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px rouge PORTRAITS I ASGHAR FARHADI I di GIOVANNI OTTONE I 2015

ASGHAR FARHADI

IL VERO INNOVATORE DEL CINEMA IRANIANO CONTEMPORANEO

 

 

 

 

di GIOVANNI OTTONE

ASGHAR FARHADI

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A partire dagli anni ’60 in Iran  il cinema ha  rappresentato una sede di vivace scontro intellettuale  rispetto al concetto di modernità. Due eminenti studiosi, Hamid Dabashi e Hamid Naficy, pur con qualche differenza tra loro, concordano sul fatto che, da parte di intellettuali e registi, si  determinò una tendenza a  resistere ai modelli di modernità europea, rigettandoli o adattandoli, in nome di una resistenza alla soggettività individuale e al colonialismo, individuati come obiettivi della modernità. Dabashi sostiene che il cinema ebbe successo nel riformulare un’identità iraniana laddove la modernità aveva fallito, occupando la periferia sociale, specialmente etnica e religiosa. Secondo Naficy invece, il fallimento del concetto di modernità, osservato da Dabashi nel cinema iraniano e attraverso di esso, ha  determinato che il cinema avviasse la costituzione e l’imposizione di una nuova modernità che diverge dalla modernità europea. La Rivoluzione del 1978 – 1979 e la conseguente instaurazione della Repubblica Islamica, determinarono una violenta contestazione nei confronti del cinema, visto come fenomeno di “corruzione morale”. Tuttavia, successivamente, su sollecitazione dell’Aytollah Komeini, che proclamò che “il cinema deve educare il popolo”,  le relazioni tra il regime di governo teocratico e il settore vennero riformulate. Di fatto il cinema narrativo venne rilanciato, non solo in termini produttivi, ma anche  attraverso l’affermazione di una nitida connotazione autoriale, pur nel quadro di regole e convenzioni. E occorre anche considerare il controllo determinante del regime attraverso la censura  che, imponendo drastiche convenzioni e limitazioni nella rappresentazione di relazioni e contatti fisici tra uomini e donne, condiziona pesantemente la mise en scène obbligando i registi a strategie e stratagemmi, attraverso ellissi e scelte di montaggio che evocano contenuti e immagini che sono proibiti o che comunque non possono essere filmati. Ne sono derivate alcune complesse questioni che sono determinanti per capire temi e contraddizioni espressi dai filmmakers in Iran, che, ovviamente, ci limitiamo a enunciare: le relazioni tra cinema art house e cinema popolare; quelle tra il cinema, con la sua straordinaria affermazione su scala internazionale, che perdura da  circa tre decadi, e l’identità nazionale; le problematiche delle rotture narrative e dei codici adottati dai filmmakers per rifiutare le incoerenze imposte dalla censura e per esprimere la critica sociale o politica e di come il pubblico li deve decifrare; la rappresentazione cruciale delle donne, vere protagoniste dei drammi esistenziali più riusciti; le fondamentali relazioni tra cinema e teatro a partire dagli scambi di attori; il funzionamento delle scuole di cinema; la dipendenza del cinema d’autore dal circuito dei Festival e dai Fondi di supporto internazionali. Scopo di questo saggio è quello di illustrare il decisivo ruolo innovatore di Asghar Farhadi nell’ambito del cinema d’autore iraniano contemporaneo. Peraltro, proprio per inquadrare meglio le caratteristiche delle sue opere, risulta necessario anteporre sinteticamente un quadro dei protagonisti principali del cinema iraniano contemporaneo,  la cui qualità, apprezzata dal pubblico e dai critici da molti anni, ha portato all’assegnazione di numerosi e prestigiosi premi a film selezionati nei principali Festival internazionali di tutto il mondo.

CINEMA D’AUTORE TRA REALISMO, VERITÀ E CENSURA

In termini generali, il cinema d’autore iraniano, a partire dagli anni ’80, attraverso i film di Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Amir Naderi, Dariush Mehrjui, Bahram Beizai e altri, ha reinterpretato il realismo sociale con un nuovo linguaggio umanistico, mettendo apertamente in discussione ruolo e operato del filmmaker,  enfatizzando lati poetici della vita quotidiana di persone ordinarie,  mettendo a fuoco gravi contraddizioni esistenziali o il rapporto tra realtà e verità e superando i confini tra finzione narrativa e documentario. Peccato che, entrambi, Kiarostami (scomparso nel luglio del 2016) e Makhmalbaf, attraverso diversi percorsi di crisi, a partire dai primi anni del nuovo millennio, non essendo in grado o non volendo confrontarsi con le reali dinamiche sociali e culturali emergenti in Iran, specie a Teheran, abbiano progressivamente abbandonato l’approccio alla realtà, con uno stile descrittivo, consapevole e spesso critico e didattico, per approdare ad un narcisismo estetico e di contenuti che li ha portati a fallimentari avventure artistiche e produttive, fino alla scelta, per entrambi, di filmare lontano dal Paese. Anche Jafar Panahi, figura di spicco della generazione successiva, che non si può certo accusare di disimpegno o di intellettualismo ed estetismo à la page, manifesta ormai una significativa involuzione, attraverso i suoi ultimi tre film “clandestini”. Opere che sono state realizzate dopo aver subito, a partire dal 2010, una grave persecuzione politica da parte del regime per presunti reati d’opinione, con una condanna alla carcerazione, finora sospesa, e al divieto di realizzare film e di concedere interviste per vent’anni. Mentre  i suoi migliori film, Dayreh (Il cerchio) (2000), Talaye sorgh (Oro rosso) (2003) e Offside (2006), duri e sobri, inquadrano perfettamente la crisi esistenziale e sociale in cui è intrappolata la popolazione, evitando i toni patetici e descrivendo acutamente la dimensione psicologica dei personaggi, la sua opera più recente, Taxi (2015), risulta deludente. È una finzione abilmente mascherata da diario documentaristico,  che appare allineata a recenti tendenze di sterile empatia nei confronti del popolo e di valorizzazione di buoni sentimenti e ipocrite mediazioni, espresse da molti registi iraniani negli ultimi anni e perfettamente tollerabili e integrabili da parte del regime degli ayatollah.

