interference
interference
eng
de
es
it
it
tr
 
px px px
I
I
I
I
I
I
info

px

impressum
contact
archive
facebook

 

px

 

pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 69. BERLIN FILM FESTIVAL I 69. Berlinale 2019 : Nel concorso opere di qualità diversa, ... I BY GIOVANNI OTTONE I 2019

69. Berlinale 2019 : nel concorso opere di qualità diversa, con importanti echi del disagio contemporaneo

O
rso d’Oro per il miglior film a “Synonymes”, di Nadav Lapid e Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria, a “Grace à Dieu”, di François Ozon

 

by Giovanni Ottone

The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov

px
px


La 69. Berlinale, svoltasi dal 7 al 17 febbraio, ha comprovato il fatto di essere il più importante Festival internazionale del mondo come affluenza di pubblico, con circa 340.000 ingressi nella cinquantina di sale in cui si svolgono le proiezioni  dei circa 350 film (oltre 200 premières mondiali e decine di anteprime internazionali), tra cortometraggi e lungometraggi, feature films e documentari, presentati in tutte le sezioni. Ha inoltre riconfermato  una tradizione storica di impegno e di qualità, presentando alcune opere che affrontano temi di grande attualità e di impegno civile, ma anche film che trattano in termini nuovi l’identità individuale, il disagio all’interno dei rapporti di coppia e nella famiglia e le relazioni sociali. Inoltre ha promosso diversi giovani autori esordienti di talento. Si è trattato dell’ultima edizione a cura del tedesco Dieter Kosslick, Direttore Artistico del Festival per 19 anni, a partire dal 2001: verrà sostituito dall’italiano Carlo Chatrian, già Direttore Artistico del Festival di Locarno dal 2012 al 2018. La giuria della Competizione Ufficiale, presieduta dalla nota attrice francese Juliette Binoche e composta dal regista  Sebastián Lelio, dall’attrice Sandra Hüller, dall’attrice e produttrice Trudi Styler, dal programmatore Rajendra Roy e dal critico Justin Chang, ha conferito i premi principali ad alcuni dei film più rappresentativi di precise qualità autoriali, estetiche e narrative. Invece ha purtroppo escluso dai premi due film meritevoli, secondo il nostro giudizio: Kiz kardesler (A Tale of Three Sisters), del turco Emin Alper e, Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija (God Exists, Her Name is Petrunija), della macedone Teona Strugar Mitevska.

L'Orso d'Oro è andato a Synonymes (Synonyms), terzo lungometraggio dell’israeliano Nadav Lapid. Il regista è autore di due film di buon livello: Ha - shoter (Policeman) (2011), un dramma - thriller duro e incisivo che mette a fuoco le contraddizioni della lotta al terrorismo in Israele e la crisi di identità di un soldato membro di un’unità di élite dell’esercito; Haganenet (The Kindergarten Teacher) (2014), un dramma ambizioso e inquietante che offre, con un approccio freddo e distaccato, il ritratto di una patologia comportamentale al femminile, suggerendo che sia connessa a una più ampia problematica di malessere contemporaneo in Israele.

Synonymes Nadav Lapid

“Synonymes” by Nadav Lapid

 

Synonymes, al contrario, è una commedia drammatica molto pretenziosa e supponente, giocata su paradossi bislacchi e su banali provocazioni, culturali e sessuali, a tratti davvero fastidiosa e noiosa. Racconta la parabola esistenziale di Yoav (Tom Mercier),  un ventenne ebreo, che giunge a Parigi,  fuggendo da Israele, dopo il servizio militare nelle forze speciali, e rifiutandone il nazionalismo, il modello di società e la lingua. Ê deciso a rifiutare la sua identità ebraica e israeliana e a integrarsi   nel nuovo Paese e inizia a parlare solo la lingua francese, essendo affascinato dalle parole e tormentato dai sinonimi. Entrato in contatto con due coetanei, ricchi borghesi, l’ambiguo Emile (Quentin Dolmaire), aspirante scrittore e filosofo, che lo concupisce, e la provocante e fedifraga Caroline (Louise Chevillotte), che suona l’oboe e che diventa la sua amante, Yoav si lancia in  un vagabondaggio errante nella città, costellato da una serie di rocambolesche e assurde avventure e da continui capovolgimenti. Con la contraddizione di ritrovarsi  a lavorare come addetto alla security nell’ambasciata israeliana di Parigi, a contatto con improbabili agenti segreti alle prese con l’antisemitismo endemico in Francia.

