Philippe Garrel (Parigi, 1948) è figlio di due artisti molto poveri, che si separarono quando aveva solo cinque anni. Autore orgogliosamente indipendente rispetto all’industria cinematografica, personalità autonoma ed “erede” originale dei registi della “Nouvelle Vague” francese, è noto per la sua vocazione sperimentale e per la propensione all’interiorità poetica. La sua concezione del linguaggio cinematografico è fortemente autoreferenziale e dichiaratamente slegata dai codici dei generi. Il suo cinema dimostra la conoscenza profonda dei registi che mettono in scena il conflitto, che ha studiato e a cui si riferisce con originalità (Von Stroheim, Murnau, Vigo, Bresson, Bergman, Godard, Truffaut, Cassavetes, Warhol e, soprattutto, Jean Eustache), ma anche le sue preferenze in campo pittorico (Georges de La Tour, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Pierre-Auguste Renoir). Nel corso di oltre 50 anni di attività registica, in cui ha realizzato 34 film, tra lungometraggi, alcuni cortometraggi e quattro documentari, ha sviluppato un discorso omogeneo, quantunque attraverso tappe contraddittorie, con al centro temi ricorrenti ed ossessivi: l’amore, il disamore, le droghe, l’idea della rivoluzione, la figura del padre e quella del figlio o della figlia, il proprio stesso cinema visto come fragile e “non finito”, l’oblio storico. In effetti lui stesso si presenta come il rappresentante più puro di un modo di vivere che ha scelto il cinema come luogo della non riconciliazione.
L’emozione è al cuore del dispositivo cinematografico di Garrel. L’estetica e la scrittura, certo molto elaborate, servono solo a trascrivere nel modo più esatto sullo schermo, e a trasmettere nel modo più vero allo spettatore, la precisione delle impressioni originali, l’acutezza dei sentimenti e le variazioni incessanti dei fremiti della vita affettiva. L’immaginario di Garrel è quello tipico degli anni ’70 del secolo scorso, un’epoca in cui vi fu una sorta di ritorno all’idolatria del femminino. Esprimere il femminile significava obbligatoriamente sublimarlo. A lungo la donna è stata per lui una sorta di oggetto di contemplazione, icona venerata e immagine dominante. L’amore fra l’uomo e la donna, tormentato, insicuro e aleatorio, è il tema ricorrente e ossessivo dei suoi film. Schematizzando possiamo individuare i termini di questa dialettica amorosa. La donna è naturale e diretta, l’uomo più schivo e reticente. La donna si sostanzia nella forza interiore e nella bellezza che assorbe e affascina. All’uomo è connessa l’idea dell’atto mancato, della goffaggine e della reticenza. Secondo Garrel è al tempo stesso vittima e carnefice delle proprie pulsioni, tormentato da un malessere che è poi quello della vita in quanto tale. La coppia è quindi al centro della sua intera opera cinematografica e la difficoltà di stare insieme e di convivere costituisce la materia delle sue storie. A questa coppia primordiale viene spesso ad aggiungersi un bambino o una bambina, un minuscolo essere la cui sola presenza emette onde di shock che rendono ancor più fragile la coppia. Nello spazio, e attraverso lo spazio in cui è relegato, afferma la forza incontenibile dell’esistenza: simboleggia l’interesse del cineasta per gli stati nascenti.
GLI ESORDI E GLI ANNI ’70
Molto precocemente, a sedici anni, Philippe Garrel ha realizzato, girandolo in tre giorni, il primo cortometraggio, Les enfants désaccordés (1964). È il racconto della fuga di una coppia di adolescenti, un ragazzo e una ragazza, dalle rispettive famiglie, tra trasgressione energica e aggressiva e romanticismo. Il successivo cortometraggio, Droit de visite (1965), lodato da Truffaut, descrive l’esperienza di un bambino che, pur vivendo con sua madre, trascorre tutti i week ends con suo padre e con l’amante, molto più giovane, di quest’ultimo. Marie pour mémoire (1967), il primo lungometraggio, estremizza gli stilemi allora imprescindibili della Nouvelle Vague e anticipa, con vivace sperimentalismo, le tensioni ideali e culturali del 1968. Interpretato da suo padre, Maurice, da suo fratello Thierry e dall’amico Didier Léon, con la musica di un altro suo fratello, François, leader di un gruppo rock, il film descrive i primi passi fuori dall’ambito familiare, di un gruppo di giovani, alcuni con tendenze suicide o autodistruttive e altri più orientati all’impegno o alla speranza. |
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"Les enfants désaccordés" Philippe Garrel
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I primi film di Garrel sono aspri e radicali e dimostrano sia una vicinanza intellettuale con il situazionismo di Guy Debord, sia le influenze esercitate dall’arte della performance teatrale, dall’action panting e dal rock psichedelico, sia una propensione all’interiorità poetica. Sono girati con materiali e supporti tecnici poverissimi, con pellicola scaduta, a volte utilizzando una macchina da presa a manovella. Per lo più muti e montati “bout à bout”, pur essendo interpretati da veri attori, sono opere che non configurano veri personaggi. Mostrano gli echi della generazione del 1968, attraverso specifici elementi estetici, e interpretano l’avventura artistica estrema e underground degli anni ’70.