In effetti in Iran, a nostro giudizio, sono tre i registi che, con opere realistiche e al tempo stesso metaforiche, melodrammi che vanno ben oltre la vuota denuncia, hanno dimostrato di saper meglio rappresentare le vere drammatiche contraddizioni del Paese e la condizione esistenziale delle persone oppresse da un regime teocratico violento, ottuso, manipolatorio e corrotto: Rakhsh?n Bani-Etemad, Mohammad Rasoulof, e Asghar Farhadi. La sessantenne Rakhsh?n Bani-Etemad realizza  film al cui centro vi sono  le donne, non viste secondo un’ottica sociologica o “femminista”, ma in quanto appartenenti alle classi sociali più umili, lavoratrici, ma anche sottoproletarie, povere e discriminate. Mogli o  compagne poco amate, o duramente represse a livello affettivo e sessuale, e madri coraggiose e sfortunate, spesso vittime di una società tuttora fortemente patriarcale e di convenzioni e pregiudizi culturali e morali. Un cinema  che presenta preziosi tagli documentaristici, ma anche un’emozionante articolazione drammaturgica, e che racconta “non eroine” nella loro faticosa  esistenza quotidiana, nel coinvolgimento in tragiche traiettorie e nella lotta per resistere e per sopravvivere, senza artificiose letture psicologiche, e con un indubbio significato politico collaterale. Citiamo alcuni dei suoi  film più significativi: Nargess (1992), ritratto di un crudele e tragico triangolo amoroso nei bassifondi di Teheran; Rusari abi (The Blue-Veiled) (1995), racconto di una relazione amorosa, tra un uomo anziano e una giovane donna di diversa  classe sociale, impedita dalle convenzioni; Gilaneh (2004),  ritratto di una povera vedova e  dei suoi due figli, la cui esistenza è stata sconvolta dalla guerra tra Iran e Iraq; Ghessen-ha (Tales) (2014) affresco vitalissimo e contundente, girato, in parte clandestinamente, nel corso di otto anni, che fonde magistralmente  piccole storie in cui convivono violenze contro le donne, burocrazia paralizzante e incomprensibile, madri di ragazzi arrestati per aver partecipato a manifestazioni di protesta, operai a cui  non viene pagato il salario dovuto e  disoccupati che vedono indebolito  il ruolo di pater familias. Il quarantenne Mohammad Rasoulof, attivo dal 1991,  si è sempre proposto di raccontare storie che si rapportano a persone reali in situazioni reali. Le sue opere, realizzate con una tecnica docu-finzionale, esprimono una lucida e lacerante verità sulla  fatica di vivere nell’Iran di oggi, mescolando realismo, simbolismi, limpido umanesimo e sofferto  pessimismo. Citiamo il suo esordio con il lungometraggio Gagooman (2002), ricostruzione, con i personaggi reali, della storia di una coppia di detenuti che si sposano in prigione, ma che,  una volta  scarcerati,  trovano una società che li respinge e nega loro il lavoro e il reinserimento. Nel 2010 Rasoulof, come Panahi, è stato arrestato con l’accusa di aver filmato senza permesso e quindi condannato dal regime iraniano alla detenzione di un anno e a restrizioni severe rispetto  all’attività di filmmaker. Dopo la liberazione su cauzione, in attesa di sentenza definitiva, ha realizzato due magnifici film. Bé omid é didar (Au revoir) (2011), offre uno straordinario ritratto femminile in un Paese dove le donne sono considerate individui inferiori senza alcun diritto ad agire o a muoversi senza l’approvazione del marito o di un familiare di sesso maschile. Rasoulof mostra la vita quotidiana, con una messa in scena sobria, a tratti iperrealistica e teatrale, punteggiata dai silenzi. Il suo sguardo non è pregiudizialmente politico. Tuttavia l’oggettiva repressione violenta, esercitata dal regime nei confronti degli oppositori veri o presunti, la sfacciata corruzione e la pressione  subite da chi è ricattabile, l’ansia, e la coazione alla menzogna che costituiscono l’essenza della vita di migliaia di persone (in gran parte intellettuali, professionisti e appartenenti alla classe media) sono elementi decisivi che emergono dal film senza alcuna retorica. Un dramma lucidissimo ed emozionante che costituisce indubbiamente un duro atto di accusa. Dast-neveshtehaa nemisoosand (Les manuscripts ne brûlent pas) (2013) propone il  crudo ritratto di due assassini prezzolati  ingaggiati dall'ufficio di censura governativo. I due sicari  compiono operazioni segrete di sequestro e / o  assassinio, o soppressione mascherata da suicidio, di scrittori che rifiutano di consegnare i loro manoscritti considerati sovversivi.  Il film documenta i brutali metodi di ricatto  e racconta tre casi di assassinio di scrittori, concentrando la vicenda in un solo giorno in una tetra Teheran invernale.    Queste opere ricordano, in qualche modo, il cinema di Bresson. La messa in scena è sobria e priva di pathos. Le riprese sono essenzialmente in interni, huis clos che enfatizzano un’atmosfera soffocante. Le inquadrature sono spesso molto strette o si fissano sul volto inespressivo dei personaggi. La fotografia è caratterizzata da una gamma di colori limitata (blu, bianco, nero e grigio), con una luce attenuata che rappresenta simbolicamente il blocco della dinamica esistenziale, sociale e politica dell’Iran di oggi.

UN MAESTRO DEL MELODRAMMA

Il quarantenne Asghar Farhadi (Homayoon Shahr, provincia di Isfahan, 1972),  ha effettuato studi universitari nella disciplina del Teatro, laureandosi in Dramatic Arts e conseguendo poi un post graduate Master  in Stage Direction a Teheran. Appassionato di cinema e iscritto alla “Young Cinema Society” iraniana presso la sede di Isfahan, tra il 1988 e il 1998 ha realizzato  sei cortometraggi documentari e di finzione nel formato 8mm e 16mm. Quindi,  tra il 2000 e il 2002, ha lavorato come sceneggiatore di alcuni serials televisivi presso la Islamic Republic of Iran Broadcasting (IRIB), la media corporation pubblica che detiene il monopolio delle trasmissioni radio e televisive in Iran, formalmente indipendente dal governo, ma il cui vertice direttivo è nominato direttamente dall a suprema autorità politico-religiosa, l’Aytollah Ali Kamenei, e la cui gestione, secondo le norme costituzionali, prevede che la libertà di espressione avvenga nel rispetto dei criteri  e delle leggi islamici. Farhadi ha anche diretto un episodio del serial Dastane yek shahr (A Tale of a City) (2000). Da questa premessa emergono alcuni  fattori che aiutano a comprendere i presupposti  identitari e l’approccio al cinema di questo autore. Farhadi non manifesta apertamente e pubblicamente una dissidenza politica o religiosa, né è mai stato processato o detenuto per reati di opinione, a differenza di Panahi o di Rasoulof. Inoltre, avendo lavorato presso la televisione di stato conosce perfettamente le raccomandazioni obbligatorie dal regime ed evidentemente è ben cosciente del ruolo e delle regole della censura. Tuttavia, essendo animato da uno spirito genuinamente laico e umanista ed essendosi formato attraverso lo studio  della drammaturgia teatrale, ha sviluppato una capacità “straordinaria” di inquadrare le contraddizioni esistenziali e culturali presenti nel Paese.