trailer Trailer

Durante questo percorso Yoav viene costantemente ostacolato e frustrato dalla burocrazia e dall’ipocrisia e deve fare i conti con il malcelato razzismo di  alcuni fra i francesi che incontra. Fino alla  sua repentina presa di coscienza di essere condannato a un limbo, avendo abbandonato Israele ed ritrovandosi escluso e marginalizzato in Francia, e alla “illuminazione”  circa la similarità di toni retorici tra i due inni nazionali, quello francese, “La Marsigliese”, e quello israeliano, “Ha Tikvah”.  Con la sottolineatura didascalica dell’immagine finale del corpo  di Yoav che sbatte contro una porta chiusa che non cede. Nadav Lapid, che in effetti vive tra Israele e la Francia, ha attinto, verosimilmente con sincerità e con rabbia ”politica”, a esperienze autobiografiche. Tuttavia propone un personaggio del tutto contraddittorio, con l’io diviso, né genuinamente tragico, né realmente farsesco, calato in un caleidoscopio frenetico, destrutturato e frammentato. Synonymes punta sul linguaggio del corpo, con fiammate slapstick e molti clichés, mette sotto accusa, in modo confuso e velleitario, l’appartenenza all’ebraismo e il machismo militarista israeliano e offre la grossolana parodia degli stereotipi parigini, con la suggestione di un improbabile triangolo amoroso che, in qualche modo, sembra la pessima imitazione  di quello di Jules e Jim (1962), di François Truffaut, trasposto nel nuovo millennio. È un’opera viscerale e spesso più criptica e ambivalente che stratificata e complessa, che oscilla tra il cinema nevrotico, concitato, e ricco di citazioni letterarie, di Andrzej Zulavski e la rappresentazione autocompiaciuta e pseudopoetica dei giovani radical chic parigini, immaturi, saccenti e “tormentati” di The dreamers (2003), di Bernardo Bertulucci, ma che sconfina anche nella mediocre eccentricità, nelle invenzioni surreali e nel disordine comico dell’ingannevole Toni Ederman (2016), di Maren Ade, e  nell’artificiosità fragile, verbosa, compulsiva, grossolana, e disonesta verso lo spettatore, di Jeune femme (2017), di Léonor Serraille.

L’Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria, è stato meritatamente  attribuito a Grace à Dieu (By the Grace of God), del francese François Ozon, uno fra i migliori film del Concorso. Si tratta di un’opera drammatica costruita con estrema meticolosità e realismo, molto  controllata e stratificata nella scrittura, nella messa in scena e nella caratterizzazione del contesto sociale e culturale e dei personaggi: un affresco corale in cui il dolore e la personalità dei singoli protagonisti  sono ben differenziati e mai omologati. Un film di ampio respiro, evocativo e didascalico nel senso migliore del termine. Non è affatto una fredda inchiesta documentaristica, evita l’atto d’accusa convenzionale e il sensazionalismo e mette a fuoco la sostanza, la fallacità e la profanazione dei valori della fede e del sacro e le sfaccettature della natura umana. Ozon ricostruisce uno scandaloso e clamoroso fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica e la Chiesa cattolica in Francia: il caso di Padre Bernard Preynat, un prete oggi settantenne che ha  compiuto abusi sessuali su almeno 70 ragazzini, chierichetti e scout, a partire dagli anni ’70.

