aveva ingannato per anni e, da un giorno all’altro, sceglie un’inverosimile vita normale. Un film con una regia televisiva pasticciata e mediocre, tra fastidiosa voice over e musica invadente, stiracchiato, pretenzioso e privo di vera suspence. Câini (Dogs), opera prima del romeno Bogdan Mirica, ha ottenuto il Premio dei critici della FIPRESCI. È un thriller molto dark, viscerale e intrigante, che gioca sulla sensazione di minaccia incombente. Un giovane si trasferisce in un remoto villaggio isolato al confine tra Romania e Ucraina, con l’intenzione di vendere  una vasta proprietà terriera che ha ereditato dal nonno recentemente scomparso. Ma apprende che il defunto era un gangster e subisce l’ostilità dei locali e pressioni  e provocazioni da parte di una banda di delinquenti.  Purtroppo le referenze a Peckinpah, motivi alla Tarantino, disseminati qua e là, e l'atmosfera Tex / Mex rendono il film troppo scolastico e in parte dissonante con il contesto antropologico.

Per quanto riguarda le Sezioni “Quinzaine des Réalisateurs” e “Semaine de la Critique” si rimanda ai film recensiti nelle seguenti schede di approfondimento. Tuttavia restano da segnalare altri 9 film  nella “Quinzaine”. Fa bei sogni, del veterano Marco Bellocchio, è un adattamento del bestseller di Massimo Gramellini. Racconta il tormentatissimo itinerario esistenziale di un giornalista sportivo torinese di famiglia benestante, perseguitato fino all’ossessione dalla morte dell’amatissima madre, avvenuta quando era bambino, perché incapace di rendersi conto che la donna si era suicidata. Bellocchio riversa nel film  varie fra le sue ossessioni personali, ma il risultato è molto irregolare, tra tentativi abortiti di analisi psicologica, continui flashbacks e flashforwards, tante immagini  della televisione e suoni d’epoca ed episodi ridondanti, qualche spunto poetico, tra cui l’epilogo struggente, ma complessivamente ingessato e poco emozionante.  La pazza gioia, di Paolo Virzì, è una commedia “drammatica” dedicata al disagio mentale. Ma è soprattutto un doppio ritratto femminile e si sviluppa come un road movie sulle strade della Toscana. La vicenda si svolge in una comunità psichiatrica terapeutica sita in una villa in campagna da dove fuggono due  trentenni diversissime, ma magicamente solidali: Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi, molto convincente, come sempre nei ruoli comici), una ricca borghese, maniacale e invadente, che il marito ha fatto interdire, e Donatella (Micaela Ramazzotti,  molto impostata e fasulla), una poveraccia depressa in cerca di affetto a cui è stata tolta la custodia del bambino di 8 anni dopo un tentativo di suicidio. Nonostante una messa in scena più curata e una maggior  precisione nella scansione dei tempi drammatici rispetto ai suoi film precedenti, Virzì riconferma la proposta di un “cinema popolare” che strumentalizza la vis comica, felice solo a tratti a causa della propensione al bozzetto macchiettistico, per sostanziare una forte e ambigua finalità didascalica.  Il suo teatrino in cui operatori  sanitari e malati mentali sono felici e collaborativi è abbastanza inverosimile, chimerico e poco graffiante. Fiore, terzo film di Claudio Giovannesi, è un coming-of-age film drammatico, non privo di discrepanze nella scrittura, ma con il merito di contenere la tentazione  sociologica e di evitare  lo psicologismo di maniera. Racconta in forma cronachistica la storia di Daphne, una diciassettenne che rapina i coetanei, condannata alla detenzione in riformatorio dove inizia una storia d’amore, limitata dalla comunicazione vietata, con Josh, un coetaneo condannato per furto. Pur raccontando abbastanza efficacemente, con qualche clichés e ingenuità, la realtà carceraria, il regista opta soprattutto e felicemente per l’osservazione naturalistica dei suoi protagonisti, entrambi attori