SEZIONE COMPÉTITION OFFICIELLE
MAMBIKI KAZOKU (SHOPLIFTERS), di Kore-eda Hirokazu (Giappone) Palme d’Or
Un’insolita famiglia
Un intenso intreccio drammatico di relazioni umane
Shoplifters (Une affaire de famille) è un magnifico dramma. Propone il la questione della famiglia, in particolare i legami affettivi esistenti in quella entità e la proiezione sociale della stessa, un tema che attraversa tutta la filmografia del cinquantacinquenne Kore-eda Hirokazu. Racconta, con straordinario respiro narrativo, delicatezza e apparente semplicità di toni, ma anche con grande intensità emotiva, la parabola esistenziale di un nucleo familiare inconsueto, che vive ai margini della società, infrangendo le regole, ma i cui membri mostrano forte spirito comunitario e, tra loro, palesano sentimenti genuini. Fin dai primi minuti del film lo sguardo partecipativo, sensibile, sottilmente ironico e non reticente del regista, riesce a far emergere la particolarità dei personaggi che compongono la famiglia Shibata, descrivendone la quotidianità. Il quarantenne Osamu (Lily Franky) lavora saltuariamente come operaio edile in una ditta di costruzioni. La sua partner trentenne Noboyu (Sakura And?), scaltra e battagliera, è impiegata come stiratrice in una lavanderia sita in uno squallido capannone. Il suo è un lavoro usurante, mal pagato e del tutto precario. L’anziana Hatsue (Kilin Kiki), che chiamano nonna, e che forse è una ex prostituta, assicura il reddito più sicuro, una magra pensione, a cui si aggiungono versamenti periodici di piccole somme che ottiene dalla famiglia della seconda moglie dell’ex marito.

"Shoplifters" di Kore-eda Hirokazu |
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La sedicenne Aki (Mayu Matsuoka), che si definisce nipote di Hatsue, studia, ma si esibisce anche in un peep show club senza pretese, arrivando anche a prostituirsi. Shota (Kairi Iyo), un bambino di dieci anni, intelligente e introverso, non va a scuola, ma accompagna ogni giorno Osamu, che lo considera suo figlio, in un itinerario quotidiano tra supermercati e negozi di abbigliamento. I due agiscono come taccheggiatori, rubando prodotti alimentari e non con tecniche ingegnose e sperimentate e quindi assicurano la spesa alimentare necessaria alla famiglia. Vivono tutti insieme in una modestissima, angusta e sporca casetta in un quartiere proletario di Tokyo. Una sera Osamu e Shota si imbattono in una bambina di circa quattro anni, che si nasconde infreddolita dietro un cassonetto. La portano a casa e la nutrono. Hatsue e Noboyu scoprono che la piccola Yuri (Miyu Sasaki) presenta lividi ed ecchimosi e non vuole tornare a casa dai genitori.
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In effetti allo spettatore viene mostrato che la bambina è stata continuamente vessata da sua madre e picchiata da suo padre. Quindi, nonostante apprendano che la bambina è ricercata dalla polizia, gli Shibata decidono di tenerla con loro, assumendosi il rischio. Poco a poco, grazie a un meccanismo di rivelazione progressiva, si apprendono i tristi e oscuri segreti di ognuno dei componenti della “famiglia”, tra i quali non esistono legami naturali di sangue. Si sono trovati casualmente e accettati nel corso degli anni e, incuranti dei comuni codici morali, oltre ad aver stabilito un modus vivendi di solidarietà (con piccole bugie degli adulti nei confronti dei bambini), tra loro si è sviluppato un clima di protezione reciproca, con momenti di sincera coesione e di vera felicità. Poi avviene un primo incidente: una notte Hatsue, la nonna, muore spontaneamente, forse esausta dopo una splendida giornata di vacanza trascorsa al mare. Quindi Osamu e Noboyu, nel tentativo disperato di non far trapelare la verità, per continuare a ritirare la pensione di Hatsue, vitale per sopravvivere, la seppelliscono in giardino. Finché un giorno un banale incidente, causato proprio da Yuri, mette la polizia sulle tracce degli Shibata. Osamu e Nobuyo vengono arrestati: tragici segreti del loro passato e l’occultamento del cadavere di Hatsue vengono alla luce. Di fronte alle istituzioni e alla società, che si appellano a leggi e diritti, che come ovvio, tutelano codici di comportamento preordinati e definiti, la bizzarra “famiglia” costruita e difesa da Osamu e da Noboyu viene smascherata e crolla inesorabilmente. Kore-eda Hirokazu ha realizzato un’opera che contiene e ripropone spunti ben presenti nei suoi film precedenti dedicati a tematiche familiari. Da un lato il magnifico Still Walking (2008), un dramma familiare lontano dai clichés melodrammatici, assolutamente non reticente nell’evidenziare contrasti, pregiudizi, rancori, sentimenti repressi e l’essenza dei legami familiari al di là delle criticità, e After the Storm (2016), un ritratto ricco di sfumature, di una famiglia disunita che non può e non è in grado di ritrovare un’intesa e un equilibrio perché padre e madre sono ingabbiati in un’esistenza con scarse soddisfazioni e molte amarezze e rammarico, con orizzonti futuri incerti. Dall’altro la continua attenzione ai temi dell’infanzia e lo sguardo dalla parte dei bambini come in Nobody Knows (2004), storia tragica e difficile di quattro bambini, nati da padri diversi, abbandonati dalla madre nell’appartamento da cui si è allontanata, ispirata ad un fatto realmente accaduto e raccontata in chiave naturalistica, senza alcuna deriva moralistica, e I Wish (2011), apologo che racconta, con leggerezza, spirito positivo, attenzione a peculiarità sociali e psicologiche e tratti poetici, le vicende di un piccolo gruppo di adolescenti. Ma Shoplifters ripropone soprattutto questioni cruciali come il legame affettivo versus il legame di sangue, il rapporto a volte conflittuale tra genitori e figli e la necessità di affrontare il problema