Un  religioso protetto dal cardinale e arcivescovo Philippe Xavier Ignace Barbarin, che sovraintende  la diocesi di Lione, il quale, pur a conoscenza dei fatti  ammessi dallo stesso religioso, non l’ha mai veramente sospeso dalle funzioni e dai contatti con bambini e adolescenti. L’affaire è giunto al processo penale, con prima sentenza attesa nel corso della primavera 2019. Ozon racconta la vicenda attraverso le traiettorie di tre personaggi principali e di altri secondari, abitanti a Lione e oggi quarantenni, vittime del prete pedofilo quando erano adolescenti. Alexandre Guérn (Melvil Poupaud) è un alto funzionario di banca,  agiato e posato borghese, cattolico credente e praticante, sposato e padre di cinque figli. François Debord (Denis Ménochet) è un informatico, piccolo borghese, sanguigno e diventato ateo, mentre Emmanuel Thomassin (Swann Arlaud), il più ferito a causa degli abusi, svolge lavori occasionali e sconta una condizione economica e psicologica complicata.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

“Grâce à Dieu” by Francois Ozon

Trailer

trailer

Alexandre resta sconvolto quando scopre che Padre Bernard Preynat, che lo aveva molestato quando era un boy scout, lavora ancora con ragazzi e bambini, non essendo mai stato sanzionato né tantomeno condannato e estromesso dalla Chiesa. I ricordi a lungo rimossi riaffiorano dolorosamente. Quindi scrive all’arcivescovo Barbarin, che lo incontra e lo ascolta, ma che, nei fatti, non prende provvedimenti al riguardo. Allora Alexandre inoltra una denuncia alla magistratura, documentando in forma circostanziata i crimini di pedofilia di Padre Preynat e, nel 2016, inizia un’inchiesta della polizia. Nel frattempo François e Emmanuel,  anch’essi sconcertati dalla palese impunità di Padre Preynat, dopo essersi incontrati con altre vittime del prete, hanno costituito un’associazione e un sito, concepiti come organizzazione di auto aiuto e di denuncia, denominati “La parole libérée”.  L’associazione agita il caso, coinvolgendo infine anche Alexandre. Ozon osserva e descrive, con la giusta distanza, la vita  attuale, con contraddizioni e debolezze, i traumi del passato (attraverso diversi, forse troppi, flashback, evocativi delle molestie infantili subite, senza mai mostrarle), e  i legami familiari dei tre protagonisti, il loro processo decisionale  per uscire allo scoperto e la battaglia per dichiarare pubblicamente la verità e per denunciare il silenzio colpevole e le protezioni dei vertici ecclesiastici. Un percorso che comprende dapprima il racconto di scambi epistolari tra Alexandre e il cardinale Barbarin e poi le confessioni dolorose delle vittime e i  confronti tra loro e con i loro familiari. Ne emerge un mosaico ricchissimo, senza eccessi retorici o pietistici, di differenti carature psicologiche e culturali e di interazioni sociali. In particolare risulta sorprendente ed eccellente, in termini di conoscenza e credibilità, la descrizione delle forme e dei rituali della comunità cattolica e, soprattutto, del suo contesto più borghese, conservatore, colto, riservato e formalista di Lione, in cui  si svolge la vita della famiglia di Alexandre e dell’ovattata e ipocrita  atmosfera nel palazzo vescovile. Alcuni potrebbero essere sorpresi dal fatto che Ozon, noto per il talento, l’ironia e il sarcasmo nel raccontare storie e personaggi, con felici e fantasiosi simbolismi, gusto per la teatralità e raffinate provocazioni e soluzioni estetiche, si sia misurato per la prima volta, con estrema misura e fluidità narrativa, con un fatto di cronaca. Grace à Dieu rispetta i fatti e riesce a manifestare impegno civile, ma mette in scena soprattutto, con sottile empatia, una straordinaria disanima del dolore delle vittime, tra sguardi, parole e silenzi. Ozon costruisce una trama in chiaroscuro, caratterizzata da insicurezze e dubbi, in perfetta coerenza con il suo cinema in cui prevalgono l’ambiguità, l’ambivalenza e le complicazioni della sessualità negli adulti e negli adolescenti, le relazioni o le non relazioni tra membri reali o immaginari della famiglia e quindi la sovversione delle norme familiari e sociali. In Grace à Dieu, come in  molti tra i suoi film precedenti, Ozon insiste sull’itinerario interiore dei personaggi, che si confrontano con le difficoltà nell’affermare sé stessi, e nel combattere i propri demoni, in una società normalizzata e oggettivamente repressiva. I suoi protagonisti sono ancora una volta individui non perfetti e fragili, che si impegnano in un processo di metamorfosi, uscendo da una condizione di (auto)repressione e di passività e  proiettandosi su un nuovo percorso esistenziale.

