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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 76. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA I Venezia 76: vince il cinema americano ... I BY GIOVANNI OTTONE I 2019

Venezia 76: vince il cinema americano, ma il cinema europeo mostra grande vitalità

Leone d’Oro a Joker, di Todd Phillipps e Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a J’accuse, di Roman Polanski

 

by Giovanni Ottone

The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov

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Alla conclusione della 76. Mostra d’Arte Cinematografica la Biennale di Venezia, svoltasi dal 28 agosto al 7 settembre, possiamo sintetizzare un giudizio lapidario: si conferma e si consolida la mutazione della natura del Festival nel senso di un evento, sempre più mondano (con sfavillanti e sempre più appariscenti sfilate di star e di personaggi del jet set sul red carpet), che, ricercando la popolarità ad ogni costo, privilegia il cinema didascalico. Lo scorso anno, commentando la clamorosa vicenda dei film targati Netflix nella selezione ufficiale del Festival e in concorso, condannata dalle associazioni di settore, ANAC, FICE e ACEC, avevamo già allargato il discorso, evidenziando la crisi della funzione della Mostra come promotore e diffusore del cinema d’autore, senza discriminazione rispetto al cinema di genere, e come comunità di fruizione “privilegiata” tra autori, pubblico, critici e industria. Ne avevamo individuato la ragione di fondo nelle scelte specifiche e nei criteri di selezione dei film del Direttore Artistica Alberto Barbera, che configurano da anni una proposta di cinema settorializzata ad arte. Lo scopo è quello di attrarre diverse categorie di appassionati e di pubblico, garantendo ad ognuna di esse prodotti in cui riconoscersi e proponendo film con temi culturali “popolari”, similari a quelli presenti in un Festival riconducibile a un grande giornale o a una grande associazione sociale o culturale, secondo una logica di ricerca, attraverso calibrati equilibrismi mediatori, di un riscontro totalizzante a livello sociale e mediatico. Il programma di Venezia 76 ha accentuato ulteriormente questa caratterizzazione attraverso la proposta di troppi film, sia smaccatamente mainstream, sia di genere, di autori consolidati o più giovani, che semplificano, in senso politicamente corretto o sensazionalista (palesando canoni culturali o ideologici comunemente accettati e popolari), temi sociali o querelles contemporanee di richiamo per un pubblico che si presume sia abituato ai miti e ai contenuti devianti diffusi attraverso i social media. Ne consegue che la Mostra appare sempre meno aperta ad alcune tendenze estetiche meno omogeneizzanti del cinema mondiale e valorizza certamente un’autorialità significativa, ma mostra evidenti chiusure o discriminazioni rispetto alla sperimentazione di ricerca e alla scoperta di nuovi linguaggi, ed è sempre più attenta ai legami con l’industria cinematografica più poderosa, in particolare con il cinema prodotto a Hollywood, promuovendone film con alta probabilità di vincere qualche Oscar. Lo testimonia la schiacciante preponderanza del cinema occidentale nella selezione ufficiale di Venezia 76: su 72 nuovi lungometraggi proposti nelle sezioni “Concorso”, “Orizzonti”, “Fuori Concorso”, “Sconfini”, e “Venezia Classici Documentari”, al di là della nazionalità dei registi, solo 13 non rappresentano la produzione europea, nordamericana o australiana: sono precisamente 5 dall’Asia, 3 dal Medio Oriente, 3 dall’Africa e 2 dall’America Latina. In aggiunta si segnala la perseveranza nell’errore da parte di Barbera, in spregio alla mission artistica storica della Mostra e in oggettivo contrasto con le norme di tutela delle sale cinematografiche contenute nella nuova legislazione per il cinema italiano, Legge n° 220 del 14 novembre 2016, recante “disciplina del cinema e dell’audiovisivo”: anche quest’anno sono stati inseriti nelle sezioni Concorso e Fuori Concorso, tre film americani, Marriage Story, The Laundromat e The King, prodotti e distribuiti da Netflix, che, come noto, non ne garantisce la successiva uscita nelle sale, dopo la proiezione in anteprima a Venezia.