delle proprie radici. Si rapporta quindi a Little Sister (Umimachi Diary) (2015), ritratto di un universo esistenziale tutto al femminile in cui tre sorelle maggiorenni incontrano una sorellastra minorenne, imparando ad accettarla, e fanno i conti con le scelte precedenti dei loro genitori e a Like Father, Like Son (2013), un dramma, centrato sul tema della paternità biologica, che mette a confronto due coppie di genitori che hanno scoperto che i rispettivi figli, ormai preadolescenti, sono stati scambiati alla nascita a causa di un fatale errore avvenuto in ospedale. Grazie a una scrittura essenziale, ed elaborata senza sembrarlo, Shoplifters promana una straordinaria fluidità narrativa, pur affrontando, un contesto di alterità radicale e mostrando una realtà ben poco nota, miserabile, eppure umanissima, marginale, eppure a suo modo dignitosa, di un Paese, il Giappone, tra i più prosperosi, ma con un marcato controllo sociale. Al centro del film vi è una famiglia fittizia, composta da emarginati sociali, con lavori umili e redditi insufficienti, uniti da una comune strenua lotta per sopravvivere e per apparire normali cittadini. Il bisogno li porta ad arrangiarsi mediante una costante pratica di piccole illegalità: frodi al sistema della sicurezza sociale e piccoli furti. Non sono violenti, ma mostrano spesso un certo cinismo e non disdegnano la manipolazione, nascondono tragici segreti del passato e sono tormentati dalla continua paura di essere smascherati e perseguiti dagli assistenti sociali e dalla polizia. Tuttavia padre, madre e nonna, non sembrano legati solo da ragioni di interesse economico e mostrano sentimenti istintivi di affetto e di dedizione verso la giovane Aki e verso i bambini, Shota e la piccola Yuri. E li dimostrano nel corso di una serie di piccoli episodi significativi e, soprattutto, durante l’epilogo, quando ormai l’unità familiare è stata dolorosamente spezzata e i destini di ognuno si devono separare. Le ultime scene dedicate a Shota e a Yuri, tristissime e sconvolgenti, eppure pudicamente misurate, aprono la strada a nuove domande su quale potrà essere il futuro individuale e familiare di questi bambini e su quanta forza sarà loro richiesta. Kore-Eda conferma la sua originale poetica umanista ed è certamente memore dei film di due grandi maestri, Yasujiru Ozu e Mikio Naruse, ma dimostra di non essere un imitatore. Scandaglia, con la consueta naturalezza dello sguardo, le contraddizioni degli individui in un contesto molto problematico e sviluppa, senza analisi psicologiche artificiose, un pregevole caleidoscopio di sentimenti attraverso un ritratto semplice, ma emozionante, evitando accuratamente il sensazionalismo e la deriva didascalica. Il film è venato di sottile malinconia, genuina tenerezza e fini accenti comici. La messa in scena denota massima pulizia e sobrietà stilistica. La scelta dei tempi delle inquadrature e il montaggio, curato dallo stesso regista, sono sempre perfettamente funzionali alla descrizione degli stati d'animo dei personaggi. Al fascino del film contribuiscono l’elegante fotografia, con una ricca scala cromatica, curata da Kondô Ryûto, e il notevole impianto sonoro curato da Tomita Kazuhiko.
JIANG HU ER NV (ASH IS PUREST WHITE), di Jia Zhang-Ke (Cina)
Un amore tradito
Un melodramma contrastato e malinconico, tra passato tragico e presente degradante
Ash Is Purest White è un eccellente melodramma che ripropone lo sguardo acuto di Jia Zhag-Ke sulle contraddizioni del cambiamento nella Cina del nuovo millennio e sulla perdita di valori morali nella vita delle persone, attraverso un’originale reinterpretazione di canoni di genere. Racconta il contrastato e malinconico consumarsi di un amore e la forza e la dignità della protagonista femminile, ma propone anche le dinamiche della violenza, del tradimento, della lealtà, della fatalità, dell'orgoglio, della sofferenza e della sopravvivenza, come ha confermato il regista alla stampa.
Nel 2001 a Datong, un'antica e depauperata città dello Shanxi, al centro di una declinante area mineraria carbonifera, la ballerina trentenne Qiao (Zhao Tao, musa e consorte di Jia, impressionante in un ruolo di grande complessità) è la compagna del quarantenne Bin (Liao Fan), ambizioso boss di una gang criminale dominante nella mafia locale. Sognano un futuro insieme e rispettano i codici d’onore delle triadi. Una notte una banda di giovani delinquenti attenta alla vita di Bin e Qiao, per salvare l'amante, gravemente aggredito e ferito, spara in aria. Dopo l'arresto, viene condannata a cinque anni di carcere, per possesso illegale di un'arma, perché ha omesso di dichiarare che la pistola era quella di Bin. Scontata la pena, nel 2006 Qiao si reca a Fengjie, una città in espansione affacciata sullo Yangtze River, a monte della grande diga delle Three Gorges e riesce infine a incontrare Bin, depresso e senza potere. Gli rimprovera di non averla cercata e, nel corso di un lungo e commovente confronto, cerca di convincerlo a riprendere la loro relazione; ma l'uomo afferma di essere legato a una nuova compagna e rifiuta di seguirla nuovamente nello Shanxi. Una scena magnifica in cui la tensione è costruita a partire dalla semplicità. |
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"Ash Is Purest White", Jia Zhang-Ke