System Crasher

“System Crasher ” by Nora Fingscheidt

 

L’Orso d’Argento, Alfred Bauer Prize “per un film che apre nuove prospettive” è stato assegnato a Systemsprenger (System Crasher), opera prima scritta e diretta dalla tedesca Nora Fingscheidt.  È  un film di mediocre fattura sia nelle intenzioni che appaiono mistificanti e strumentali, sia nella messa in scena che è francamente grossolana. Propone il ritratto, estremamente forzato e sensazionalista,  di una bambina disadattata ed estremamente violenta e autodistruttiva. Benni (Helena Zengel) ha 9 anni, è bionda con lineamenti fini, nonostante la postura da maschiaccio. Mostra una continua iperattività, è allergica a ogni regola educativa e presenta frequenti crisi esplosive di rabbia e di violenza furibonda, inaudita e incontenibile, con estrema aggressività nei confronti degli altri bambini e degli adulti, manifestando apparenti sintomi di psicosi schizofrenica. Allontanata dalla madre che è una donna fragile e incapace di gestirla, è seguita costantemente da un’équipe  che comprende un medico, una psicologa e alcuni educatori.

trailer Trailer

Nora Fingscheidt descrive  una serie di vani tentativi  di inserire Benni in diverse piccole comunità di bambini e ragazzini problematici, orfani o abbandonati.  Nel corso delle discussioni sul suo caso gli operatori parlano di ben 27 esperienze fallite di inserimento in seno a famiglie affidatarie o a strutture comunitarie assistenziali  per i minori Ogni volta Benni rifiuta di assumere i farmaci prescritti e si scontra con tutti (specie con chi osa toccare il suo volto), picchiandoli, o si procura traumi e lesioni per fuggire sempre e comunque, sottraendosi a ogni controllo e cercando, con ogni stratagemma, di tornare da sua madre che vive con un nuovo compagno e con un altri due figli minori. Anche il tentativo di un approccio”one and one” da parte di un educatore - mediatore che ottiene di effettuare un esperimento  della durata di due settimane, portandola con sé in una rustica  capanna in una foresta e abituandola a vivere a contatto con la natura, dopo qualche iniziale segno positivo, fallisce miseramente. Fino al finale tragico, costruito ad hoc per turbare e commuovere, in un’ottica didascalica. Nora Fingscheidt costruisce una vicenda “paradigmatica”, senza frapporre alcuna distanza. Inoltre si mostra molto contraddittoria. Da un lato sembra voler offrire un omaggio agli operatori dei servizi sociali dedicati ai minori, ma prospetta una situazione abbastanza inverosimile e stereotipata per chi conosce la materia. Dall’altro mostra uno sguardo condiscendente, presentando Benni come un caso paradossale di  richiesta di attenzioni, di ricerca di libertà e di personificazione di un  conflitto irrisolvibile e  di inadattabilità nei confronti di un sistema impotente e forse inadeguato, e giungendo a toni oggettivamente ricattatori nei confronti dello spettatore. Al contrario evita accuratamente e opportunisticamente di approfondire davvero le ragioni cliniche, e non, dei comportamenti di Benni, che deriverebbero da traumi infantili poco chirificati, citati in alcuni casi dagli operatori che la seguono. In aggiunta, in System Crasher  la narrazione è programmatica, prevedibile e ripetitiva e la messa in scena è inefficace, nonostante l’uso compulsivo e fastidioso della telecamera a mano, con inquadrature precarie e  discutibili e accelerazioni concitate, e la colonna sonora ridondante e debordante, nel vano tentativo di  potenziare  la dinamica drammatica.