Al centro del dispositivo cinematografico di Farhadi vi è la progressiva e raffinata disanima delle convenzioni, delle tradizioni, dei conformismi e delle costrizioni che si manifestano in una società dominata dalla dittatura teocratica. Per esprimersi, il regista ha scelto di elaborare una strategia di scrittura, di messa in scena e di montaggio che si serve di codici e di tecniche narrative che consentono di eludere le restrizioni e le incoerenze imposte dalla censura, senza rifiutarne apertamente e formalmente le norme o violarne i precetti, ma riuscendo comunque ad evidenziare aspetti critici, sociali e politici, che il pubblico deve cogliere e decifrare. Farhadi, che ha dichiarato di essere fortemente attratto dal teatro di Henrik  Ibsen, costruisce intrighi narrativi pluristratificati molto intensi, ma privi di dinamiche artificiose, con tonalità di “thrillers dell’anima”. Nei suoi film ogni personaggio deve faticosamente fare i conti con le proprie emozioni e con vari pesi che gravano sulla  coscienza ed è obbligato ad uniformarsi agli unici valori che consentono di sopravvivere nell’Iran di oggi: la menzogna e la doppia morale. In effetti ognuno accampa una scusa per giustificare il proprio comportamento e si impegna per dimostrare che le sue azioni sono obbligate e inappellabili. Inoltre, nei suoi film più recenti e riusciti, a partire dal 2006, vi è sempre almeno un personaggio di condizione più umile che rappresenta il contrasto tra le differenti classi sociali. In ogni caso, pur lasciando a volte trasparire una sottile empatia verso l’uno o l’altro tra i suoi personaggi, il regista non li giudica mai, né manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante un epilogo catartico. Piuttosto spinge l’audience a modificare e rivalutare continuamente  impressioni e giudizi. Nei suoi magnifici melodrammi, sospesi, imprevedibili ed estremamente coinvolgenti, la solida e intelligentissima messa in scena inquadra un microcosmo e mette a nudo progressivamente l’intimità di individui che mostrano una credibile sofferenza esistenziale. La direzione degli attori, che offrono interpretazioni incisive e misurate al tempo stesso, è sempre assolutamente impeccabile. Farhadi utilizza al meglio gli spazi interni, dove si svolge gran parte dell’azione, esplorando con sensibilità documentaristica, in forma contundente, angoli e dettagli e combinando diversi piani ed angolazioni. Quindi ogni film è realistico in termini scenografici e sociali, ma, al tempo stesso, è metaforico perché, senza essere dichiaratamente politico, assume un significato più ampio e ci rimanda al macrocosmo, ovvero al ritratto vero delle contraddizioni che l’intera popolazione vive sotto il giogo del regime teocratico. In questo senso è politicamente esplicito e comprensibile. Non per altro lo stesso Farhadi, nel corso di un’intervista, ha indicato Ladri di biciclette (1948), il capolavoro di Vittorio De Sica, quale suo modello cinematografico.

LA FILMOGRAFIA: PAROLE, BUGIE ED EMOZIONI

Dancing in the Dust

"Raghs dar ghobar (Dancing in the Dust)" (2003), Asghar Farhadi

 

Raghs dar ghobar (Dancing in the Dust) (2003), lungometraggio di esordio di Asghar Farhadi, ambientato in una regione periferica arida e polverosa, è un racconto  di formazione atipico. Un film che anticipa alcuni temi che diventeranno centrali  per il regista: l’amore e dei sacrifici  che richiede e il matrimonio e le convenzioni che lo regolano nella società tradizionale iraniana. Il protagonista è Nazar (Yosef Khodaparast), un  ventenne ingenuo e testardo, di origine azera, che è stato costretto dai genitori e dagli amici a divorziare quando si è sparsa la voce che la madre di sua moglie esercita la prostituzione. Tuttavia, nonostante il divorzio sia avvenuto in termini amichevoli, l’uomo è ancora molto innamorato della ex consorte Reyaneh (Baran Kosari) ed è logorato dall’idea ossessiva di dover comunque restituire il prestito ottenuto per pagare la dote dovuta.

Disperato per il fatto che, nonostante effettui doppi turni lavorativi nel laboratorio farmaceutico di sieri vaccinali in cui lavora, non riesce a guadagnare quanto è necessario e rischia di essere denunciato e arrestato, compie un atto temerario. Essendosi imbattuto in un anziano cacciatore di serpenti (Faramarz Gharibian), taciturno e misterioso, abituale fornitore del veleno necessario per confezionare i vaccini, si nasconde nel van dell’uomo e finisce per ritrovarsi nel deserto. Quindi si assiste alla relazione conflittuale tra i due quando l’uomo rifiuta di ingaggiarlo, lo costringe a dormire all’addiaccio e non vuole nemmeno ricondurlo in città. D’altronde Nazar assume comportamenti provocatori e imprevedibili, con esiti tragici e controversi. Farhadi  propone un convincente registro realista su cui si inseriscono motivi naturalistici, ma, pur sviluppando interessanti osservazioni sulla complessità morale degli esseri umani, eccede in simbolismi piuttosto criptici.

Il  suo secondo film, Shah-re ziba (The Beautiful City) (2004), è un avvincente dramma psicologico, ambientato in un contesto di proletari ed emarginati. Propone il tema  del crimine di sangue e  mette a fuoco le contraddizioni del sistema giudiziario e il carattere punitivo della giustizia islamica. La vicenda inizia in un carcere minorile dove il sedicenne Akbar (Hossein Farzi-Zadeh), condannato alla pena capitale per aver assassinato  la sua giovane fidanzata,  attende di compiere diciotto anni per essere giustiziato. Il suo migliore amico, Ala (Babak Ansari), un ladruncolo che è stato scarcerato da poco per buona condotta, è determinato a compiere qualsiasi  sforzo per ottenere la sospensione dell’esecuzione. Per conseguire lo scopo deve convincere la famiglia della vittima a ritirare la denuncia. Quindi il giovane persuade la sorella di Akbar, Firoozeh (Taraneh Alidoosti) a intercedere nel contatto con  la famiglia in questione.

 

Shah-re ziba (The Beautiful City)

"Shah-re ziba (The Beautiful City)"(2004) Asghar Farhadi

 

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Tuttavia i due giovani, mentre  fronteggiano la fermezza del padre della vittima, si rendono conto che la questione cruciale è quella del risarcimento in denaro. Inoltre  la situazione si complica perché Ala e Firoozeh si innamorano. In ogni caso si tratta di un contesto di proletari ed emarginati. Farhadi introduce i temi della violenza e del perdono che riproporrà  in forma mediata nei suoi film successivi.

Asghar Farhadi

"Chaharshanbe-soori (Fireworks Wednesday)"(2006) Asghar Farhadi

 

Chaharshanbe-soori (Fireworks Wednesday) (2006), terzo magnifico lungometraggio di Farhadi, premiato con il Gold Hugo al miglior film al Festival di Chicago, segna una svolta: lo spostamento dell’attenzione verso la classe media attraverso storie e ritratti più complessi, articolati ed emozionanti. In questo film emerge con forza anche il tema fondamentale del cinema di Farhadi:  la tensione e il conflitto tra i protagonisti alimentato e regolato dalla duplicità e dal relativismo morale.  La vicenda si svolge alla vigilia del Capodanno iraniano che  avviene il 21 marzo, primo giorno di primavera. Una festa dedicata da secoli alla preparazione del nuovo anno e in particolare alle pulizie generali della casa, fino a sera quando si scatenano i botti e i fuochi d’artificio. Teatro di questo melodramma coniugale è un appartamento in un bel palazzo condominiale in una zona residenziale di Teheran. Rouhi (Taraneh Alidoosti) è stata assunta per la giornata per pulire e rassettare l’alloggio dove i mobili sono accatastati in previsione di ritinteggiare approfittando di una imminente vacanza della famiglia, di classe media agiata, in un Paese della penisola araba.