"Liberté, la nuit" Philippe Garrel |
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Le révélateur(1968) è un film di immagini pure. Mostra vari e distinti tipi di rivelazione: la nascita di un bambino, di un film, di un amore e della ripulsa. Non racconta una storia, ma esprime le sensazioni di tre “personaggi”, un uomo, una donna e un bambino, con un’espressività minima. È immerso in un’atmosfera onirica e fantasmatica, essendo girato in gran parte in una casa poco illuminata, al punto che alcuni piani furono filmati alla luce di una lanterna, e utilizzando una pellicola molto sensibile. La concentration (1968), intenso e sperimentale, riflette preoccupazione e disagi di una generazione in crisi di identità di fronte agli avvenimenti del 1968. Nel film un uomo e una donna conversano e si ascoltano a vicenda. L’azione si sposta continuamente tra due spazi, uno con temperatura torrida e uno gelido, tra cui si interpone un letto. Si innesta un dialogo interiore che si conclude con una deriva di morte, mentre la telecamera esplora dettagliatamente i due ambienti.
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Le lit de la vierge (1969) riflette, secondo Garrel, sensazioni e sentimenti del post ’68, un’epoca triste in cui tutto avveniva a grande velocità. Un film aneddotico “su Cristo, sulla pazzia, sulla guerra e sulla repressione”, da cui traspare uno stato d’animo rabbioso, ma anche depresso e di paura a causa della normalizzazione avviata da De Gaulle.
La cicatrice intérieure (1970-1971) segna la prima collaborazione con Nico, una cantante tedesca entrata nel 1966 nella band musicale dei Velvet Underground e poi attrice in alcuni film di Andy Warhol. Con lei Garrel ebbe una relazione sentimentale, forte e pericolosa, caratterizzata dalla dipendenza dalle droghe, che durò dieci anni. Nico fu la sua musa, attrice, collaboratrice alle sceneggiature e autore delle colonne sonore dei sette film che realizzarono insieme. Il loro primo film non ha una sinossi che si possa definire e riassumere e si sviluppa attraverso peregrinazioni circolari, in locations agli antipodi: Egitto, New Mexico, Islanda. In effetti è costruito su sensazioni primordiali a contatto con l’acqua, la sabbia, il gelo e il fuoco. Ad esso sono collegati, per la similarità delle situazioni mostrate, in una trilogia significativamente a colori, altri due film: il cortometraggio Athanor (1972), in cui una donna nuda cerca il fuoco, vagando in un paesaggio brullo e roccioso, e il lungometraggio Le berceau de cristal (1975), in cui un uomo riprende con una cinepresa le persone più care, che dipingono o scrivono o si ubriacano. |
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"La cicatrice intérieure" Philippe Garrel
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Nico è la protagonista di altri due film: Un ange qui passe (1975), vertice “astratto” della collaborazione tra il regista e la cantante, e Le bleu des origines (1978) più intrinsecamente legato alla cultura underground. Nel 1979 Garrel ha diretto L’enfant secret, che, peraltro, è stato distribuito solo a partire dal 1982. Si tratta di uno dei suoi film più significativi, che si caratterizza per una più precisa e solida materia argomentativa. Racconta la storia della nascita di un figlio segreto articolandola in quattro capitoli ed esprime sentimenti e passioni tortuose. Questo film costituisce una prima svolta nella filmografia di Garrel, segnando il superamento dell’astrazione pura a favore di un cinema più lirico, narrativo e marcato dai dialoghi.