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Undici anni dopo, a Datong, Qiao, che ha scelto di stare da sola, gestisce una casa da gioco, ritrovo degli anziani aderenti delle gang. Bin, ridotto in carrozzina perché emiplegico in seguito a un'emorragia cerebrale, consumato dall'alcolismo e rovinato economicamente, si reca da lei. Qiao, supera ogni rancore, lo accoglie e lo fa curare, nonostante l'uomo si dimostri incattivito, permaloso e sarcastico. Il triste finale, un poco eccessivamente elaborato, conferma che il loro amore è finito, nonostante l’affetto di Qiao sia rimasto immutato. Fin dai suoi primi film, Pickpocke (1997), Platform (2000), Unknown Pleasures (2002) e The world (2004), Jia Zhang-Ke ha trattato i temi del disorientamento e dell’alienazione della gioventù cinese e degli squilibri sociali dovuti allo sviluppo economico e alla globalizzazione. I suoi personaggi amari, duri e individualisti, determinati, ma votati al fallimento dopo amene peregrinazioni, sono protagonisti di piccole e tragiche storie. Nei film realizzati negli ultimi anni, in particolare in A Touch of Sin (2013), Jia racconta la Cina di oggi e il suo “progresso” che calpesta la dignità della gente comune attraverso l'arroganza e la sfacciata corruzione dei funzionari pubblici locali e dei nuovi ricchi. Ash Is Purest White propone una parabola simile, nella partizione in tre fasi temporali (con il mutamento del contesto, l’evoluzione dei personaggi, i loro risvolti emotivi e il gioco delle relazioni proiettati in una prospettiva storica), a quella del precedente Mountains May Depart (2015), ma è un film con una diversa intimità ed è ambientato in un ambiente sociale diverso. La dialettica deflagrante è quella tra desideri e sentimenti, tra accettazione o meno di una nuova realtà e anche tra delusione e libera ricerca di nuove prospettive, con l'incapacità di dimenticare il passato. Determinante risulta l'approccio audace e sottilmente partecipativo e la squisita costruzione drammatica dei personaggi protagonisti (Qiao ricompone aspetti reinventati di tutte le eroine dei film di Jia), travolti dalle conseguenze delle loro azioni, tra aspettative, disillusioni, conflitti e momenti di rievocazione delle proprie radici, in un mondo in cui i mutamenti sono radicali e in cui anche le leggi della malavita si sfaldano. Tra l’altro il titolo in mandarino del film, Jianghu ern?, significa “Figli della Triade”, o può intendersi come “Figli di una minoranza”, o persino come “Figli di fiumi e laghi” ed evoca la letteratura classica wuxia e antichi film cinesi degli anni ’50 e, in generale, motivi e realtà lontani dal mainstream, a significare il profondo legame, affatto nostalgico, di Jia con la cultura del proprio Paese. In effetti, nel film convivono immagini di diverse realtà sociologiche della Cina dell’ultimo ventennio: un’antica miniera di carbone e vecchie abitazioni, nel villaggio dove vive il padre di Qiao, che ricordano il passato millenario e l’epoca maoista; i grattacieli della nuova speculazione edilizia, e i segni di un mondo in cui i valori umani sono soffocati dalla ricerca del denaro a tutti i costi, a Fenjie; i diversi mezzi di trasporto, i vecchi autobus e i convogli ferroviari, da quelli con vagoni a scompartimento unico ai supertecnologici treni ad alta velocità. Ash Is Purest White contiene tutto l'universo cinematografico di Jia: lo Shanxi dove è nato, teatro dei suoi primi film, la regione delle Three Gorges dove ha girato Still Life (2006) e Dong (2006), i treni, le sale da ballo, la canzone feticcio Y.M.C.A. dei Village People, ma anche suggestioni e dettagli che ricordano alcuni film di John Woo, di Hou Hsiao-hsien e persino di Wong Kar-wai. La messa in scena conferma lo stile di Jia, improntato al realismo stilizzato, con originali venature poetiche. L’affascinante composizione visiva privilegia densi piani prolungati e piani sequenza in un contesto di narrazione lineare, ma discontinua e parzialmente ellittica, che spesso mostra le conseguenze delle azioni prescindendo dalle cause. Infine è da segnalare la straordinaria luminosità e le variazioni cromatiche della texture della fotografia, curata da Eric Gautier, e la notevole qualità del suono, curato da Zhang Yang.
THE WILD PEAR TREE, di Nuri Bilge Ceylan (Turchia)
Ambizione e amarezza
Un emozionante aspro confronto tra un figlio e un padre in una società bloccata
Ahlat agaci (The Wild Pear Tree), ottavo lungometraggio di Nuri Bilge Ceylan, è un vero capolavoro: un film emozionante e coraggioso, con una scrittura e una messa in scena di ottima fattura, arricchita da magnifici dettagli. Propone una lucida cronaca familiare in un significativo contesto sociale e culturale. Offre soprattutto l’efficace rappresentazione del carattere e dell’animo di un ventenne ambizioso, orgoglioso e insoddisfatto, nell'affacciarsi all'età adulta, tra sogni di realizzazione, sentendosi superiore al prossimo, e presa di coscienza del fallimento delle proprie speranze. Descrive la triste dinamica esistenziale di una famiglia di ceto modesto in provincia, tra il porto di Canakkale, sullo stretto dei Dardanelli, vicino al sito di Troia e a Gallipoli, e le campagne retrostanti.

"The Wild Pear Tree", Nuri Bilge Ceylan |
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Luoghi scelti e ben conosciuti da Ceylan perché vi ha trascorso l'infanzia. Sinan (Aydin Dogu Demirkol), da poco laureato e in attesa del concorso per diventare insegnante, appassionato di letteratura e aspirante scrittore, è autore di un memoriale, che contiene racconti ed episodi della sua terra e della sua famiglia, intitolato appunto "The Wild Pear Tree". Tornato nel villaggio rurale dove è nato, si impegna con tutte le sue forze a racimolare il denaro necessario per pubblicare il suo libro. Ma si trova a dover fare i conti con i debiti accumulati dal padre, Idris (Murat Cemcir), un maestro alle soglie della pensione, un tempo a suo modo seducente e carismatico, ma divenuto fatalista, essendo da anni gravemente ludopatico, impelagato nelle scommesse sulle corse dei cavalli e in altri giochi d’azzardo. Un uomo che ha compromesso il bilancio familiare e i rapporti con la moglie Asunam (Bennu Yildirilmar) e che ha screditato socialmente la propria famiglia.