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La giovane donna è prossima al matrimonio e non nasconde la felicità della propria convivenza con il fidanzato e la speranza di un radioso futuro in coppia. Tuttavia, poco a poco, entrando in  confidenza con i datori di lavoro, diventa testimone dell’insanabile conflitto tra Morteza (Hamid Farokhnezhad) e Mojdeh (Hediyeh Tehrani),  marito quarantenne e moglie trentenne in profonda crisi, una coppia ormai prossima alla lacerazione definitiva. Mojdeh è ossessionata dal sospetto che il marito la tradisca con la vicina, una piacente quarantenne divorziata che lavora in casa come sarta. In preda a crisi di insofferenza e di febbrile isteria, Mojdeh alterna momenti di freddezza scostante e battibecchi feroci con Morteza. L’uomo nega sdegnosamente qualsiasi relazione con la presunta amante. Ma poi lo spettatore diventa testimone di un raffinato  stratagemma ideato dal fedifrago per incontrare colei che in effetti è la sua amante. Farhadi sviluppa la narrazione  filtrandola in larga parte attraverso il punto di vista e la reazione emotiva della giovane Rouhi, la quale non viene tanto affascinata dallo stile di vita sofisticato della coppia borghese, quanto piuttosto impressionata dalla non sincerità e dal cinismo che percepisce nella loro relazione. Le sue convinzioni circa i legami amorosi si scontrano con la realtà quotidiana  di una coppia risentita, logorata e dal futuro incertissimo. Il film indaga i conflitti che lacerano gli animi dei protagonisti  mostrando una serie di confronti, nelle coppie e tra le diverse coppie, da cui emerge che gli uomini e le donne faticano a comprendersi e tentano di emanciparsi dalla dipendenza reciproca. Contemporaneamente propone uno spaccato in cui si evidenziano palesemente le differenze di classe e da cui  provengono chiare indicazioni sulla posizione della donna nell’Iran di oggi. Farhadi non giudica mai i suoi personaggi, ma indica, con uno sguardo acuto e onesto, l’irrequietezza della loro vita intima, la delusione, la contraddittoria ricerca di verità e di pace e il desiderio di felicità e di libertà. Una dialettica individuale che può anche facilmente essere letta in senso politico rispetto  a larghi settori del popolo che vorrebbero emanciparsi dalla cappa oppressiva della teocrazia.  D’altronde la raffinata disanima del film porta lo spettatore a non  potersi augurare né il prevalere né il fallimento di nessuno dei personaggi e, forse,  a non essere in grado di schierarsi né con l’uno, né con l’altro.

Asghar Farhadi

"Darbareye Elly (About Elly) "(2009) Asghar Farhadi

 

Darbareye Elly (About Elly) (2009), premiato con L’Orso d’Argento alla Berlinale, è costruito con un’impostazione teatrale e si sviluppa come un thriller atipico, ma si sostanzia in un’accurata analisi dei comportamenti umani e assume un chiaro significato politico. La vicenda vede coinvolto un gruppo di trentenni di Teheran, appartenenti alla classe media, che ha deciso di trascorrere una breve vacanza di tre giorni in uno chalet sulle rive del Mar Caspio. Si tratta di tre coppie con bambini, legate da un’amicizia che risale all’epoca della comune frequentazione universitaria. Hanno invitato anche Ahmad (Shahab Hosseini), un amico tornato recentemente  in Iran, dopo aver trascorso diversi anni in Germania e dopo aver posto fine ad un matrimonio infelice con una donna tedesca. Una delle donne, Sepideh (Golshifteh Farahani), molto determinata, ha invitato la graziosa Elly (Taraneh Alidoosti), insegnante dei suoi figli che frequentano la scuola primaria.

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Nel corso del primo giorno di permanenza tutti  i presenti si rendono conto degli intenti di Sepideh che vorrebbe far  nascere un interesse reciproco tra Ahmad ed Elly. E, comunque, iniziano a simpatizzare con la giovane invitata, riconoscendone le qualità. Ma poi, nel corso del secondo giorno, Elly scompare bruscamente. Vi è il forte sospetto, avallato dalle contraddittorie testimonianze dei bambini, che la donna sia incidentalmente entrata in acqua e, trascinata dalla corrente, sia annegata. Inizia un’affannosa ricerca, ma il corpo non si trova. Da quel momento il film cambia tono. In seguito a un’angosciosa  concatenazione di  situazioni emerge che Elly era una persona diversa da quella che tutti credevano. In particolare si scopre che la donna aveva una complicata vita familiare ed era legata ad un altro uomo. Tutti i componenti del gruppo si confrontano aspramente, tra accuse reciproche e prese di coscienza della responsabilità nei confronti dei familiari di Elly, fino al triste epilogo che risolve solo in parte i dubbi.

Jodaeiye Nader az Simin (Nader and Simin, a Separation) (2011), un vero capolavoro, ha ottenuto, oltre a numerosi altri Premi, l’Orso d’Oro al miglior film alla Berlinale e l’Oscar, Academy Award, al miglior film in lingua straniera. È un dramma che descrive accuratamente caratteri, scelte e azioni personali in un preciso contesto. Inoltre rappresenta efficacemente, attraverso un complesso di relazioni interpersonali, le divisioni di classe sociale e culturali e il peso dei precetti e delle leggi ispirate alla religione islamica sciita. Al centro della vicenda vi è una coppia di trentenni, appartenente alla classe media agiata, che vive in un moderno appartamento in un’area residenziale di Teheran. Nader (Peyman Moaadi) e Simin (Leila Hatami) avevano concepito da tempo l’idea di emigrare all’estero, anche per offrire un futuro migliore a Termeh (Sarina Farhadi), la loro unica figlia di  undici anni. Peraltro, dopo aver ottenuto i visti per lasciare il Paese, Nader, preoccupato per il peggioramento delle condizioni fisiche e cognitive di suo padre, affetto dalla sindrome di Alzheimer, annulla il viaggio. A questo punto Simin deposita una richiesta di divorzio presso il tribunale incaricato della giustizia di famiglia e nel frattempo abbandona il domicilio coniugale e torna a vivere nella casa dei propri genitori.