GLI ANNI ’80 E ’90
Il cinema emotivo, apparentemente semplice, ma raffinato, di Garrel, propone uno studio ricorrente, “infinito” e sempre attuale di una certa tipologia umana parigina, scandagliando affetti impossibili eppure “regolari”, innocenze selvagge, solitudini, disagi, passioni frustrate ed emozioni rivelate.
"Liberté, la nuit" Philippe Garrel |
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Liberté, la nuit (1983) è il film più direttamente politico di Garrel. Celebra, in qualche modo, il passato di combattente partigiano del padre, Maurice. Descrive un’oscura vicenda, tipo noir di serie B, in cui si fronteggiano francesi che sostengono il FLN algerino e killers dell’estrema destra dell’OAS. E sullo sfondo vi è la disgregazione lacerante di un amore che sta finendo. Tuttavia, la rottura rispetto alla forma del cinema politico è evidente perché anziché optare per la narrazione dei motivi, degli ideali e delle ragioni si preferisce raccontare le emozioni, gli affetti e i tradimenti. La vera trama configura un amore che esiste (o non esiste) nonostante la politica, e nonostante il fatto che la politica giochi un ruolo così importante. L’immagine più simbolica del film è quella di Emmanuelle Riva che piange un amore che non c’è più. Nei film successivi, degli anni ’80 e ’90, Garrel ha affrontato temi squisitamente esistenziali tra cronaca familiare, con chiari riferimenti autobiografici, e diario intimo generazionale: la rottura della relazione amorosa e la tristezza della perdita; la solitudine; l’impotenza; la dipendenza affettiva; le droghe e i paradisi artificiali; il rapporto padre - figlio.
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Elle a passé des heures sous le sunlights (1984), propone una vicenda ambientata nel mondo del cinema indipendente e vede entrare in scena come attore lo stesso Garrel. Un giovane regista, alter ego di Philippe, sta cercando di rifarsi una vita con Marie, dopo la dolorosa rottura con Christa. Sullo schermo la vita reale dei tre personaggi - attori (Lou Castel, Mireille Perrier e Anne Wiazemsky) si sviluppa intrecciandosi con il rodaggio del film nel corso del quale lo stesso Garrel compone le immagini in un mix vitale e confuso, in cui compaiono anche immagini di opere di Chantal Akerman, Jacques Doillon e Jean Eustachec. Questo film, considerato un momento decisivo in cui un epigono della generazione dei registi della Nouvelle Vague esprime un sentimento di appartenenza a quella comunità artistica, segna anche un approccio peculiare e sincero al tema della genitorialità. Garrel, da poco divenuto padre di Louis, ha rivendicato in una famosa intervista ai “Cahiers du Cinéma” il suo sentimento di esperienza tragica di paternità nei confronti dei film, che sono suoi, ma che gli vengono sottratti dopo averli realizzati: “un film è un figlio che non si può tenere”. |
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"Elle a passé des heures sous le sunlights" Philippe Garrel
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"Les baisers de secours" Philippe Garrel |
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Les baisers de secours (1988) racconta la storia di Mathieu, un regista che, avendo scritto una sceneggiatura, pensando di affidare il ruolo principale a sua moglie Jeanne, anche perché si tratta di una finzione autobiografica, decide poi di dare la parte a un’attrice famosa. Jeanne si separa da Mathieu. In seguito, i vincoli e gli affetti della vita ricompongono la relazione tra i coniugi. I protagonisti del film sono Garrel stesso, Brigitte Sy, già sua compagna, suo padre Maurice, suo figlio Louis e l’attrice, filmmaker e militante Anne-Aymone Bourguignon, denominatasi Anémone, già protagonista di un precedente film per la televisione di Garrel, appunto Anémone (1968). Ne deriva che in Les baisers de secours la storia immaginaria e la vita reale si mescolano e si confondono. J’entends plus la guitare (1991), girato tra Positano e Parigi, ripete, come il precedente film, il permanente gioco di specchi tra i personaggi fittizi e le figure reali del mondo del cineasta.