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I dilemmi di Sinan lo conducono ad una condizione itinerante: si confronta con padre, madre, sorella, nonni, amici, una ex compagna di scuola e impossibile innamorata (in una sequenza eccezionale, tra sensualità trattenuta, tenue rimpianto e amara rassegnazione), un famoso scrittore locale, bersaglio della malcelata invidia del giovane, possibili finanziatori per la pubblicazione del libro e due giovani iman apparentemente moderni, ma difensori dell’ortodossia coranica. Grazie a un prestito, riesce infine a pubblicare il libro in una piccola tiratura, ma, quando torna dal servizio militare, scopre che praticamente nessuno lo ha acquistato in libreria e che alla fine solo suo padre, emarginato in una casupola in campagna, con velleità di coltivare la terra, lo ha letto e apprezzato. L'eccezionale fluidità narrativa determina che il tempo e le stagioni trascorrano senza alcuna cadenza cronachistica, fino al suggestivo confronto finale tra padre e figlio, con due possibili soluzioni in alternativa per Sinan. Un epilogo stupefacente, perfetto nella sua radicale “non sintesi” che mette a nudo un dramma inconciliabile che mozza il fiato. Nuri Bilge Ceylan è da sempre volto a indagare e a rappresentare la natura umana, come ha dichiarato alla stampa, ed è notoriamente interessato al gap e alla tensione tra Istanbul e la provincia e ispirato dal grande drammaturgo russo Anton ?echov. Nei suoi film affronta le problematiche della convivenza e i confronti di sentimenti e valori, senza sintesi o giudizi morali. Il suo cinema rappresenta costantemente sentimenti inespressi, assenza di appartenenza e resistenza alla identificazione con codici sociali predeterminati. Nei suoi primi film, Small town (1997) e Clouds of May (1999), ha rivisitato gli spazi rurali della sua infanzia. In Distant (2002), Climates (2006) e Three monkeys (2008) ha offerto un’intensa osservazione ravvicinata di personaggi diversi, dei loro destini, della solitudine e dell’impossibilità dell’evasione dal proprio contesto. Come già Once upon a time in Anatolia (2011) e Winter sleep, Palme d’Or al miglior film a Cannes nel 2014, anche The Wild Pear Tree costituisce un magnifico affresco delle relazioni umane, ma propone anche una sottile e risoluta disanima pluristratificata, e mai didascalica, delle problematiche di una società tuttora patriarcale, bloccata nel conservatorismo ipocrita e conformista. A partire da una sceneggiatura magistrale per qualità drammaturgica, frutto della felice collaborazione tra il regista, sua moglie Ebru e lo scrittore Akin Aksu, il film risulta incentrato sulla dialettica tra un padre irresponsabile e debole e un figlio tormentato e pieno di rancore, con sentimenti ambivalenti rispetto al luogo nativo, che avverte come opprimente, ma non rassegnato. È fortemente caratterizzato da un susseguirsi di lunghi, elaborati, ma spesso anche toccanti, dialoghi, a volte con forti contrapposizioni di opinioni e di valori, tra un sarcastico, risentito o disilluso Sinan e i suoi interlocutori. Conversazioni che avvengono spesso in interni o nel corso di lunghe camminate in contesti paesaggistici diversi. The Wild Pear Tree propone un dispiegarsi geniale di architetture narrative e verbali, con continua espansione dei confronti tra i personaggi e con modificazioni di toni e posture. Configura un’armonia mai scontata che combina consistenza e leggerezza e che cattura totalmente la mente e l’animo dello spettatore, che non viene affatto sovrastato dalla durata di poco più di tre ore, perché va oltre ogni concetto di classicità, senza mostrare mai compiacimenti o manierismi. Ceylan ha dichiarato che da tempo voleva realizzare un film sulla condizione giovanile e che il personaggio del padre, nella dimensione di un outsider, rappresenta un fatto nuovo nel suo cinema. Ma occorre anche rilevare la novità, rispetto alla filmografia di Ceylan, della presenza nel film di dettagli espliciti sulla situazione politica del Paese che emergono durante le conversazioni (ad esempio la repressione delle lotte studentesche, il conformismo come modello proposto da autorità e “imprenditori”, il confronto sul peso della religione nella società). È del tutto evidente che nel cinema di Ceylan il momento della parola è ormai diventato determinante per rapportarsi a una società vessata da norme liberticide e dalla censura della libertà di pensiero e di espressione. The Wild Pear Tree appare visivamente affascinante, essendo costellato da geniali architetture visive e da splendidi e dinamici tableaux vivants giocati sull’interazione tra i personaggi e tra loro e il paesaggio: una composizione magistrale delle immagini, intensi primi piani e inquadrature fisse con un abile gioco di campo - controcampo ed efficaci angolazioni, suggestivi piani sequenza, panoramiche widescreen del paesaggio autunnale e invernale con notevole profondità di campo, e una fotografia eccezionale, dai toni variegati, curata dall’abituale collaboratore di Ceylan, Gökhan Tiryaki.
NETEMO SAMETEMO (ASAKO I & II), di Ryusuke Hamaguchi (Giappone)
Un brillante antimelodramma: un mosaico di sentimenti e di sfumature della cultura giapponese. Una love story contemporanea che ricorda i romanzi di Balzac, deliziosamente artificiosa. A Osaka la studentessa universitaria Asako (Erika Karata), dolce, piuttosto naïf e priva di interessi intellettuali, vive il suo appassionato amore romantico con un ventenne, il misterioso, affascinante, e più o meno anticonformista, Baku (Masahiro Higashide). Ma lui all’improvviso scompare senza aver fornito alcuna spiegazione o giustificazione. Due anni dopo, a Tokyo, la donna incontra Ryohei (Masahiro Higashide), executive che lavora in un’azienda commerciale. Un giovane che, fisicamente, sembra un sosia di Baku, ma che presenta un’indole molto diversa, essendo ben integrato e moderatamente carrierista. Dopo varie incertezze il loro amore, agevolato dalla frequentazione di alcuni buoni amici, porta a una fruttuosa relazione di cinque anni. Ma poi Baku, divenuto un famosissimo modello, riappare. Come nel suo precedente, peraltro più drammaticamente riuscito, Happy Hour (2015), il quarantenne giapponese Ryusuke Hamaguchi punta a caratterizzare psicologicamente i personaggi, dipanando una sottile descrizione delle loro contraddizioni personali e affettive. Documenta, senza essere didascalico, l’altalenante evoluzione delle loro relazioni, mostrando attitudini e risvolti emotivi e comportamentali diversi. E soprattutto propone il ritratto di un personaggio femminile, quello di Asako, affatto stereotipato, imprevedibile e sfaccettato anche quando sembra esprimere tratti caratteriali e sentimentali piuttosto consueti. Sviluppa una narrazione molto fluida e una messa in scena accurata che presenta un’estetica raffinata: intelligenti soluzioni illustrative, una sapiente combinazione di piani di ripresa e di inquadrature e la fotografia luminosa di Sasaki Yasuyuki.
Nel suo cinema si notano affinità con maestri del cinema giapponese del passato, quali Mikio Naruse e Kenji Mizoguchi, o del presente, come Kore-eda Hirokazu. In Asako I & II, Hamaguchi riesce a dosare uno humour molto fine e affronta senza seriosità i temi dell’innamoramento, dell’entusiasmo, delle incomprensioni, dell’incapacità egoistica di relazionarsi con gli altri e della paura della solitudine nell’ambito di un gruppo di ventenni piccolo borghesi in un contesto post moderno, marcato dalla relazione controversa con consuetudini e pregiudizi che vengono da tradizioni culturali secolari. E vi è anche il riferimento alle nuove contraddizioni e ai traumi più recenti che hanno investito il Paese, attraverso la digressione in cui si vede la coppia protagonista svolgere attività di volontariato in una comunità di sopravvissuti allo tsunami del 2011 insediata in un malinconico villaggio di casette prefabbricate. Fino all’epilogo, in cui emerge l’essenza del legame tra Asako e Ryohei al di là della criticità che hanno vissuto: l’accettazione di sé stessi e una realistica apertura alla vita futura. |
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"Asako I & II", Ryusuke Hamaguchi
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SEZIONE HORS COMPÉTITION ET SÉANCES SPECIALES
GONGJAK, di Yoon Jong-Bin (Sud Corea)
Un magnifico thriller di spionaggio ispirato da una storia vera: incalzante, con una suspense continua e con risvolti politici inquietanti. Un feroce gioco di inganni e colpi di scena che svela il dramma e i loschi giochi di potere nel confronto tra Sud e Nord Corea. Nel 1993, a Seoul, Park Suk-young (il convincente Hwang Jung-Min), ex ufficiale militare, viene ingaggiato dal NIS, l’agenzia nazionale dei servizi segreti, e diventa l’agente, con nome in codice “Black Venus”, incaricato di carpire informazioni sull'avanzamento del programma nucleare nordcoreano.