Il “Concorso” di Venezia 76 ha compreso 21 lungometraggi e ha visto una rappresentanza di registi e produzioni di 4 continenti: Europa (Italia, Francia, Portogallo, Svezia e Repubblica Ceca), Nord America (Stati Uniti e Canada), Sud America (Colombia), Asia ( Cina e Hong Kong) e Oceania (Australia). Accanto ad autori notissimi, alcuni dei quali habitués del Concorso (Roman Polanski, Kore-eda Hirokazu, Roy Andersson, Olivier Assayas, Atom Egoyan, James Gray, Steven Soderbergh, Robert Guédiguian, Mario Martone, Pablo Larraín e Lou Ye), ha contato sulla presenza di alcuni registi trentenni e quarantenni, con una carriera ormai consolidata o promettente (Noah Baumbach, Todd Phillips, Ciro Guerra, Pietro Marcello e Haifaa Al Mansour) e di una sola esordiente con opera prima (Shannon Murphy). Purtroppo, come già detto, si deve registrare una netta prevalenza di film didascalici: alcuni più interessanti o abbastanza riusciti (La verité, Marriage Story, e pure, in qualche modo, Joker); altri viziati da semplificazioni banalizzanti e prevedibili, da clichés buonisti o politicamente corretti o da velleità moralistiche o giustizialiste o filosofiche (Ad Astra, Gloria Mundi, A herdade, Waiting for Barbarians); altri caratterizzati da rozzi o semplificati “messaggi politici” o addirittura da pretenziose e fuorvianti riscritture di contesti e di fatti storici (Wasp Network, Martin Eden, La mafia non è più quella di una volta, The Laundromat); altri infine emotivamente ricattatori e / o inopinatamente sensazionalisti (Ema, The Painted Bird, Babyteeth). La Giuria del “Concorso” è stata presieduta dalla regista cilena cinquantaduenne Lucrecia Martel e composta dai registi Shinya Tsukamoto (Giappone), Paolo Virzì (Italia) e Mary Harrron (USA), dall’attrice Stacy Martin (UK), dal direttore della fotografia Rodrigo Prieto (Messico) e dal critico, ed ex storico Direttore del Toronto Film Festival, Piers Handling (Canada). Prima di commentare i Premi assegnati, occorre riferire un episodio inaudito che ha fortemente danneggiato la credibilità della Mostra: l’assurda sceneggiata che ha visto protagonista la cineasta cilena, Presidente della Giuria, avvenuta proprio il 28 agosto, giorno di inaugurazione del Festival. Lucrecia Martel ha atteso il momento di massima esposizione mediatica per manifestare il suo ostracismo nei confronti di J’accuse, di Roman Polanski , film in competizione, dichiarando: “Non riesco a separare l’artista dai propri lavori ….. Credo che gli aspetti più importanti di un’opera d’arte siano quelli che emergono dall’artista che vi lavora …. La presenza di Polanski in programma mi ha messo a disagio … Non parteciperò alla proiezione ufficiale del film, né alla successiva cena di gala perché rappresento molte donne che, in Argentina, sono vittime di questo tipo di abusi. Quindi non voglio dovermi alzare in piedi ed applaudirlo”. In seguito, dopo le molte polemiche suscitate da queste parole, la stessa Martel ha cercato di compiere una penosa e parziale rettifica, affermando di essere stata fraintesa, di non essere contraria alla presenza del film in concorso e di non avere pregiudizi al riguardo. Seguendo la logica demenziale e discriminatoria di Martel verrebbe da pensare che alcuni suoi possibili epigoni potrebbero giungere a chiedere di estromettere i quadri di Caravaggio dai musei, in quanto l’artista era una ben nota violenta canaglia, fuggito dopo avere assassinato un altro uomo. Dopo queste agghiaccianti dichiarazioni che configurano un giudizio di condanna morale non su un film ma su un artista, che forse vorrebbero essere in sintonia con le tendenze settarie e intransigenti di un certo neofemminismo e che rammentano le peggiori persecuzioni di governanti e politici autoritari (da Stalin, a Joseph McCarthy, a Pol Pot), Martel, dimostrando assoluta mancanza di dignità e di coerenza, non ha affatto pensato di dimettersi dalla carica di Presidente della Giuria. Ma vi è una questione parimenti grave: la Direzione della Mostra non ha ritenuto di intervenire, essendosi verificato un clamoroso caso (unico nella storia dei Festival cinematografici principali, a livello mondiale, se la memoria ci sovviene) di manifesta pretestuosità e imparzialità di giudizio che minacciava la credibilità delle decisioni della Giuria. Invece valutando il risultato della deliberazione finale dei giurati, pur non avendo alcuna prova, si può ipotizzare che la Direzione del Festival abbia caldamente consigliato alla Giuria una soluzione compromissoria che ha portato a conferire i due Premi principali ai film che hanno riscosso i maggiori consensi dei critici (J’accuse ha ottenuto il Premio della Giuria internazionale dei critici della FIPRESCI) e di gran parte del pubblico, garantendo così alla Mostra prestigio per il riconoscimento a un grande autore e rinnovate ottime relazioni con il cinema americano di Hollywood.