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Nella vicenda tormentata della coppia protagonista della storia, Gérard (Benoît Régent) e Marianne (Johanna Ter Steger), si può rintracciare la realtà della relazione tra Garrel e Nico, deceduta pochi anni prima, nel 1988. La naissance de l’amour (1993) completa la trilogia più strettamente autobiografica di Garrel. Narra alcune storie di separazioni e di nascite, di un figlio e di una nuova relazione, con riferimenti alla psicoanalisi di Sigmund Freud. I protagonisti maschili sono interpretati da Lou Castel e da Jean-Pierre Léaud, due attori icone che riportano al tempo passato della Nouvelle Vague. Il film conferma la poetica di Garrel: la concezione di un cinema rivelatore e insieme reportage dello sguardo e dei suoi mutamenti nella durata del tempo.
Due film successivi ripropongono, piuttosto stancamente, storie di artisti tormentati da complesse relazioni amorose. I personaggi sono coinvolti direttamente o indirettamente con problematiche di dipendenza dalle droghe. Le coeur fantôme (1995) propone la storia di un pittore, tossicodipendente da eroina, e della sua tormentata separazione dalla moglie, che gli ha dato due figli, mentre Sauvage innocence (2001) racconta la vicenda di un regista in cerca di un produttore per il suo nuovo film che riguarda la droga e la mafia che ne organizza il traffico, responsabili, secondo lui, della morte della sua amante stroncata da una overdose. Le vent de la nuit (1999) segna per Garrel la prima volta della collaborazione con un’attrice famosa, mito dello star system francese, ma anche musa e amante di François Truffaut. Helène (Catherine Deneuve), una borghese cinquantenne sposata mantiene una relazione con Paul (Xavier Beauvois), uno studente ventenne dell’Accademia di Belle Arti. Poi Paul, durante un viaggio a Napoli, conosce Serge (Daniel Duval) un architetto cinquantenne di successo tormentato dai fantasmi delle sue esperienze durante il Maggio del 1968 e dal suicidio della moglie. Insieme compiono il viaggio in auto di ritorno a Parigi, ma si recano anche a Berlino, per rendere omaggio alla tomba della moglie di Serge. Pur trattando argomenti ricorrenti nella filmografia di Garrel, si tratta di un’opera insolita perché si concentra essenzialmente sui tre personaggi principali che configurano un triangolo transgenerazionale e in qualche modo interclassista. L’uomo e la donna maturi sono oppressi dalla solitudine, non essendo confortati dalla presenza di figli, e spinti verso il suicidio in senso figurato o esplicitamente liberatorio. Il film pur emanando una strana serenità è pervaso da un sottile sentimento di tristezza che emana da un passato irreversibile e irrecuperabile e quindi tende ad una calma fatalistica.
IL NUOVO MILLENNIO
Il vero approccio di Garrel al nuovo millennio avviene con un film molto più ambizioso perché cerca di approdare ad un linguaggio drammatico più compiuto. Les amants réguliers (2005) è un film sugli avvenimenti del ’68 e su un gruppo di giovani protagonisti di quei giorni di Maggio in cui in Francia avvenne la famosa sollevazione giovanile e popolare contro i poteri istituzionali. Tuttavia lo spirito di quest’opera non è direttamente politico, ma vorrebbe rappresentare soprattutto aspetti esistenziali e comportamenti estetici. Garrel ripropone con sincerità il suo approccio etico, sperimentale e autobiografico. Nella vicenda esiste un protagonista, il giovane François (Louis Garrel), un io immagine del regista stesso, che si confronta con un gruppo di altre persone, in cui le differenze individuali sono notevoli. Il regista filma le azioni, i gesti e le parole, ma si concentra soprattutto sugli intervalli, al punto che sembra che non accada nulla. Finiscono per prevalere situazioni stereotipate ed emerge la falsità non voluta di una poesia asfittica e di un umanesimo spicciolo, più sterile che emozionante.