"Gongjak", Yoon Jong-Bin |
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Assunta l'identità di un businessman interessato a fare affari con lostato della Nord Corea, si installa a Pechino e, poco a poco, riesce a conquistare la fiducia di Ri Myong-un (Lee Sung-Min), un quadro di vertice nordcoreano che gli fa incontrare il dittatore Kim Jong-il a Pyogyang. Da quel momento Park Suk-young riesce a muoversi con efficacia nel territorio nordcoreano. Ma, in seguito, Park scopre una trama occulta di accordi segreti tra agenti e politici deviati dei due Paesi per boicottare Kim Dae-jung, candidato del Partito Democratico alle cruciali elezioni presidenziali del 1997 in Sud Corea. Ma nel frattempo la sua identità di spia sta per essere scoperta dagli sgherri di Kim Jong-il. Yoon Jong-Bin costruisce uno scenario impeccabile nei dettagli e del tutto incisivo, alla John Le Carré, con personaggi complessi e interpreti meravigliosi. Giocando con intelligenza sul confronto psicologico e sui canoni migliori del genere spionistico, con solo sporadiche accelerazioni, confeziona un film molto godibile ed emozionante, a tratti persino commovente quando mostra i risvolti più umani della relazione tra i due protagonisti.
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O GRANDE CIRCO MÍSTICO, di Carlos Diegues (Brasile)
Un rutilante fairy tale, ispirato da un poema di Jorge de Lima e impreziosito dalle accattivanti musiche di Chico Buarque e di Edu Lobo. La storia di una famiglia che da cinque generazioni, dal 1910 ad oggi, gestisce un circo che propone spettacolari attrazioni. Carlos Diegues, grande affabulatore e veterano del cinema brasiliano fin dall’epoca del Cinéma Nôvo, offre un affresco teatrale, costellato di personaggi curiosi e di situazioni strabilianti. Un film elegante, ma ben poco emozionante, in cui si intrecciano l'amore, l'inganno, il sesso e la decadenza, con un finale sorprendente. |
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"O Grande Circo Mistico", Carlos Diegues
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SEZIONE UN CERTAIN REGARD
GRÄNS (BORDER), di Ali Abbasi (Svezia / Danimarca)
Best Film Prize “ Un Certain Regard”

"Border", Ali Abbasi |
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Un dramma - horror che sconfina in un cupo fairy tale, intrigante e piuttosto insolito. La trentenne Tina (Eva Melander), agente della dogana, controlla i passeggeri che arrivano a Stoccolma via mare dalla Finlandia e, grazie al suo olfatto non comune, individua la colpevolezza di delinquenti e trafficanti. Fisicamente sgraziata, incontra Vore (Eero Milonoff), un individuo sospetto, di fronte al quale le sue capacità sono messe alla prova per la prima volta. Tina sente che Vore nasconde qualche cosa, ma non riesce a comprendere di quale mistero si tratti. E inoltre sente una strana attrazione verso quell’uomo che presenta tratti somatici simili ai suoi. Quando, dopo alcune esitazioni, inizia una relazione con Vore, Tina scopre la loro comune identità e natura di creature umanoidi, fisicamente e moralmente ambivalenti, diverse dai comuni esseri umani. Da quel momento si innescano esiti inaspettati. L’opera seconda dell'iraniano Ali Abbasi, radicato in Danimarca e già autore del period film horror Shelley (2016), adatta una novella di John Ajvide Lindqvist ed evoca i trolls, figure inquietanti della letteratura fantastica nordica, e fonde vari registri: ambivalenza della natura, sofferenza dei “diversi”, amore, brutalità, humour grottesco e violenza. La messa in scena è ricca di qualità e garantisce un continuo interesse per la narrazione anche nei rari momenti in cui appare un poco arzigogolata.
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DONBASS, di Sergei Loznitsa (Ucraina) Prize for Best Director
Un’immersione senza speranza nella guerra feroce e assurda, iniziata nel 2014 e tuttora in corso nel Donbass, la regione orientale russofona dell’Ucraina. Un territorio occupato da varie gang criminali e da paramilitari separatisti, sostenuti finanziariamente e militarmente dalla Russia, che combattono l’esercito ucraino, appoggiato da ambigui volontari nazionalisti. I 13 episodi, ispirati a fatti reali e collegati tra loro in un percorso ellittico, raccontano le sofferenze di cittadini ordinari esposti al fuoco degli obici, ma anche a furti, soprusi e violenze di ogni tipo e ovunque, tra episodi insensati, grotteschi, tragici ed efferati.
Sergei Loznitsa, nato nel 1964 in Bielorussia e cresciuto in Ucraina, conferma un percorso coerente: nei suoi precedenti lungometraggi narrativi, My Joy (2010), In the Fog (2012) e A Gentle Creature (2017), ha costruito impressionanti parabole riguardanti la sopraffazione ricorrente sulla popolazione operata dalle mafie e dai corpi dello stato preposti all’ordine pubblico, presenti da anni in Russia e in Ucraina. In Donbass propone un quadro di totale disumanizzazione e di disgregazione sociale, tra corruzione e frodi sistematiche, propaganda aggressiva di false verità e odio diffuso, che condizionano identità e relazioni: un viaggio agli inferi in cui la vita e la morte sono indissolubilmente intrecciate. Loznitsa coniuga un tragico realismo con toni satirici e assurdi. La sua messa in scena si nutre di una straordinaria composizione delle inquadrature, con cesellati piani fissi e piani sequenza e meravigliose scene di teatro da camera. In aggiunta vi è da citare la formidabile fotografia del suo consueto collaboratore, il cameraman moldavo - romeno Oleg Mutu, che usa organicamente il formato scope e che costruisce immagini costantemente utili all'informazione narrativa. |
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"Donbass", Sergei Loznitsa
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MANTO, di Nandita Das (India)

"Manto", Nandita Das |
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Un period drama di grande impegno, che racconta gli anni cruciali della vita di Saadat Masan Manto (1912 - 1955), uno tra i più grandi autori di racconti e di sceneggiature nella storia della cultura in India. In quell'epoca Manto è considerato uno scrittore estremamente brillante e poetico, ma controverso perché si dedica a ritratti femminili non tradizionali, spesso anche di prostitute. Orgoglioso, tormentato e alcolista, dopo la sanguinosa partizione tra India e Pakistan, nel 1947, si trasferisce da Bombay a Lahore, essendo musulmano. Ma si trova a disagio ed è costretto a subire un doloroso processo giudiziario dopo che i suoi testi sono stati identificati come prove per l’accusa di oscenità. Contemporaneamente anche i rapporti con sua moglie e i familiari entrano in crisi. L’opera seconda della nota attrice indiana Nandita Das, già regista del convincente dramma realista Firaaq (2008), è un biopic intenso ed elegante. Nonostante qualche passaggio convenzionale, la narrazione è efficace soprattutto grazie alla convincente interpretazione di Nawazuddin Siddiqui nel ruolo del protagonista.