esordienti, sottolineando incertezze, piccoli gesti, determinazione e non rinuncia ad un sogno condiviso. Neruda, del cileno Pablo Larraín, noto per i suoi eccellenti drammi dedicati alla re-visione postuma della dittatura di Pinochet,  non è un biopic sulla vita “scandalosa” e travagliata di Pablo Neruda, il più grande poeta cileno. È piuttosto un rischioso tentativo, riuscito solo in parte, di catturare coerenza e contraddizioni di un borghese, fine epicureo e donnaiolo, ma anche incredibilmente capace di condividere e interpretare l’anima delle persone più umili, comunista ideologicamente ortodosso, ma anche ribelle alle direttive del partito per pura inclinazione estetica. Il regista  racconta solo un anno cruciale della vita del poeta, il 1948, quando, essendo deputato, e avendo criticato  pubblicamente il Presidente semidittatore Videla, appoggiato dagli USA, viene ricercato con accanimento da un commissario di polizia. Alla fine, dopo mesi di vita in clandestinità ed episodi prosaici di sortite con buffi travestimenti, Neruda (Luis Gnecco, in un’interpretazione ispirata) riesce a fuggire in Argentina, attraversando le montagne e poi in Europa. Un film che conferma lo stile essenziale e raffinato di Larraín, che crea atmosfere e un paesaggi visivi emozionanti, e che offre anche un omaggio non formale al genere noir americano degli anni ’50. Divines, opera prima della francese Houda Benyamina, è l’immeritato vincitore del Premio Caméra d’Or, quale miglior film tra gli esordi in tutte le sezioni del Festival. Ambientato nelle banlieus parigine, racconta l’itinerario drammatico di formazione di una delinquente teenager che vive di espedienti e che alacremente si fa strada come dealer, per superare le umiliazioni, dichiarando di voler diventare “ricca” a tutti i costi. Ma la mescolanza di ritmi da action movie, di sentimentalismo “femminista” e di rappresentazione di maniera delle contraddizioni sociali delle periferie appare banale e a spesso irritante. Per non parlare della messa in scena approssimativa, dell’affastellarsi bulimico di temi in un crescendo teso a suscitare facili “emozioni forti” nello spettatore e dell’orribile finale tragico e grand guignol ad effetto. Insomma Houda Benyamina sembra davvero essere sulle tracce del pessimo De rouille et d’os (2012), del connazionale Jacques Audiard, e dei ricattatori ultimi film della danese Susanne Bier.  Mercenaire, opera prima del francese Sacha Wolff, immeritato vincitore del Label Europa Ciemas Award, è un grossolano coming-of-age film drammatico. La vicenda di Soane, massiccio giocatore di rugby diciassettenne Maori, già vittima di un padre padrone, approdato  da Wallis, isola francese nel Pacifico, alla provincia transalpina e coinvolto in beghe sportive di ingaggi e ricatti e in una relazione stucchevole con una coetanea irresponsabile, non appassiona affatto. La messa in scena è convenzionale, i clichès abbondano e lo sguardo accondiscendente del regista infastidisce. L’économie du couple,  del belga Joachim Lafosse, è un dramma coniugale abbastanza pretenzioso, prolisso e ricattatorio nei confronti del pubblico. Racconta un amore finito e la lacerante disgregazione   della relazione fra due coniugi quarantenni (Bérénice Bejo e Cédric Kahn, che oscillano tra inadeguatezza e overacting), separati in casa, che continuano a vivere insieme per poter gestire il rapporto con i loro due bambini. Tra continue recriminazioni, forzature artificiose ed episodi prosaici e tragici ad hoc, acerrime liti e grottesche riconciliazioni, ci si avvia al finale atteso. Il film, tutto girato in un piccolo appartamento con annesso giardino, che i due si contendono, propone un’intensità spuria e analisi psicologiche superficiali e convenzionali. Mean Dreams, opera seconda del canadese Nathan Morlando, combina thriller ingenuo e piuttosto grossolano e coming-of-age film con