Anche la scelta di suddividere la narrazione in capitoli con titoli evocativi risulta intrisa nel pessimismo tardo-romantico che permea i personaggi. Tutto il film si svolge in una dimensione pseudo onirica, marcata da frasi e locuzioni assiomatiche o stucchevoli, parole d’ordine velleitarie e dialoghi letterari. Più che una rappresentazione di maniera è una maniera di ricordare qualcosa nella forma dettata dalla convinzione soggettiva di come è avvenuto. Senza quasi accorgersi che la stessa coincide con il ritratto prosaico ed inoffensivo dei giovani rivoluzionari “illusi ed utopisti” che lo stesso potere istituzionale ed economico ha costruito. Se il film non è del tutto convincente, occorre invece riconoscere i meriti estetici della regia di Garrel. La scelta del bianco e nero, crudo e vibrante nei suoi chiaroscuri, è coerente ed efficace. La combinazione di piani fissi e piani sequenza, la lunghezza inusitata delle inquadrature (in particolare nel corso della lunghissima sequenza girata alle spalle della barricata durante gli scontri nel Quartiere Latino, conclusa con la carica della polizia) e i cambi improvvisi di ritmo sono spesso suggestivi. Inoltre è da segnalare la bellissima fotografia notturna di William Lubtchansky. |
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" Les amants réguliers" Philippe Garrel
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In seguito Garrel ha realizzato un paio di film meno riusciti. La frontière de l’aube (2008) racconta una tragica storia d’amore tra due trentenni, ma purtroppo si avventura in un intreccio poco convincente che spegne l’intensità del film. La vicenda si svolge nell’epoca immediatamente prima del 1968. Carole (Laura Smet), donna attraente e attrice piuttosto famosa, si è sposata recentemente con Ed (Eric Rulliat) che si reca spesso a Hollywood per motivi di lavoro. Poi incontra François (Louis Garrel), un fotografo professionale che la deve ritrarre. I due intraprendono una relazione contrastata, tra forte passione e insicurezze soprattutto da parte della donna che è caratterialmente incostante e mutevole. Ma una notte Ed ritorna a casa in modo imprevisto e François è costretto a fuggire in modo rocambolesco. Nonostante riceva lettere imploranti da Carole, l’uomo, che in fondo è un cinico, la abbandona e quest’ultima soffre una grave depressione.
"La frontière de l’aube" Philippe Garrel |
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Si rifugia nell’alcolismo, viene ricoverata in una casa di cura psichiatrica e infine si suicida. Un anno più tardi Francois fa coppia con una nuova compagna, Eve (Clémentine Poidatz), dalla quale aspetta un figlio. Ma proprio il giorno del loro matrimonio Carole ricompare come fantasma riflesso in uno specchio e tormenta i sogni di François, chiedendogli di raggiungerla nel mondo dei morti. Il limite principale del film risiede nella sceneggiatura, scritta dallo stesso Garrel, con la collaborazione di Marc Cholodenko e Arlette Langman, che appare troppo artificiosa nell’innestare la tematica del subconscio e di una deriva quasi horror. In effetti mentre la formazione e la separazione della coppia di amanti, François e Carole, appare stimolante, mostrando una mescolanza di motivazioni forti e di fragilità, la svolta “sorprendente”, cupa e dolente, del confronto tra l’amante pentito e il fantasma spettrale dell’amata, risulta forzosa, inefficace e rasenta il grottesco, nonostante le intenzioni poetiche. E questo twist squilibra anche il profilo estetico del film caratterizzato dalla fotografia contrastata di William Lubtchansky in un rigoroso bianco e nero.
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Un été brulant (2011) vorrebbe offrire un ritratto intenso delle contraddizioni esistenziali di due coppie di artisti trentenni. Garrel propone un tentativo di disanima dell’amore di coppia e al tempo stesso quello di una relazione contrastata di amicizia, con un abbozzo di confronto con lo spazio esterno. Tuttavia la scarsa consistenza dei personaggi e delle loro motivazioni si risolve in un racconto drammatico artificioso, e quasi presuntuoso, in interno borghese. Frédéric (Louis Garrel), è un pittore apparentemente sicuro di sé, ma vittima di crisi di impotenza. È sposato con Angèle (Monica Bellucci), attrice italiana di bellezza statuaria, sensuale, protettiva e perennemente imbronciata. Una donna descritta insistendo sui clichés italici del cibo e della religiosità. Sono due “bobo”, ovvero bourgeois - bohémiens parigini.