 

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"Jodaeiye Nader az Simin (Nader and Simin, a Separation)"(2011) Asghar Farhadi

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Lo scopo della donna è quello di partire comunque con la figlia. Tuttavia Termeh decide di restare con Nader, coltivando la speranza che sua madre ritornerà a vivere con loro. Si assiste alle discussioni e ai diverbi della coppia e si può notare che, anche se i due sostengono caparbiamente i rispettivi punti di vista, la lite si mantiene sempre in termini piuttosto civili, senza violenze fisiche. In effetti non manifestano mai del tutto i propri sentimenti e sembrano preoccupati di non impressionare negativamente la piccola Termeh. Di fronte alle notevoli difficoltà di gestione dell’abitazione familiare, Nader assume Razieh (Sareh Bayat), una giovane donna di umile condizione e profondamente religiosa, per badare all’anziano padre infermo, preparare i pasti di Termeh e rassettare la casa. La donna, spinta dal bisogno, ha tenuto nascoste a Nader due circostanze decisive: è incinta, ai primi mesi di gravidanza, e lavora senza aver informato suo marito. Razieh si reca quotidianamente all’appartamento in compagnia della  sua bambina di  quattro anni, dopo aver affrontato un faticoso viaggio in autobus, perché vive in un lontano quartiere proletario. La gravidanza la affatica e si trova a disagio nell’accudire il vecchio, al punto che quando questi si sporca di feci e urine, telefona al suo Imam per sapere se è peccato lavare e cambiare un uomo diverso da suo marito. Un giorno Nader, che è impiegato in una banca, torna a casa in un orario inconsueto e trova il padre a terra, dolorante e abbandonato, mentre Razieh è assente. Quando la donna ritorna nell’appartamento, Nader la tratta rudemente, la accusa anche di aver sottratto una somma di denaro e quindi la licenzia. Al colmo di una crisi di rabbia la spinge violentemente oltre la porta, sul pianerottolo. Razieh scivola sulle scale e cade. Alla scena assiste anche una vicina di casa. Quindi la donna abortisce. A quel punto inizia una sequela di diatribe. Hodjat (Shabab Hosseini), il marito di Razieh, disoccupato e oberato dai debiti, è un uomo collerico e violento e  si sente gravemente oltraggiato. Quindi accusa Nader e chiede che sia giudicato e condannato perché la legge islamica considera l’aborto come un omicidio e quindi chi l’ha provocato è responsabile di assassinio. Nader viene messo a confronto con Razieh in tribunale, ma la donna omette di confessare che il giorno precedente i fatti, mentre si trovava in strada in mezzo al traffico, era stata urtata da un’auto. Si assiste a varie udienze di fronte a un giudice, che non si scompone, ma pare vagamente conciliante. Si alternano momenti drammatici e situazioni vagamente assurde e grottesche agli occhi dello spettatore occidentale. Le due coppie (Simin è accorsa per sostenere il marito, ma in privato lo accusa di negligenza) si confrontano in un intreccio di accuse, confessioni reticenti, ritrattazioni, manipolazioni, bugie e invocazioni a Dio. Alla fine Hodjat accetta la compensazione in denaro offerta da Nader e decretata dal giudice. Peraltro questa soluzione non placa il rancore e le recriminazioni. Inoltre la causa di separazione tra Nader e Simin continua il suo corso. Nella sequenza conclusiva Nader deve confrontarsi con la piccola Termeh che lo imbarazza con quesiti sulla sincerità e sulla fiducia. Farhadi introduce selettivamente nuovi dettagli ad ogni snodo della narrazione. Tesse una trama che costringe lo spettatore a modificare continuamente la sua opinione rispetto ai singoli personaggi, i quali, peraltro, si mostrano ambivalenti e modificano il loro giudizio gli uni verso gli altri nel corso del film. In effetti nel film ognuno di essi è al tempo stesso “colpevole” e “innocente” a seconda del punto di vista con cui lo si può giudicare. La coppia borghese, costituita da Nader e Simin, offre l’immagine di un livello culturale avanzato e di idee laiciste, in base alle quali cui la donna è libera nell’azione, e cerca di difendersi dalle conseguenze della legislazione rispondente alla religione, senza eroismi, ma alla fine è purtroppo obbligata a compiere scelte ipocrite. La coppia proletaria, costituita da Hojjat e Razieh, vede la donna dominata dalla paura e dalla sottomissione al marito autoritario ed entrambi vincolati da pregiudizi e precetti religiosi. È in qualche modo uno specchio dell’attuale divisione presente in Iran che vede contrapposti oppositori e sostenitori del regime degli Ayatollah.

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"Gozashte (Le passé) "(2013) Asghar Farhadi

 

Gozashte (Le passé) (2013) presentato al Festival di Cannes, dove ha ricevuto il Premio per la miglior interpretazione femminile, assegnato alla protagonista Bérénice Bejo,  introduce alcune novità spiazzanti nel cinema di Farhadi: ambientazione in Francia, cast internazionale e produzione italo-francese. Ancora una volta si tratta di un thriller dei sentimenti, che si svolge prevalentemente in un microcosmo. Peraltro in questo  film prevale una dimensione al tempo stesso minimalista e labirintica,  in un intreccio di storie ed episodi misteriosi che configura un puzzle psicologico che si avvita su sé stesso, e non trova un limpido riferimento ad un contesto sociale e politico. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato.  Gli appartamenti della classe media e la connotazione urbana di Teheran o le case in campagna dei film precedenti girati in Iran vengono sostituiti da un anonimo e deprimente quartiere della banlieu di Parigi e da una vecchia  villetta decadente dove si confrontano le traiettorie esistenziali “periferiche” dei protagonisti. Ahmad (Ali Mosaffa), intellettuale iraniano quarantenne, colto e sensibile, torna a Parigi da Teheran dopo quattro anni dalla separazione stipulata con Marie (Bérénice Bejo), la ex moglie francese.