velleità di ritratto poetico  del primo amore fra adolescenti. Ambientato in una regione agricola e boscosa, racconta l’incontro e il colpo di fulmine tra due quindicenni che poi fuggono con  l’ingente malloppo rubato al padre di lei che è  un malvagio poliziotto corrotto, ambiguamente possessivo nei confronti della figlia. Non emoziona nonostante il classico meccanismo della suspence data dalla caccia ai fuggiaschi. Dog Eat Dog, del veterano americano Paul Schrader, è un noir pessimista e beffardo, piuttosto scontato, ma non privo di preziosismi stilistici ed echi del cinema di Tarantino. Al centro della storia, ambientata  a Los Angeles, con indovinate locations di periferie squallide e omologate e localacci sordidi, vi sono tre delinquenti (Nicholas Cage, Willem Dafoe, il più schizzato e Christopher Matthew Cook, tra ispirazione e maniera) che si sono conosciuti nei lunghi anni passati insieme in galera. Cialtroni, velleitari, amanti delle droghe e della baldoria e dissipatori compulsivi in tempi record dei malloppi racimolati, disposti a tutto, esperti nel mestiere, ma anche pasticcioni e efferati quando occorre, si infilano nella confusa storia di un rapimento per conto di un boss messicano, con sviluppi contorti e paradossali di vendetta, fino al finale, molto deludente, con accenti dissonanti di ricerca di impossibile redenzione. La regia offre interessanti intermezzi onirici e psichedelici, con immagini multicolori virate, e nel complesso segue stilemi nervosi, ma non proprio originali. E infine due film della Semaine. I tempi verranno felici, terzo film di Alessandro Comodin, è una meditazione sui temi della fuga e della libertà. Un film abbastanza intrigante, ma anche criptico, venato di strane allegorie e di suggestioni culturali dark, popolari e fiabesche, ma anche in profonda sintonia panica con un ambiente naturale selvaggio e lussureggiante. Caratterizzato da una narrazione alternante, a tratti circolare, a tratti  a ritroso, e ambientato nelle vallate montuose della provincia di Cuneo, racconta la storia tragica di due fuggiaschi, immersi totalmente nella foresta e vittime di un’oscura violenza. Poi dopo un intermezzo di interviste ai valligiani  sulla favola di un lupo e una fanciulla, la esemplifica nella vicenda contemporanea, tra realtà, paradossi e suggestioni di purezza primitiva di memoria pasoliniana,  di un amore tenero e misterioso tra due giovani, essendo il maschio la possibile reincarnazione o il fantasma di uno dei fuggiaschi della prima storia. Il film è più ambizioso, viziato di intellettualismo e meno riuscito, rispetto a L’estate di Giacomo (2011), poetica opera di esordio di Comodin. Peraltro mostra uno stile minimalista raffinato con sapiente uso della macchina a mano, freschezza di immagini fisiche e dettagliate dei corpi e della natura e un montaggio di qualità. Mimosas, opera  seconda dello spagnolo, di origine francese, Olivier Laxe, ha ottenuto il Gran Prix Nespresso quale miglior film della sezione. Ambientato tra le montagne selvagge dell’alto Atlante in Marocco, il film è pervaso anche da riferimenti  ai riti del sufismo islamico. Racconta due storie parallele distanziare nel tempo: il viaggio controverso di una carovana che accompagna un vecchio sceicco molto malato, che vuole essere sepolto nel luogo natale dove risiedono i suoi congiunti, e le peripezie di uno strambo personaggio che aiuta i carovanieri in difficoltà. Si dispiega tra sapienti tagli documentaristici e incerta scansione drammatica e tra suggestioni epiche e di spiritualità interiore, con uno stile raffinato che gioca sulla lentezza e sulla  forza delle immagini rouge

 

 

 

 

 

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69. CANNES FILM FESTIVAL 2016

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11 - 22 / 05 / 2016

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