Quando Angèle si reca a Roma per girare un film, i due affittano una villa d’epoca e invitano una coppia di amici per trascorrere l’estate. Paul (Jérôme Robart) e Élisabeth (Céline Sallette), sono due attori costretti a svolgere ruoli di comparse, ma formano una coppia unita e loquace e manifestano anche una certa passione politica. Nel corso delle settimane gli ospiti si trovano ad essere coinvolti nel gioco al massacro della coppia di amici, con episodi tragici di cui è protagonista Frédéric che professa l’amore libero, ma è roso dalla gelosia e non si rassegna all’abbandono. La scrittura del film, da parte dello stesso Garrel, insieme a Caroline Deruas-Garrel e a Marc Cholodenko, appare ambiziosa, ma i dialoghi sono noiosi e drammaticamente asfittici, e il risultato è ben poco appassionante, perché non mancano i momenti involontariamente grotteschi e poco credibili. Alla base di questo esito negativo vi è anche una recitazione piatta e vuota, soprattutto da parte di Louis Garrel e della Bellucci. Peraltro l’estetica si conferma felicemente elaborata e suggestiva, con combinazione di piani di ripresa, inquadrature prolungate fino a limiti estremi e significativi cambi di ritmo. |
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"Un été brulant" Philippe Garrel
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La jalousie (2013), propone il minuzioso e lucido resoconto di una crisi esistenziale. Costituisce un ulteriore esempio dell’ inclinazione di Garrel, dolente, ma anche vitale e schiettamente umanistica. I protagonisti sono due trentenni che abitano in un piccolo appartamento in affitto e vivono una nuova contrastata storia d’amore. Louis (Louis Garrel), bon vivant, seduttore naturale e attore di teatro senza successo, alle prese con i disagi della vita, ha abbandonato Clothilde (Rebecca Convenant) con cui ha avuto una figlia, Charlotte (Olga Milshtein), che ora ha otto anni. Padre e figlia si incontrano spesso, ma l’uomo, pur essendo legato alla bambina da un tenero affetto, non contribuisce alle spese per il suo mantenimento. Claudia (Anna Mouglalis), la sua compagna attuale, erudita, sensibile e ostinata, è gelosa e imprevedibile. Un tempo era un’attrice apprezzata, ma da circa sei anni non ottiene una parte. Louis che è definitivamente innamorato, si sforza di trovarle opportunità di lavoro soddisfacenti e provini per ruoli di spicco. Ma Claudia lo tradisce con amanti occasionali e poi diventa l’amante di un architetto nel cui studio ha trovato lavoro come archivista. La donna va e viene, tra ardore e slanci e fastidio e insofferenza per quella vita domestica e per il miniappartamento che avverte come una squallida prigione. Alla fine Louis, dopo essere stato bruscamente lasciato da Claudia, tenta il suicidio sparandosi al petto, ma sopravvive. Ricoverato in ospedale e destinato ad un inesorabile destino di solitudine, si rende conto che gli restano solo l’affetto di sua sorella Esther (Esther Garrel, figlia del regista) e della figlia Charlotte, quindi la forza dei legami familiari, e la passione per il teatro. Il film, di chiara impronta autobiografica, classicamente articolato in termini narrativi, ma radicale nella messa in scena, si riferisce verosimilmente al tradimento messo in atto da suo padre Maurice nei confronti di Philippe e di sua madre. Costituisce un nuovo ed ennesimo capitolo di una poetica amorosa di coppia in precario equilibrio tra desiderio e incapacità / impossibilità di gestire e di comprendere i sentimenti e le rispettive pulsioni ed esigenze individuali.
"La Jalousie" Philippe Garrel |
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L’amore diventa uno stato emotivo perennemente irrisolto e una condizione lacerante perché minacciata da un allarme continuo e dall’impossibilità di conseguire un possesso e un controllo definitivo dell’amato / a. L’amore e la gelosia sono sentimenti privi di soluzioni. Ne deriva che la relazione uomo - donna è destinata allo scacco ineluttabile e che di fronte alla separazione vi è l’esigenza irrealizzabile di impedire la perdita e di subire l’assenza dell’altro / a. Ma di fronte a questi personaggi indecisi e irrisolti Garrel non si perde in oziosi analisi psicologiche e in una sterile ricerca delle loro motivazioni: opta meritoriamente per una dimensione puramente fisica. A livello stilistico si segnala il pregnante minimalismo narrativo, che esprime leggerezza anche nei momenti di maggior angoscia e tensione, il caratteristico utilizzo di un incisivo bianco e nero, con sapienti sfumature date dalla fotografia di Willy Kurant, e l’ampio uso di primi piani, con immagini significative dei volti e delle espressioni dei protagonisti.
