Un crudo ritratto di un giovane skinhead incapace di sottrarsi ai pregiudizi razzisti e xenofobia.
La vicenda si svolge in un piccolo centro al confine tra la Slovacchia e la Moravia, regione della Repubblica Ceca. Marek (Adam Mihál) č un diciottenne magro, taciturno ed emotivamente passivo. Č succube sia del padre dispotico, alcolizzato e impoverito, sia di una gang locale di skinheads, rozzi, xenofobi e razzisti a cui si č unito. Il giovane mostra vero attaccamento solo nei confronti del suo temibile cane pit bull, chiamato Killer, che addestra con dedizione e cura. All’inizio del film il padre di Marek (Marián Kuruc) deve vendere il suo alloggio per poter conservare la proprietŕ della vigna, ma per concludere il contratto ha bisogno della firma della ex moglie (Irena Bendová), che ha abbandonato la famiglia 8 anni prima. Quindi impone al figlio di prendere contatto con quest’ultima che vive in una cittadina vicina. Il giovane non č entusiasta sia perché pare soffrire per essere stato lasciato sia perché tutta la famiglia la condanna senza appello. In occasione dell’incontro tra i due Marek apprende di avere un fratellastro, Lukas (Libor Filo), un bambino di etnia Roman, frutto della successiva unione di sua madre. Durante un colloquio con la donna, che avviene in un bar del paese (sulla cui porta spicca un cartello che vieta l’accesso agli zingari Roman), Marek č testimone di plateali odiosi comportamenti di rifiuto della popolazione, vecchi e giovani, nei confronti del ragazzino. Tornato insieme ai “camerati” skinheads per svolgere il solito training ginnico alla violenza, il giovane sente che l’eventuale conoscenza da parte loro della sua ”scomoda” parentela potrebbe aggravare le manifestazioni di bullismo di alcuni nei suoi confronti (uno afferma di sopportarlo solo per via del cane). Quindi, in preda al disagio, decide sconsideratamente di agire per rimuovere il suo “problema”.
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Nel suo secondo film Mira Fornay costruisce un dramma grigio, apparentemente distaccato, cercando di evitare la logica del climax e i clichés più prosaici. Il suo approccio, con un ritmo narrativo ellittico dove il protagonista va e viene iterativamente, incapace di dominare sentimenti confusi e nichilisti, ricorda gli autori della nuova cinematografia romena (rammenta parzialmente il protagonista di Aurora, di Cristi Puiu del 2010). In effetti il suo stile appare nettamente osservazionale con un registro quasi documentarista. Le sequenze in cui si combinano movimento e inazione, l’assenza di musica ad eccezione di incisi occasionali e l’uso di un cast di attori non professionisti e non attori locali contribuiscono a conferire un impressione di autenticità.
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Tuttavia il suo sguardo risulta appesantito perché la crescente tensione drammatica è risolta con un enfasi ambigua. Inoltre la caratterizzazione psicologica del protagonista Marek è maldestra. Ne risulta che anche la recitazione di Adam Mihál risulta poco convincente nel tentativo di mescolare, con scarsa spontaneità, mancanza di emozione, vittimismo vissuto e determinazione infantile.
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