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La donna, volitiva, ma sempre stanca e insoddisfatta, pragmatica, cinica e permalosa, è impiegata in una farmacia del centro di Parigi e vive con le due figlie, la sedicenne Lucie (Pauline Burlet) e la minore Léa (Jeanne Jesten), avute da un precedente matrimonio con un belga, ma cresciute con dedizione paterna dallo stesso Ahmad durante  i molti anni in cui è durato il legame coniugale. Ahmad ha accettato di sancire il definitivo divorzio richiesto da Marie ed è quindi venuto per espletare le formalità legali e burocratiche necessarie. Costretto a condividere la quotidianità della casa della ex moglie, che stranamente non gli ha prenotato una stanza in albergo, l’uomo ritrova segni e memorie del passato e ben presto si rende conto dell’aspro contrasto che oppone Lucie a sua madre. In effetti Marie vorrebbe sposarsi con Samir (Tahar Rahim), il suo nuovo compagno, un tipo ombroso e sempre allarmato, titolare di una piccola lavanderia, che è andato a vivere con lei insieme a Fouad (Elyes Aguis), il suo bambino. Peraltro i due amanti sono tormentati da una tragica evenienza: la moglie di Samir ha tentato il suicidio  e da otto mesi giace in coma in ospedale. In casa si accumulano tensioni, confusione e disordine, dovuto anche a lavori interrotti di ritinteggiatura,  e domina una sensazione di incertezza e di nodi non risolti, proprio per la precarietà e la  problematicità  dei rapporti tra gli adulti e i figli e persino tra questi ultimi. Ahmad gode della simpatia e dell’affetto di Lucie e si trova quindi a poter discutere con la ragazza che va e viene fino a tarda ora. In effetti non sopporta e non accetta Samir e vorrebbe impedirne il matrimonio con la madre. La situazione si trascina tra sorprese, rivelazioni inattese, incomprensioni, accuse e recriminazioni tra i protagonisti, che non sono del tutto sinceri rispetto ai loro interessi e aspettative, fino a una precipitazione drammatica che lascia tutti infelici. La prima parte del film, dedicata al reinserimento di Ahmad in un contesto in cui emergono insopprimibili legami con un passato lieto e sereno, appare caratterizzata da scorrevolezza narrativa, autenticità e schiettezza, alternanza emotiva, semplicità ed efficacia. Tuttavia, ben presto, prevalgono una deriva inattesa di scrittura e un incerto intento didascalico, con un accumularsi di scoperte,  svelamento di segreti e confessioni, nonché di metafore di corto respiro e ridondanti e di deviazioni e forzature narrative quasi artificiose. Farhadi sembra preoccupato di tenere insieme i fili di una vicenda complessa condizionata dal peso del passato, una “tragedia di buone intenzioni e cattive decisioni”, in cui prevalgono oscuri sensi di colpa, ipocrisie e la paura dei personaggi nell’ammettere la verità verso sé stessi, e che approda  a stento, e solo a tratti, all’emozione morale a cui ci ha abituato nei suoi film precedenti. Quindi conduce lo spettatore a perdersi in una sequela di domande e di risposte, derivanti dalle continue svolte, che a loro volta innescano altre domande, con il rischio di un circolo vizioso che impedisce l’approfondimento. Evidentemente la sfida di trasferire il suo originale approccio melodrammatico alla sofferenza esistenziale in un contesto altro, con velleità di ricerca di significati universali, mostra la corda. Nonostante il commovente realismo dei dialoghi della prima parte del film, la messa in scena non appare complessivamente particolarmente ispirata e denota una certa distanza e disagio verso gli stessi personaggi. Sembra mancare il confronto con una realtà  intima di individui condizionati e oppressi dalle costrizioni del regime iraniano e, forse, non ci si deve preoccupare della censura islamica che comunque affina le tecniche di rappresentazione delle contraddizioni.

Anche Forushande (The Salesman)  (2016), presentato al Festival di Cannes, dove ha ricevuto un doppio Premio, alla miglior sceneggiatura, di cui è autore lo stesso Farhadi, e a Shahab Hosseini, per la migliore interpretazione maschile, si sviluppa come un thriller atipico,  assumendo un chiaro significato politico. La vicenda si svolge ancora una volta a Teheran. Una coppia di intellettuali trentenni, formata da Emad (Shahab Hosseini), insegnante in una scuola superiore, e da Rana (Taraneh Alidoosti),  è obbligata a trasferirsi in un appartamento provvisorio, messo a disposizione da un amico, perché hanno dovuto evacuare il loro a causa del rischio di crollo del palazzo. Nel frattempo i due sono anche impegnati attivamente come attori  semiprofessionali in un noto dramma teatrale, “La morte di un commesso viaggiatore”, del  drammaturgo americano Arthur Miller. L’opera è in allestimento tra mille difficoltà, per contrasti artistici all’interno della troupe e per la difficoltà di superare le obiezioni della censura del governo.

 

Francois Ozon

"Forushande (The Salesman)  "(2016) Asghar Farhadi

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Poco a poco si apprende che la precedente inquilina del nuovo alloggio, che non compare mai, era una donna sola con un bambino, ma riceveva diversi uomini che la frequentavano. Emad e Rana, nonostante la loro apertura mentale, si sentono a disagio  pensando a cosa  poteva essere avvenuto laddove loro  stessi si sono stabiliti. Poi un  pomeriggio Rana, mentre attende il ritorno del marito, sente suonare il campanello e lascia aperta la porta, recandosi poi in bagno per fare una doccia. Ma  poco dopo viene aggredita da uno sconosciuto, lo respinge, viene ferita al capo, sviene e  quindi viene soccorsa dai vicini.  Al contrario l’assalitore  riesce a dileguarsi, pur avendo lasciato una traccia di sé. Allo spettatore  non viene mostrata l’aggressione, ma solo il prima e il dopo, con la rievocazione della stessa nel racconto di vittima. Quindi si assiste al successivo confronto tra marito e moglie, dove lei non sa o non vuole spiegarsi bene e lui appare sempre più turbato e umiliato. Emad, che pure è un uomo riservato e controllato, deve fronteggiare una situazione devastante e una crescente e penosa pressione psicologica, aggravata dai commenti maliziosi dei vicini. Quindi, spinto da una progressiva inquietudine, inizia una personale inchiesta per individuare l’aggressore, con amare conseguenze. Farhadi  realizza un dramma che mantiene sempre coerenza e intensità.  Peraltro il costante intreccio tra la vicenda esistenziale della coppia e la pièce di Miller, pur tenuto insieme da parallelismi tematici (identità maschile in crisi a causa dell’incapacità di garantire sicurezza e benessere alla propria moglie, uso della menzogna, frequentazione di prostitute, ecc.), a tratti introduce alcune rigidità, ma certamente non dinamiche artificiose. Il regista non si perde nei meandri di uno sterile psicologismo e non indulge in suggestioni didascaliche, ma piuttosto introduce selettivamente nuovi dettagli ad ogni snodo della narrazione. In ogni caso solo una lettura fuorviante, potrebbe vedere nel comportamento di Emad unicamente l’ossessione di verità, giustizia e, forse, vendetta, facile metafora dell’intransigenza ideologica del regime sciita. In realtà la questione è ben più complessa e implica dilemmi più profondi rispetto alla relazione tra marito e moglie, ai pregiudizi verso le donne e il sesso, alle contraddizioni che dilaniano, anche in Iran, gli intellettuali progressisti e alla questione della rispettabilità di fronte al giudizio degli altri. E, comunque, anche in questo film Farhadi costringe lo spettatore a modificare continuamente la sua opinione rispetto ai singoli personaggi.