Anche esaminando le altre sezioni della selezione ufficiale della Mostra di quest’anno, si notano chiari segni che confermano l’impasse in cui è finita la Mostra. Mentre si è riscontrato la piacevole presenza di alcuni convincenti o eccellenti feature film e documentari presentati nella sezione “Fuori Concorso” (Adults in the Room, di Costa - Gavras, Mosul, opera prima di Matthew Michael Carnahan, The King, di David Michôd, Citizen K , di Alex Ghibley, Citizen Rosi, di Didi Gnocchi e Carolina Rosi e State Funeral, di Sergei Loznitsa), un ulteriore giudizio negativo deve essere riservato alla qualità di gran parte dei film di “Orizzonti”, l’altra sezione competitiva della selezione ufficiale, che ospita tradizionalmente registi ventenni e trentenni e diversi esordi. Accanto ad alcuni film di notevole fattura, in ragione della loro concezione, costruzione dei personaggi, messa in scena e rappresentazione di contesti sociali senza mediazioni retoriche o moralistiche (Blanco en Blanco, opera seconda del cileno Théo Court, Giants Being Lonely, opera prima dell’americano Grear Patterson e Metri Shesho Nim, opera seconda dell’iraniano Saeed Roustaee), si devono segnalare diversi film pretenziosi, prosaici e pasticciati e / o banalmente didascalici (ad esempio Sole e Nevia, esordi rispettivamente di Carlo Sironi e di Nunzia De Stefano, Mes jours de gloire, opera prima del francese Antoine de Bay e Madre, dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen). E soprattutto risulta incomprensibile la presenza di due film rozzamente grossolani e sensazionalisti: Pelikanblut, opera seconda della tedesca Katrin Gebbe, apologia mistificante dell’amore materno verso un bambino disadattato, con deriva pseudo horror e violenta e strumentale denigrazione dei servizi sociali e delle istituzioni scientifiche; Chola, quarto lungometraggio dell’indiano Sanal Kumar Sasidharan, insopportabile racconto dello stupro di un’adolescente con vendetta finale della vittima, autocompiaciuto, grottesco e violento. Per non parlare di un altro caso del tutto emblematico per sottolineare la sconcertante ricerca, da parte di Barbera, di sintonia con il popolo dei maniaci dei social media e delle mode, oltre il cinema e l’arte: la presentazione nella sezione “Sconfini”, rassegna piuttosto incomprensibile nella sua motivazione e raccogliticcia per l’eterogeneità degli autori selezionati, di Chiara Ferragni - Unposted, quinto documentario di Elisa Amoruso. Si tratta di un film infame, che celebra, senza assumere alcuna distanza critica, la tristemente celeberrima “influencer” italiana, che pare possa vantare 17 milioni di followers sui social media: 85 minuti di spot propagandistico a favore di una pseudo icona contemporanea, in cui ogni immagine, inquadratura, dichiarazione della protagonista e di numerosi amici ed “esperti”, momenti di vita pubblica e di un “privato” artefatto, sono stati chiaramente concordati e concessi dalla stessa Chiara Ferragni per accreditarne presunti meriti e virtù estetiche e caratteriali.