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LONG DAY'S JOURNEY INTO NIGHT, di Bi Gan (Cina)
Un dramma esistenziale pseudo noir che coniuga realismo di luoghi impoveriti e surrealismo romantico. Un’opera che propone metafore poetiche criptiche, digressioni oniriche, irruzioni del fantastico nel quotidiano e precipitazioni in un suggestivo immaginario ingannevole. Un estenuante itinerario notturno in 3D, filmato in un unico piano sequenza di 50 minuti, dopo un lunghissimo prologo che evoca un omicidio irrisolto e che mescola dolori recenti e del passato. Il quarantenne Luo Hongwu (Huang Jue) torna a Kaili, la sua cittadina di nascita, nella provincia sudorientale di Guizhou, da cui era fuggito dodici anni prima. Vuole ritrovare la donna misteriosa che ha amato perdutamente per pochi mesi, ma si imbatte in una schiera di personaggi singolari ed è coinvolto in esperienze assurde.
Figure losche, inquietanti o strampalate, pistole, misteriosi messaggi, un vecchio cinema, un karaoke, labirinti e stanze della tortura, un palco su cui si esibisce una cantante tradizionale e una femme fatale che irretisce il protagonista e poi lo abbandona. Già autore di un pluripremiato lungometraggio di esordio, Kaili Blues (2015), il ventinovenne cinese Bi Gan ripropone anche in questa opera seconda il suo cinema “fenomenologico” che comporta una narrazione non lineare ed ellittica, sospesa tra il tempo e lo spazio, soluzioni di messa in scena concepite per sbalordire, immagini curatissime e fluttuanti, spesso claustrofobiche, e un ampio uso del piano sequenza. Tuttavia la trama è volutamente e continuamente destrutturata in un gioco di detours spaziali, contorsioni temporali e, atmosfere che si avvita su sé stesso e il film risulta più pretenzioso e meno efficace rispetto al precedente, rasentando un asfittico manierismo estetizzante. Si notano le fredde citazioni di film di Tsai Ming-Liang e di Wong Kar-wai, ben lontane dalla commovente malinconia che promana dalle opere di quegli autori, e, purtroppo, anche vane imitazioni di certe astruserie narcisistiche di David Lynch. |
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"Long Day's Journey Into Night", Bi Gan |
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SEZIONE QUINZAINE DES RÉALISATEURS
PETRA, di Jaime Rosales (Spagna)
Petra, sesto lungometraggio del catalano Jaime Rosales, è un antimelodramma tragico e moralista centrato sul cinismo e sulla crudeltà dei borghesi ricchi. Una saga familiare tra menzogne, segreti e colpi bassi. Jaume (Joan Botey) è un sessantenne catalano, grande nome dell'arte moderna internazionale, che umilia la moglie Marisa (Marisa Paredes) e disprezza il figlio Lucas (Alex Brendemühl), un fotografo tormentato, ma incapace di rompere con lui: i tre si confrontano con Petra (Bárbara Lennie), una trentenne che cerca di sapere se il "mostruoso" patriarca è anche suo padre. Jaime Rosales mette insieme estenuanti conversazioni, fredde provocazioni, violenza inaudita e inspiegabile e autolesionismo, salvando, nel corso di un epilogo grottesco, solo le due donne.

"Petra", Jaime Rosales |
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Imita maldestramente Michael Haneke, essendo peraltro ben lontano dal geniale cinema del regista austriaco, disturbante, spiazzante e molto incisivo perché gestisce con netta distanza emotiva lo studio quasi entomologico dei caratteri dei suoi personaggi, sfidando gli spettatori, ma senza ricattarli emotivamente o tradirli. In effetti Rosales, ormai molto involuto rispetto al suo eccellente Tiro en la cabeza (2008), magistrale osservazione statica di una violenza aberrante, ha scelto un registro naturalista grossolano a partire da un approccio aridamente ideologico e narcisista che strumentalizza la vicenda che riguarda la protagonista, ovvero la sua ricerca della figura paterna, per impartire sentenziosi messaggi mal dissimulati. La narrazione di Petra è oltremodo faticosa in virtù della scelta snobistica di procedere per capitoli secondo un ordine disordinato e parzialmente surreale, per occultare flashback e flashforward che complicano banali meccanismi di rivelazione di segreti e di misfatti. Per non parlare della strampalata estetica del film, caratterizzata da ricorrenti long take e piani sequenza ondeggianti del paesaggio da cui entrano ed escono i protagonisti, quasi a sottolineare una postura del regista quale demiurgo - giudice dei suoi personaggi che scimmiotta il cinema di Terrence Malick.
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WELDI, di Mohamed Ben Attia (Tunisia)
Il ritratto drammatico della disgregazione di una famiglia di onesti lavoratori in seguito a un evento inaspettato. Riadh (Mohamed Dhrif), gruista al porto di Tunisi alla vigilia della pensione, e la moglie Nazli (Mouna Mejri) sono molto protettivi verso Sami (Ben Ayed), il loro figlio unico diciottenne in attesa di finire il liceo. Da un lato si mostrano molto preoccupati per le continue crisi di emicrania che tormentano il giovane, dall’altro lo sovraccaricano di aspettative. Un giorno Sami scompare: si apprende che si è recato in Siria e si è unito all'ISIS. Riadh cerca invano di ottenere informazioni e fattivi interventi da parte della polizia. Poi entra in conflitto con sua moglie e infine, rotti gli indugi, effettua un viaggio in Turchia.