NUOVI FILMMAKERS SULLE ORME DI ASGHAR FARHADI

Infine ricordiamo alcuni altri registi che hanno dimostrato con i loro film di esordio, di collocarsi in sintonia con la poetica e le scelte drammaturgiche e stilistiche di Asghar Farhadi. Massoud Bakhshi, con Yek khanévadéh-e mohtaram (Une famille respectable) (2012), ha realizzato un thriller claustrofobico che mette a nudo un intreccio di disonestà, miseria morale e ipocrisia. Il protagonista è Arash (Babak Hamidian), un professore universitario quarantenne che vive in Europa occidentale da 22 anni. Rispondendo a un invito accademico, ritorna in Iran, a Shiraz, città dove vive sua madre, per tenere un ciclo di lezioni. Ben presto si trova in difficoltà perché, dovendo ottenere un permesso per prolungare la sua permanenza, si scontra con la lentezza paralizzante e con le illogiche richieste dell’apparato burocratico statale. Inoltre si sente a disagio perché deve incontrare suo padre gravemente malato, un uomo rigido e ottuso che si è arricchito, speculando durante la guerra del 1981 tra Iran e Iraq, e che aveva sempre disprezzato le sue scelte. Poi il genitore muore e Arash deve recarsi a Teheran per partecipare al funerale, incontrare i parenti e definire il tema dell’eredità. Massoud Bakhshi Costruisce un quadro impressionante della corruzione della borghesia e delle paradossali contraddizioni sociali e politiche del regime. Evita la deriva didascalica e retorica e gli inutili psicologismi e offre una convincente disanima dei personaggi. La sua messa in scena sobria ed essenziale è ricca di preziosi dettagli documentaristici. Ida Panahandeh, con Nahid (2015), ha proposto un interessante melodramma che mette a nudo i nodi della condizione familiare e di quella femminile. La storia si svolge in una cittadina del nord del Paese, affacciata sulla costa del Mar Caspio, nel corso di un autunno grigio e piovoso. La protagonista è Nahid (Sareh Bayat), una trentenne piacente e istruita, divorziata e in difficoltà economiche. Lavora come dattilografa in una copisteria e a domicilio, ma non riesce a pagare regolarmente l’affitto dell’appartamento che occupa. Il figlio dodicenne Amir Reza (Milad Hossein Pour) secondo la legge, in caso di divorzio, spetterebbe al padre, ma le è stato affidata a condizione che resti single. Quindi Nahid, per timore di perdere la custodia del ragazzo, non può rifarsi una vita unendosi a Masoud (Pejman Bazeghi), l'uomo che ama, vedovo e proprietario di un piccolo hotel, che potrebbe offrirle una vita serena e confortevole. In effetti Ahmad (Navid Mohammad Zadeh), il suo ex marito tossicodipendente, incallito giocatore d’azzardo e scommettitore, spalleggiato dalla famiglia, le rende la vita impossibile, con continue richieste di riconciliazione, alternate a minacce. Nahid è allora costretta ad intraprendere una non soluzione transitoria: un “matrimonio temporaneo” di un mese con Masoud. Ma alla fine non riesce a intendersi con la famiglia dell’amante e deve subire le terribili scenate di Ahmad. E la vicenda, dopo molto strazio, non si risolve. Il film mette a fuoco  la triste complessità e i bizantinismi delle norme astruse e ipocrite che regolano il vincolo  coniugale nella società contemporanea iraniana.  Configura  con una certa credibilità ed efficacia sia la condizione psicologica dei personaggi, sia il contesto culturale e i pregiudizi, sia i risvolti sociali della vicenda. Nima Javidi ha realizzato Melbourne (2014), un dramma - thriller familiare, costruito con un’impostazione teatrale, che introduce complessi dilemmi morali. Al centro della vicenda, ambientata pressoché integralmente nello huis clos di un appartamento moderno in un edificio residenziale di Teheran, vi è una coppia di coniugi trentenni senza figli: Amir (Payman Moaadi) e Sara (Negar Javaherian). I due, avendo deciso di perfezionare i loro studi, hanno ottenuto di trasferirsi a Melbourne in Australia per un triennio, o forse per sempre. Mancano poche ore alla partenza e ricevono le telefonate di parenti e amici.  L’unico particolare dissonante è un lattante di pochi mesi che dorme in camera  adagiato sul letto matrimoniale. È la figlia di un vicino che di prima mattina è stato affidato loro da una baby sitter, con la promessa che poi verrà a recuperarlo. Sara la controlla: sembra dormire placidamente. Poi forse lo gira, per cambiargli la posizione, ma in seguito non sarà certa di aver compiuto quell’azione. Poi all’improvviso si rendono conto che il bebè giace senza vita e si trovano coinvolti in un evento terribile senza poter capire come sia avvenuto. Quel tragico incidente domestico può compromettere definitivamente il loro futuro. Devono decidere come comportarsi mentre la tensione cresce inesorabile insieme ai sensi di colpa. Ma sorge anche il sospetto che la bambina forse era già morta quando è stata affidata a loro solo venti minuti prima. Il film, costruito con un’impostazione teatrale, si sviluppa come un thriller atipico, con  la triade luogo / tempo / azione e una narrazione che simula con perizia il tempo reale. I due protagonisti sono combattuti tra la coscienza, che impone di assumere la responsabilità del dramma in cui sono stati coinvolti loro malgrado, e la necessità - obbligo di garantirsi un futuro di libertà, superando ad ogni costo l’avversità provocata da un destino beffardo. Da un lato sono evidenti le affinità di approccio con il cinema di Asghar Farhadi, attraverso la scelta di rendere protagonista la generazione dei trentenni della classe media che mostrano una credibile sofferenza esistenziale perché vivono in una società costruita sulla menzogna. Dall’altro  Nima Javidi, a differenza di  Farhadi,  finisce per manipolare eccessivamente l’intrigo narrativo pluristratificato, che contiene alcune dinamiche artificiose, al fine di influenzare lo spettatore per coinvolgerlo nei dilemmi dei due protagonisti e accompagnarlo all’ambigua soluzione “catartica” finale.

Paridan az ertefa kam (A minor leap down)

"Paridan az ertefa kam (A minor leap down)"(2015) Hamed Rajabi

 

Hamed Rajabi, con Paridan az ertefa kam (A minor leap down) (2015), ha proposto un eccellente ritratto femminile e un intreccio pluristratificato di crisi esistenziale e sociale. La trentenne Nahat (Neger Javaherian), al quarto mese di gravidanza, effettua una visita di controllo nello studio del proprio ginecologo. Purtroppo apprende che il feto è morto e che dovrà essere rimosso con un raschiamento entro due giorni per evitarle una  rischiosissima infezione. Ma reagisce con anomalo distacco. Successivamente né sua madre (Mehri Aleagha), né la sorella minore Mona (Shafagh Shokri), né soprattutto il marito Babak (Rambod Javan), preoccupato con la sua promozione e l’acquisto di un’auto nuova e attratto dai programmi televisivi di intrattenimento, sembrano in grado di poterla ascoltare con attenzione e di comprendere il suo dramma. In effetti Nahat è certa che, se la sua famiglia  venisse a conoscenza delle circostanze, la inviterebbero a ricominciare un ciclo di terapia con farmaci antidepressivi come già è avvenuto quando è stata in cura prima della gravidanza.

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Quindi tace e sceglie di procrastinare le decisioni e  di ignorare il problema, riprendendo la routine quotidiana. Ma poi si ribella compiendo atti provocatori che mortificano i suoi familiari e sovvertono l’etica del mondo borghese in cui vive. Hamed Rajabi descrive i comportamenti di Nahat senza giudicarla e non manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante una catarsi conclusiva. La sua solida e audace messa in scena inquadra un microcosmo e mette a nudo progressivamente l’intimità di una donna che mostra i segni di una  grave sofferenza psicologica e sentimentale, essendo in fondo incapace di separarsi dall’essere non più vitale che porta nel suo grembo. Quindi il film è realistico, ma, al tempo stesso, è metaforico perché, senza essere dichiaratamente politico, assume un significato più ampio e ci rimanda al macrocosmo, inquadrando con lucidità l’impotenza e la vacuità di una classe media anestetizzata, tra le soffocanti regole del regime teocratico, le consuetudini di un’esistenza standardizzata, l’assuefazione al consumismo e l’abitudine ai pregiudizi e alla menzogna.