Il Leone d’Oro per il miglior film è stato assegnato a Joker, di Todd Phillips. È un blockbuster ad alto budget, prodotto da Warner Bros e da DC Films: un atipico thriller psicologico. Racconta le origini del noto villain, il pericoloso clown psicopatico divenuto un supercriminale. Creato da Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson, ha esordito nel 1940 nel primo numero della graphic novel pubblicata dalla DC Comics e dedicata a Batman. Il quarantottenne Todd Phillips, conosciuto finora soprattutto come autore della demenziale trilogia comica di successo The Hangover (Una notte da leoni), ha trovato l’accordo per realizzare il film con la produzione (che da tempo cercava un’idea per un film diverso da quelli dedicati ai supereroi, per poter vincere la concorrenza con i Marvel Studios), dopo aver proposto una sceneggiatura, scritta insieme a Scott Silver e ispirata alla storia a fumetti “Batman: The Killing Joke” (1988), di Alan Moore e Brian Bolland e ai film di Martin Scorsese degli anni ’70 e ’80. La vicenda si svolge nel 1981 a Gotham City, una città sporca e degradata, dove imperversano la frustrazione, il cinismo, la violenza spicciola e il crimine organizzato: una copia esatta di New York in quell’epoca, prima dell’elezione a sindaco di Rudolph Giuliani. Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), ormai quasi quarantenne, non ha mai conosciuto suo padre e vive con la madre Penny (Frances Coroy), una donna affetta da una psiconevrosi ossessiva - depressiva, che trascorre la maggior parte del tempo a letto. I due abitano in un modesto appartamento in uno squallido caseggiato popolare in un quartiere periferico che sembra il Bronx.

Arthur si guadagna da vivere esibendosi come pagliaccio per conto di una piccola agenzia di intrattenimento, contrattata per azioni di propaganda da privati, negozi, scuole e ospedali. Subisce svariati soprusi sia da parte di giovinastri, che giungono a picchiarlo, sia da parte dei colleghi pagliacci, che lo provocano e lo deridono. È un emarginato: infantile, frustrato alienato e condizionato da traumi psichici pregressi e da fobie. Spesso si rifugia in fantasie e pensieri deliranti oppure, essendo affetto da una sindrome pseudo bulbare causata da turbe neurologiche, prorompe in improvvise e sguaiate risate irrefrenabili che spaventano chi lo circonda. È seguito dai servizi assistenziali che gli forniscono psicofarmaci sedativi. Per altro Arthur sogna di diventare un attore, un divo della stand - up comedy e del cabaret. Quindi, traendo ispirazione dalle puntate di un noto talk show televisivo notturno condotto da Murray Franklin (Robert De Niro, davvero eccellente), che guarda e rivede continuamente, scrive testi comici che immagina di recitare durante lo stesso show o sul palcoscenico di un rinomato club.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Joker", Todd Phillips