Laggiù incontra varie persone senza alcun risultato concreto, anzi ritorna a casa più sconcertato di prima. Solo dopo molti mesi Sami effettua un breve contatto via skype con il padre e la madre solo per far loro conoscere la donna che ha sposato e il bambino nato da poco. Ma a quel punto le strade di Riadh e di Nazli si dividono. L’opera seconda del tunisino Mohamed Ben Attia continua la sua interessante radiografia del disagio esistenziale in una società sottoposta a drammatici cambiamenti, già intrapresa nel suo lungometraggio di esordio, Hedi (2016). Anche in questo film è centrale il rapporto tra genitori protettivi e attaccati alle tradizioni e figli vittime delle propria irresolutezza, del velleitarismo e dell’irresponsabilità. Tuttavia il regista sceglie un approccio e una scansione narrativa diversi rispetto a quelli che caratterizzano Hedi, in cui il vero protagonista è il figlio a confronto con una madre vedova, benpensante, ossessiva e autoritaria. E ne risulta una maggior credibilità dei personaggi e una loro disanima psicologica più incisiva. In Weldi, Ben Attia non svela mai le motivazioni del gesto di Sami, ma racconta i genitori prima e dopo la sua partenza, dall'apparente tranquillità felice alla disperazione. La narrazione è asciutta ed efficace e gli interpreti sono convincenti. |
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"Weldi", Mohamed Ben Attia
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LOS SILENCIOS, di Beatriz Seigner (Brasile / Colombia)
Un dramma esistenziale con valenza politica e sociale che sconfina nel cinema di genere a tinte horror. Amparo (Marleyda Soto), una contadina con due bambini fugge dalla guerra civile in Colombia: Ha perso la casa e non ha notizie del marito che è stato sequestrato o assassinato. Ripara in un'isola sita tra le acque del Rio delle Amazzoni alla frontiera con Brasile e Perù, popolata da centinaia di altri desplazados colombiani mescolati alla popolazione autoctona che comprende persone di diverse nazionalità e indigeni amerindi brasiliani. Poco a poco risulta che Nuria (Maria Paula Tabarez Pena), la bambina di dodici anni, sempre taciturna, e suo padre Adao (Enrique Diaz), il marito di Amparo, che riappare tutte le notti, sono dei fantasmi. Attraverso una serie di stratagemmi narrativi di corto respiro, il film cerca di convincere lo spettatore che molti abitanti dell’isola stiano convivendo naturalmente con i fantasmi dei loro cari assassinati o scomparsi. E propone un susseguirsi di dialoghi artificiosi intorno ai temi della colpa, della sofferenza e del perdono.

"Los Silencios", Beatriz Seigner |
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Fino al pasticciato epilogo in cui avviene una sorta di cerimonia spirituale e magica notturna che sembra fondere la cultura dei bianchi e quella degli indigeni amerindi, celebrando i fantasmi dei morti insieme ai vivi che li ricordano. Un’epifania folkloristica grottesca in cui i corpi e i volti dei fantasmi sono coperti da disegni e arabeschi dai colori fosforescenti. La brasiliana Beatriz Seigner ha un doppio merito: aver girato la sua opera seconda in un luogo reale, molto suggestivo e aver selezionato un ottimo cast che comprende anche attori non professionali e residenti dell’isola. Tuttavia racconta una storia potenzialmente intrigante con eccessiva enfasi, approssimazione e toni naturalisti prosaici e decorativi, e utilizza malamente i canoni di genere. Forse tenta di imitare, con grande presunzione, suggestioni che provengono dai film di Apichatpong Weerasethakul. Comunque ne risulta un film poco credibile in termini drammatici e etnologici e una dimostrazione di conoscenza molto superficiale del contesto della guerra civile che si combatte in Colombia da oltre 50 anni.
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SEZIONE SEMAINE DE LA CRITIQUE
SIR, di Rohena Gera (India)
Gan Foundation Award for Distribution
Sir, opera prima scritta e diretta dall’indiana Rohena Gera, è un dramma esistenziale ricco di sfumature, credibile, autentico ed emozionante: un piccolo capolavoro. Racconta la dinamica di una relazione tra due persone separate dalla differenza di casta, di classe sociale, di educazione e cultura, ma vincolate da un rapporto classico, quello tra impiegato domestico e datore di lavoro. La ventenne Ratna (Tillotama Shome, molto convincente per la sincerità interpretativa), intelligente e intraprendente, è vedova e viene da un villaggio. Nella grande metropoli Mumbai (Bombay) è diventata la fidata domestica di Ashwin (Vivek Gomber), un trentenne di bell’aspetto e gentile, già aspirante scrittore, rientrato da New York per gestire i cantieri edili della sua ricca famiglia. La donna, minuta e poco appariscente, si muove con sicurezza nel lussuoso appartamento, adempiendo con efficienza alle mansioni assegnatele e sapendo essere riservata e stare al suo posto. Ashwin sta vivendo una fase difficile: dopo aver scoperto che la sua fidanzata lo ha tradito, ha rotto la relazione e annullato il matrimonio già programmato dai suoi genitori. Poco a poco si rende conto delle piccole attenzioni di Ratna, che gli prepara ottimi cibi e lo aiuta a sottrarsi all’invadenza dei familiari preoccupati per lui. Un giorno la donna osa consigliarlo di scacciare tristezza e depressione e finisce quindi per uscire definitivamente dal cono d’ombra in cui si trovava. Ashwin apprende quanto Ratna si senta più rilassata e ottimista a Mumbai perché al villaggio la famiglia la colpevolizzava in modo assurdo per la morte del consorte. Inoltre lei gli racconta che non solo lavora per pagare gli studi della sorella minore, ma anche che aspira a diventare una sarta e che nel tempo libero frequenta un piccolo atelier come apprendista non pagata, sognando il giorno in cui possa aprire un piccolo laboratorio in proprio. Ashwin resta affascinato dallo spirito e dal coraggio della donna e le regala una macchina da cucire. L'empatia tra i due giunge all'attrazione reciproca, ma, solo in un’occasione, azzardano un timido contatto fisico. Ratna è intimorita perché sa perfettamente che una loro storia d'amore sarebbe impedita dalle convezioni sociali classiste accettate da tutti in India. Purtroppo, nonostante la loro discrezione, piccoli segni di intimità sono notati da un amico e Ashwin ammette confidenzialmente il suo interesse verso Ratna. Ma poi il pettegolezzo si diffonde e il disagio aumenta. Non vi è un happy end, tuttavia, nonostante Ashwin sia stato costretto dai familiari a ripartire per stabilirsi nuovamente a New York, i due restano in contatto. Rohena Gera costruisce efficacemente il ritratto di una relazione proibita, raccontandola principalmente secondo il punto di vista della donna, a partire da una sceneggiatura finemente misurata e da una conoscenza profonda dei meccanismi della “intimità” che si stabilisce, nelle case indiane delle famiglie della classe media e alta, tra “servi e “padroni”, dovuta alla convivenza, pur in spazi separati. Evitando facili stereotipi e toni retorici o didascalici, mostra grande sensibilità nella costruzione dei due personaggi.
