Presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, Stoker segna l’esordio in lingua inglese, con produzione statunitense, del geniale regista coreano. È un thriller psicologico - sessuale, con elementi horror. Configura un morboso dramma familiare, una “favola gotica” di delitti e tradimenti, con al centro la “maturazione (coming-of-age)” di una giovane dark lady, amletica e vendicativa. Il titolo fa riferimento a Bram Stoker, lo scrittore autore di “Dracula”, ma il film presenta piuttosto echi del noto thriller Shadow of a Doubt (1943), di Alfred Hithcock, autore cult per Park Chan-Wook. La vicenda si svolge nel sud degli Stati Uniti e avviene in gran parte in una magnifica villa. Inizia con il funerale di Richard Stoker (Dermot Mulroney), un ricco possidente deceduto in seguito a un misterioso incidente di auto avvenuto in un altro stato. Evelyn (Nicole Kidman), la sofisticata vedova, non sembra molto turbata, mentre India (Mia Wasikowska, molto efficace), la pallida figlia diciottenne, molto legata al padre, è chiusa in un muto dolore. L’improvvisa comparsa di Charles (Matthew Goode), il fratello quarantenne del defunto, assente da anni, suscita sorpresa, anche perché, dopo le esequie, si stabilisce nella grande casa. L’uomo è un dandy quarantenne, affascinante, accattivante e sempre stranamente calmo. Racconta di aver girato il mondo per anni e inizia a corteggiare Evelyn, senza trascurare le attenzioni nei confronti di India. Un triangolo carico di tensione anche perché la vedova non nasconde la gelosia nei confronti della figlia. Poi la giovane scopre alcuni sconvolgenti segreti di famiglia. Tuttavia, da quel momento, nipote e zio sembrano mostrare affinità e peculiarità similari. Stoker è un film raffinato. La cura dei dettagli scenografici (oggetti decorativi e colori) operata personalmente dal regista, coadiuvato dalla production designer Thérèse DePrez, è estrema. Alcune immagini sono iconiche: un ragno sorpreso a camminare sulla gamba di India; i capelli di Evelyn, pettinati dalla figlia, che si trasformano negli steli dei campi di granturco mossi dal vento; gli schizzi di sangue sulle foglie e sull’erba. I close ups del cameraman Chung-hoon Chung configurano stranianti effetti pittorici. Per altro la sceneggiatura di Wentworth Miller risulta drammaticamente poco coinvolgente e troppo sovraccarica di grossolani motivi psicoanalitici freudiani: il contrasto madre - figlia; lo zio come sostituto paterno.
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Park Chan-Wook ha dichiarato di averne apprezzato la concisione dei dialoghi che gli avrebbe permesso la sua nota espressività affidata a suoni e immagini peculiari. Tuttavia ricordiamo che ci ha abituato (in particolare nella sua precedente “trilogia della vendetta”) a straordinari melodrammi crudi e malinconici, con elementi basilari: la sperimentazione dello sguardo spinto al limite in un gioco crudele e disturbante; la tensione agghiacciante; la visionarietà degli ambienti; la violenza pulp degli scontri e la ritualità delle torture; sapienti motivi grotteschi e pop; la determinazione dei personaggi; una vendetta che nasce da un insopportabile dolore. Stoker risulta privo di molti di questi ingredienti. Non presenta una suspence convincente: spesso si affida a banali espedienti sonori o indulge in uno humour nero scontato e inoffensivo.
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In effetti la messa in scena risulta troppo controllata e stilizzata e il talento visionario del regista si esprime solo nell’epilogo
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