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E, al colmo dell’euforia, immagina anche di iniziare una relazione con un’inquilina del caseggiato di cui si è invaghito: Sophie Dumond ( Zazie Beetz), una spigliata e attraente mulatta, single mother di un bambino. La situazione precipita quando Arthur viene licenziato dal bieco proprietario dell’agenzia, che non lo sopporta più, e si ritrova disoccupato e senza risorse. Contemporaneamente viene scaricato dall’operatrice sociale che lo segue, a causa di tagli del budget. Poi una notte, mentre sta tornando a casa in metropolitana, viene aggredito selvaggiamente da tre giovani broker strafottenti e li uccide sparando con una pistola regalatagli in precedenza da un collega di lavoro. Le telecamere hanno inquadrato uno sconosciuto clown assassino che è ricercato dalla polizia incitata da Thomas Wayne (Brett Cullen):, spregiudicato miliardario noto per le sue attività filantropiche, padre del futuro Batman e candidato a sindaco di Gotham City con un drastico programma di repressione del crimine. Successivamente Arthur apprende che sua madre gli ha sempre mentito sull’identità di suo padre e che non ha impedito agli uomini che frequentava di molestarlo durante l’infanzia. Arrabbiato ed eccitato, sviluppa un delirio megalomane e continua a uccidere, per sovvertire la condizione e il destino di reietto: gli ex colleghi che lo hanno importunato a casa; sua madre; Murray Franklin che lo ha davvero finalmente invitato a partecipare allo show televisivo soprannominandolo appunto Joker, ma che poi lo condanna quando confessa spavaldamente di essere l’autore del triplice omicidio nella metropolitana. Durante il finale incalzante e grandiosamente apocalittico, una folla di individui che indossano la maschera del clown, avendo mitizzato l’assassino della metropolitana, si scatena nella città dando vita a una truce ondata di saccheggi e di violenze: Joker è tra loro ed è stato riconosciuto come il loro leader. Todd Phillips realizza un’opera che indubbiamente reinventa, in qualche modo, il genere dei blockbuster che adattano le graphic novel con al centro supereroi, giustizieri e perversi criminali loro avversari. Propone un film originale e oscuro e rivela una vena autoriale di tutto rispetto, che può rivaleggiare, nella concezione e costruzione del personaggio e nei valori estetici, con i film della saga di Batman realizzati dai geniali Tim Burton (Batman e Batman Returns) e Christopher Nolan (la trilogia del cavaliere oscuro, Batman Begins, The Dark Knight e The Dark Knight Rises). Il merito principale della scrittura, che procede con un meccanismo di accumulo progressivo, è quello di inserire efficacemente i detour della trama anche quando si tratta dei deliri visivi di Arthur: ad esempio quando immagina una relazione sentimentale con Sophie Dumond oppure una gloriosa partecipazione allo show di Murray Franklin. Inoltre sono davvero puntuali e notevoli le molte citazioni e referenze di altri film, in primis Taxi Driver (1976) e The King of Comedy (1983), entrambi di Martin Scorsese, ma anche V for Vendetta (2005), di James McTeigue. Al contrario la caratterizzazione psicoanalitica e sociologica di Arthur / Joker, con la progressiva deriva deviante, appare in gran parte faticosa e costellata da clichés e da un eccesso didascalico di spiegazioni e di giustificazioni: la povertà, i traumi e gli abusi subiti durante l’infanzia e il ruolo dei media. E diventa davvero credibile solamente durante il lungo epilogo in cui la sua follia criminale si dispiega pienamente con massima espressività. Anche la rappresentazione delle molteplici angherie subite da Arthur, bersagliato dal destino e da una ridda di individui del tutto spietati, accentuata dalla recitazione naturalista e narcisista di Joaquim Phoenix (peraltro molto convincente in termini di presenza fisica e vocale), contribuisce ad annoiare lo spettatore più che a convincerlo. La messa in scena allucinatoria e solo a tratti magniloquente, caratterizzata da appropriate scelte di piani e inquadrature e dalla qualità della fotografia di Lawrence Sher, sfrutta pienamente le location e l’ambientazione prevalentemente notturna e condensa un finale climax ad alto tasso di emozione.

Il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria è stato attribuito a J’accuse, di Roman Polanski. Sotto le mentite soglie di un elegante period film, questa opera propone un magistrale e rigoroso film inchiesta sul lato oscuro delle istituzioni e della società nel cuore della Francia, a Parigi, alla fine del XIX secolo, negli anni di incertezza politica successivi alla umiliante sconfitta nella guerra con la Prussia. Ed è anche un thriller dell’anima che racconta la storia di un personaggio dell’establishment militare. Un uomo che, a partire dalla propria professionalità e fedeltà ai principi della verità e della giustizia, mettendo in gioco il nome, la carriera e persino la vita privata, riesce a far emergere il pantano di corruzione, ipocrisia, omertà, bieco autoritarismo e violazione delle regole costituzionali che ha determinato l’Affaire Dreyfuss: la condanna di un innocente, scelto come bersaglio ideale, dopo un’azione grossolana di falsificazione delle prove. Un enorme scandalo che ha rappresentato un vero e proprio attentato alla democrazia, ordito nel contesto del becero nazionalismo e dell’antisemitismo presente nei vertici dell’esercito e in settori del governo francese della Terza Repubblica e diffuso nell’opinione pubblica. La vicenda è nota e Polanski la ricostruisce adattando il romanzo “An Officer and a Spy”, dello scrittore inglese Robert Harris, suo amico e co-sceneggiatore del film. Pone al centro della storia il tenente colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), nuovo capo del Deuxième Bureau, l'ufficio informazioni dello Stato Maggiore, ovvero il controspionaggio. Nel 1895 Picquart è stato promosso dopo la condanna del capitano Alfred Dreyfuss (Louis Garrel), uno dei pochi ufficiali di carriera ebrei dell'esercito francese, accusato di aver trasmesso segreti militari all'Impero tedesco, degradato e condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo nell’Oceano Atlantico, al largo delle coste della Guyana francese. Pur essendone stato superiore, il colonnello non stima Dreyfuss né ne è amico, ma quando, nel 1896, scopre dossier segreti che provano le manipolazioni che ne avevano provocato la condanna e contemporaneamente individua la vera spia, il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy (Laurent Natrella), si convince dell’innocenza del capitano.