In particolare evita di rappresentare Ratna come un’eroina, descrivendo con cura le sfaccettature della sua personalità e il suo itinerario emotivo. E al tempo stesso descrive con sicurezza la generosa ingenuità con cui Ashwin cerca di liberarsi dagli schemi comportamentali borghesi in cui è imprigionato. L’uomo non è affatto disperato, semmai non vuole soffocare la nuova sensibilità umana che prova, essendosi accorto che, anche al di fuori del perimetro degli schemi convenzionali con cui è stato educato, possono esistere intelligenza, grazia e genuina vitalità. Per la messa in scena Rohena Gera ha dichiarato di essere stata ispirata dal noto film In the Mood for Love (2000), di Wong Kar-Wai, e di aver sfruttato spazi, inquadrature e differenze di luminosità tra interni ed esterni per definire la dialettica dei sentimenti e del tempo. I riferimenti all’opera del grande regista cinese di Hong Kong, e, aggiungiamo, al cinema del maestro bengalese Satyajit Ray sono indubbi, ma non si tratta di imitazione quanto di una reinterpretazione originale. |
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"Sir", Rohena Gera
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EGY NAP, di Zsofia Szilagyi (Ungheria) FIPRESCI Award
Egy Nap, opera prima dell’ungherese Zsofia Szilagyi, propone il ritratto a tutto tondo di una donna sorpresa da una crisi coniugale. Un racconto ambientato a Budapest e concentrato in 36 ore, con una narrazione sempre in tono medio, senza eccessi sensazionalisti, che simula una cadenza in tempo reale. Anna è una professoressa di italiano quarantenne con tre figli piccoli e un matrimonio decennale che difetta di nuovi stimoli.

"Egy Nap", Zsofia Szilagyi |
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Costretta a una vorticosa routine di impegni e incombenze, deve correre freneticamente per fronteggiare il lavoro di insegnante in un istituto privato, le faccende domestiche, le grane finanziarie con la banca e la corvée dei figli da portare a scuola, all'asilo, agli allenamenti di scherma e ai corsi di danza. La fatica, i dubbi e il senso di trattenuta disperazione si sono intensificati perché Anna non sa come reagire dopo aver scoperto che Szabolcs (Leo Furedi), il marito avvocato, indeciso e frustrato, sta vivendo una relazione con una loro amica (Annamaria Lang). In effetti i due coniugi, oberati dalla routine familiare e dallo stress, non riescono a trovare il tempo e l’energia per riesaminare esaustivamente la loro relazione. Il film di esordio di Zsofia Szilagyi è abbastanza credibile e non retorico, ma risulta drammaticamente incerto e irrisolto. Si nota un approccio interessante che può far pensare ai migliori film di Chantal Akerman, ma, purtroppo, l’eccesso di motivi prosaici e un finale piuttosto banale depotenziano i buoni spunti che emergono nella descrizione della solitudine e del disagio esistenziale vissuti dalla protagonista.
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FUGA, di Agnieszka Smoczynska (Polonia)
Fuga, opera seconda della polacca Agnieszka Smoczynska, è un thriller psicologico dalle forti tinte drammatiche. Una trentenne viene ritrovata dalla polizia a Varsavia: è molto trasandata, non ha documenti e non sa spiegare nulla del suo passato perché non ne ha memoria. La sua agiata famiglia di Wroclaw, che la cerca da due anni, riconosce Alicja (Gabriela Muskata) quando viene mostrata durante un un programma televisivo. Tornata a casa dal marito e dal suo bambino, la donna riesce gradualmente a ricordare la tragedia personale che ha determinata la sua fuga. Agnieszka Smoczynska realizza un'opera sensazionalista e ricattatoria, tra amore, dolore, rivelazione di orrori domestici e confuso messaggio femminista, riproponendo canoni molto comuni in tanta parte del cinema polacco contemporaneo. |
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"Fuga", Agnieszka Smoczynska
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GUY, di Alex Lutz (Francia)
Guy, opera seconda dell’attore francese Alex Lutz, è un mockumentary geniale e molto gradevole. Gauthier (Tom Dingler), giovane giornalista, viene informato da sua madre che sarebbe il figlio illegittimo di Guy Jamet (Alex Lutz), un artista del varietà e cantautore ormai settantenne, famosissimo tra gli anni '60 e i '90. L’uomo è in procinto di registrare un nuovo album che riprende molti suoi vecchi brani di successo e di effettuare una tournée. Quindi, fingendo di dover effettuare un reportage, Gauthier incontra e racconta questo personaggio accattivante, vitale e, al tempo stesso, lento e posato, sarcastico e disilluso, nella sua quotidianità.

"Guy", Alex Lutz |
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Gran parte delle loro frequentazioni avviene nell’accogliente piccola villa - rifugio di Guy, nei dintorni di Saint Tropez, non lontano dal mare. Il crooner vive circondato dai ricordi di una carriera prestigiosa (fotografie, dischi d’oro, memorabilia, ecc.), in compagnia di Sophie (Pascale Arbillot), una ex groupie divenuta sua segretaria e compagna e dei suoi due amati cavalli con cui ama passeggiare nei boschi. Accoglie sempre Gauthier con simpatia e con una certa accondiscendenza, divertendosi ad evocare il suo passato, tra successi ed episodi prosaici. Alex Lutz è ben noto per le sue notevoli capacità di mimesi, al cinema e in televisione, dove interpreta riusciti sketches en travesti. In Guy appronta una straordinaria scenografia in cui tutto è falso, ma appare dannatamente veritiero, e interpreta in modo straordinario una star fittizia, inventando gesti e comportamenti e seducendo lo spettatore con la luminosità dello sguardo costantemente indirizzato alla telecamera. La narrazione pseudo documentaristica si sviluppa con grande fluidità, naturalezza e fine humour, mostrando dettagli molto verosimili e proponendo situazioni iconiche 
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