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L’ombre des femmes (2015), l’opera più recente di Garrel, presentata al Festival di Cannes, è un film sull’amore e sul tradimento. Offre il ritratto intenso e malinconico, ma anche costellato di spunti finemente ironici, di una coppia di “intellettuali” precari quarantenni, poveri artisti del cinema indipendente, delle loro contraddizioni esistenziali e dei sentimenti contrastanti che li legano. Pierre (Stanislas Merhar), un documentarista poco affermato, vive con la moglie e collaboratrice Manon (Clotilde Courau, commovente nella sua sincerità sconcertante). La donna lo ama molto e racconta alla madre di provare piena soddisfazione nel lavorare con il suo uomo. Quindi non pare sentirsi sminuita nel giocare un ruolo secondario, avendo rinunciato a una propria carriera. I due girano film con pochi mezzi, vivono tranquillamente una routine bohémienne e si arrangiano con piccoli lavoretti. In realtà il loro sodalizio sentimentale risulta meno stabile di quel che appare, tra gelosia, egoismi, indecisioni e dispute che avvengono nel loro appartamento piccolo e trascurato. Poi Pierre incontra Elisabeth (Lena Paugam), una ventenne che lavora come stagista nell’archivio pellicole di una cineteca, e la donna diventa la sua amante pur sapendo che è sposato. Ma Pierre non vuole lasciare Manon per Elisabeth, preferendo mantenere entrambi i rapporti, anche se dopo un’iniziale euforia, si sente intrappolato in entrambi. Un giorno Elisabeth scopre che anche Manon intrattiene una relazione con un altro uomo e lo rivela a Pierre, il quale prova disprezzo nei confronti della moglie. Quindi strapazza Manon accusandola di infedeltà, ma non ammette la propria. Tuttavia Garrel evita assolutamente la deriva tragica. La relazione triangolare tra Pierre, Manon ed Elisabeth, dominata da un’apatia rassegnata, rimane un gioco morbido e crudele, ossessivo, ma quasi noioso. Per amare, come per vivere, si deve essenzialmente resistere e sopravvivere, accettando anche di essere insinceri e “inventati”. E così Pierre e Manon mentono reciprocamente, si amano, ma sono pronti a tradirsi a vicenda, soffrendo.
L’ombre des femmes rappresenta una nuova rivisitazione del tema dell’amore e del disamore nella coppia uomo - donna in un contesto esistenziale di derivazione autobiografica, che senza dubbio fa riferimento alla stessa esistenza di Garrel, filmmaker povero negli anni ‘70. Propone una squisita rappresentazione, schietta e solo apparentemente lineare, delle correnti drammatiche del desiderio, della gelosia e del risentimento. Configura una dinamica tenera, ma anche vagamente cinica, di affetto e di sofferenza, tra marito, moglie e maîtresse. Il regista sembra concentrarsi sulla sgradevole figura maschile e sul suo ego deludente, narcisista e vacuo, ma il suo sguardo si sposta dall’uomo per evidenziare appunto “l’ombre des femmes” svelata sullo sfondo rispetto all’universo maschilista. Ne risulta una storia intima di psicologia dei sentimenti, girata come un modesto thriller dell’anima, anche perché l’amore fisico è occultato. |
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"L’ombre des femmes" Phlippe Garrel
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Philippe Garrel |
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La sceneggiatura, a cura dello stesso Garrel, insieme a Caroline Deruas-Garrel, Arlette Langmann e Jean-Claude Carrière, pur scritta con molta precisione, si sviluppa con una leggerezza e una semplicità narrativa che non nascondono la ricchezza dei personaggi. Inoltre fa emergere una riflessione amara, ma disincantata, sulla morale liberata da ogni forma di conformismo e anche da quella dell’anticonformismo, ma palesa anche una sincera vena autoironica. È un film low budget, girato in appena venti giorni con una messa in scena concisa e spoglia che si concentra sui tre protagonisti, con ben poco attorno. Infatti le vie e i luoghi di Parigi appaiono quasi sempre deserti. La scelta del bianco e nero, vibrante, crudo e modulato al tempo stesso, è coerente con la tradizione del regista e molto efficace. Inoltre è da segnalare la bellissima fotografia curata da Renato Berta
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