Synonymes Nadav Lapid

“J'accuse” di Roman Polanski

 

Polanski racconta dettagliatamente le indagini di Picquart e le minacce e i boicottaggi che l’ufficiale subisce quando cerca coraggiosamente di far riaprire il caso per vie gerarchiche, incontrando invano i generali dello Stato Maggiore e il ministro della Guerra. Nel 1897, dopo essere stato estromesso dal Deuxième Bureau, il colonnello, sconvolto dal verminaio che ha scoperto, effettua una mossa estrema: contatta gli amici di Dreyfuss ed Émile Zola, fornendo loro prove decisive. Viene scoperto e costretto a congedarsi, ma il 13 gennaio 1898 lo scrittore pubblica sul giornale “L’Aurore” (di proprietà del politico George Clemenceau) la famosa lettera al Presidente della Repubblica Félix Faure, intitolata “J'accuse!”. A questo punto Polanski, senza scivolare nei rituali del courtroom movie, inserisce in J’accuse una parentesi in cui, con magnifica sintesi, descrive le fasi salienti dei vari processi contro Zola e di revisione del caso, fino alla liberazione di Dreyfuss, alla concessione della grazia nel 1899, alla cancellazione della condanna nel 1903 e alla definitiva riabilitazione e al reintegro nell’esercito avvenuto solo nel 1906.

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E contemporaneamente pone sullo sfondo, in una sola sequenza, i moti di piazza inscenati dalla fazione dei colpevolisti e dedica un magnifico epilogo antiretorico a Picquart che, dopo essere stato reintegrato nell’esercito, nel 1906 divenne ministro della Guerra. Roman Polanski propone una narrazione ricca di sfumature con al centro l’atmosfera tossica che alimentò la crisi dei grandi Imperi europei che condusse alla Prima Guerra Mondiale. La scrittura evita la deriva didascalica e i clichés nella caratterizzazione dei personaggi, dei costumi e della morale dell’epoca, organizza con cura i dialoghi che risultano sempre calzanti e adeguati alle situazioni ed enfatizza con beffarda ironia i concetti di falso e di copia. E, soprattutto, recupera alcuni temi presenti in molti dei suoi film più noti e riusciti (Cul-de-sac, Repulsion, Rosemary’s Baby, The Tenant, Frantic, The Ghost Writer, D’après une histoire vrai): il complotto, l’isolamento, la minaccia e la trappola. La messa in scena gestisce, con assoluta precisione e lucidità, la tensione, l’intensità, i tempi drammatici la pressione psicologica e i capovolgimenti delle situazioni. Polanski cattura l’attenzione dello spettatore, senza blandirlo né ricattarlo, introducendolo, insieme a Picquart, nell’antro claustrofobico, quasi kafkiano, del vetusto, sciatto e polveroso Deuxième Bureau, e rivelando progressivamente, con abili inquadrature e senza trucchi di scena, le omissioni, gli intrighi e le motivazioni dei personaggi. Evita accuratamente la staticità giustapponendo, con scrupolosa esattezza e senza far notare le cesure, i rituali d’ufficio, le scene mondane, le relazioni private, un magnifico duello, le conversazioni, gli incontri e le sedute processuali che coinvolgono Picquart, interpretato con grande misura e convinzione da Dujardin. Infine vi è la sapiente direzione di un cast di ottimi attori che comprende anche Emmanuelle Seigner, Hervé Pierre, Melvil Poupaud, Mathieu Amalric e Vincent Perez.

 

 

 

76. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA LA BIENNALE DE VENEZIA

28 / 08 - 07 / 09 / 2019, Venezia

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