Vahid Jalilvand ha realizzato Chaharshanbeh, 19 Ordibehesht (Wednesday, May 9) (2015), un convincente melodramma che propone un’eccellente disanima del machismo in Iran, un problema aggravato dalla propaganda del regime teocratico che schiaccia il Paese. Jalal vive a Teheran e appartiene al piccolo ceto medio. Afflitto dalla perdita del figlio, determinatasi per la sua impossibilità di pagare le cure necessarie, e desideroso di rendersi utile a fronte della tanta miseria e necessità che lo circondano, pubblica un annuncio su uno dei grandi quotidiani della città con l’offerta di una forte somma di denaro, equivalente a 10.000 dollari, a una persona bisognosa. L’annuncio convoca i potenziali richiedenti per un colloquio in un ufficio privato, quello di un amico di Jalal. Il giorno convenuto l’ufficio è preso d’assalto da una folla di questuanti che vengono ricevuti uno ad uno ed espongono il loro caso. Considerato l’ingente numero di  situazioni meritevoli di aiuto, con richieste sostenute da ottimi motivi, Jalal sembra orientato a sceglierne una a caso.

 

Chaharshanbeh, 19 Ordibehesht (Wednesday, May 9)

"Chaharshanbeh, 19 Ordibehesht (Wednesday, May 9)" (2015)Vahid Jalilvand

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Ma a sera inoltrata, mentre stanchissimo si accinge a tornare a casa, viene timidamente avvicinato da  due donne con problematiche diverse, ma vittime dello stesso atteggiamento intransigente dei loro compagni. Vahid Jalilvand, pur attraverso un espediente narrativo a prima vista artificioso, propone un’opera vitale e coraggiosa e si mantiene felicemente in equilibrio tra la critica all’inadeguatezza delle istituzioni incapaci di provvedere ai bisogni della popolazione e votate piuttosto alla repressione, l’illustrazione del peso delle tradizioni e dell’ideologia e l’empatia nei confronti dello spirito altruista di solidarietà umana. La struttura narrativa risulta scorrevole e mantiene intensità drammatica grazie al montaggio non meccanicistico, né pretenzioso, curato dallo stesso regista e da Sepehr Vakili. 

A Jalilvand interessano  le persone configurate dai personaggi: ne descrive accuratamente carattere, scelte e azioni e non ricerca né la catarsi né la facile deriva didascalica e buonista. Saeed Roostaee, con Abad va yek rooz (Life and a Day) (2016), ha offerto un incisivo ritratto melodrammatico di un contesto familiare disfunzionale. La protagonista, Somayeh (Parinaz Izadyar), quasi trentenne,  si dedica con impegno a tenere unita la famiglia, rinunciando a una prospettiva di realizzazione personale. Deve  accudire la madre anziana e malata e, con la sola collaborazione del fratello minore adolescente, intelligente e perspicace, deve mediare l’aspro e insanabile contrasto tra Morteza (Payman Maadi), il fratello maggiore, piccolo commerciante in difficoltà ed ex tossicodipendente, e Mohsen (Navid Mohammadzadeh), l’altro fratello, tossicodipendente incallito e spacciatore che ricatta sentimentalmente tutti i suoi congiunti.  La messa in scena realistica, quasi in presa diretta, è giocata su dialoghi incalzanti e molto efficaci. Saeed Roostaee mostra, senza retorica didascalica, sia un’intimità familiare di sentimenti conflittuali e di continua tensione sia, soprattutto, una condizione di abnegazione  femminile sottoposta all’autorità di maschi insicuri e irresponsabili.

Varoonegi (Inversion)

"Varoonegi (Inversion) "(2016) Behnam Behzadi,

 

E deve essere anche citato il quarantenne Behnam Behzadi, che, con il suo quarto lungometraggio, Varoonegi (Inversion) (2016), ha proposto un eccellente dramma familiare che evidenzia la sottomissione richiesta alle donne sole in Iran, anche in un contesto di classe media borghese. Al centro della vicenda vi è la trentenne Niloofar (Sahar Dowlatshahi), una donna attraente e dinamica, dolce, ma determinata, che gestisce da anni, con competenza, massima dedizione e profitto, il laboratorio tessile di famiglia. Essendo nubile, vive con la madre ultrasettantenne, che soffre a causa di un serio enfisema polmonare. Ma deve fronteggiare Farhad (Ali Mosaffa), il fratello maggiore, autoritario e soggetto a crisi di rabbia, commerciante di abbigliamento fortemente indebitato, e Homa (Roya Javidnia) la sorella maggiore, fredda, moralista e meschina. I due sono abituati a considerarla disposta a  qualsiasi sacrificio perché, secondo loro, lei non deve badare ad una propria famiglia.

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Un giorno la donna anziana, a causa del grave inquinamento atmosferico presente costantemente a Teheran (il titolo del film si riferisce all’inversione termica, fenomeno climatico che aggrava  la polluzione dell’aria), si aggrava e viene ricoverata in rianimazione per una grave insufficienza respiratoria. Quando si riprende i medici consigliano perentoriamente che la  paziente abbandoni la città. A quel punto i familiari richiedono a Niloofar di trasferirsi con lei in provincia, nel nord, considerando questa decisione inappellabile.   Mostrano di non curarsi del fatto che questa decisione  comporterebbe alla donna di rinunciare al suo lavoro. A complicare le cose vi è poi  la circostanza che, da qualche tempo, la protagonista ha iniziato una cauta relazione con un ingegnere  edile quarantenne (Ali Reza Aghakhani), uomo gentile e suo antico innamorato, tornato in Iran dopo diversi anni trascorsi all'estero. Ma quest’ultimo, che è divorziato, non ha avuto il coraggio di comunicarle che da alcuni mesi suo figlio adolescente è tornato a vivere con lui dopo che la ex moglie si è risposata. Behnam Behzadi  descrive accuratamente, con una messa in scena emozionante e priva di qualsiasi deriva sensazionalista o didascalica, un ambiente caratterizzato da sottile ipocrisia e da un asfissiante machismo mascherato da  naturale adesione alle tradizioni. Al tempo stesso offre il ritratto credibile di una donna che, dopo un laborioso travaglio interiore, riesce a imporre, con sensibilità e intelligenza, la sua dignità e il suo potere decisionale autonomo, senza lacerare i legami familiari, in un ambiente caratterizzato da sottile ipocrisia e da un asfissiante machismo mascherato da  naturale adesione alle tradizioni rouge

 

 

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ASGHAR FARHADI

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Asghar Farhadi

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Wednesday may 9

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2003 : Danse dans la poussière (Raghs dar ghobar)

2004 : Les Enfants de Belle Ville (Shahr-e ziba)

2006 : La Fête du feu (Chaharshanbe souri)

2009 : À propos d'Elly (Darbareyé Elly)

2011 : Une séparation (Jodaeiye Nader az Simin)

2013 : Le Passé (Gozashte)

2016 : Le Client (Forushande)

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