L’Orso d’Argento alla miglior regia è stato consegnato alla tedesca Angela Schanelec, che ha scritto e diretto Ich war zuhause, aber (I Was At Home, But). È un “dramma esistenziale” dai contorni indefiniti, ostico e pretenzioso: una specie di riflessione - saggio (filosofico?) sull’angoscia dell’esistenza come donna e come madre, tra momenti paradossali, oscuro malessere, silenzi, sguardi apatici e simbolismi disarmanti. Il film è ambientato a Berlino, una città che appare scialba e per nulla attraente. La protagonista è Astrid (Marn Eggert), una quarantenne con due figli, la piccola Flo (Clara Möller) e il tredicenne Phillip (Jakob Lassalle),  la quale, a due anni dalla morte del marito, non riesce a venire a capo  della  propria  vita: una donna in preda a una profonda insoddisfazione e perennemente infastidita nelle relazioni con gli altri. Lavora nel settore culturale, ma  trova difficoltà e si scontra con un regista accusandolo di non essere autentico.

 

I Was At Home, But

“I Was At Home, But” by Angela Schanelec

Trailer

trailer

Anche il suo ruolo di madre sembra essere in crisi,  quando Phillip, scomparso da una settimana nei boschi, torna a casa e riprende la  propria vita, senza dare spiegazioni, chiuso in un silenzio misterioso. Poi vi è un assurdo lungo intermezzo in cui Astrid acquista una bicicletta usata, scopre che non funziona bene e la riporta all’uomo che gliela ha venduta, senza ottenere indietro il denaro pagato, aumentando la propria amarezza. Nel frattempo nella scuola i ragazzini mettono in scena “Amleto” e sembra trasparire una suggestione: Astrid , che  mantiene una relazione con un istruttore di tennis, potrebbe prefigurare il personaggio di Gertrude, mentre Phillip potrebbe forse essere un silenzioso epigone di Amleto. Quindi  il ragazzino è ricoverato in ospedale con la diagnosi di un’infezione che ha alterato i parametri ematici e  sua madre sembra sull’orlo di un collasso nervoso. Ma nell’epilogo  Astrid, Flo e Phillip sembrano aver ritrovato un certo equilibrio e, forse, una possibile riconciliazione. La non storia procede affastellando rappresentazioni antiespressioniste di frammenti di vita, muti tableaux vivants in cui i personaggi sono uno accanto all’altro, recitano monologhi con voci monotone, ma non comunicano. E, in aggiunta, sono  intercalate ricorrenti brevi scene in cui vi sono animali, un asino, un cane e un coniglio, anch’essi statici. Il tono generale di I Was At Home, But è raggelante e la messa in scena, che forse vorrebbe essere rigorosa, appare piatta e sterilmente stilizzata, con una dinamica drammatica artificiosa, contraddittoria e impervia.

So Long, My Son Wang Xiaoshuai

“So Long, My Son ” by Wang Xiaoshuai

 

Di jiu tian chang (So Long, My Son), dell’affermato regista cinese Wang Xiaoshuai, ha ottenuto due premi: l’Orso d’Argento per la miglior interpretazione femminile, assegnato a Yong Mei, e l’Orso d’Argento per la miglior interpretazione  maschile, attribuito a Wang Jingchun.  Si tratta di un melodramma di tre ore che, con una narrazione che percorre quasi 30 anni,  dal 1986 al 2011, costellata di flashback e flashforward, innesti e inserzioni, propone l’itinerario esistenziale di due famiglie, facendo appello continuamente ai buoni sentimenti e fornendo una versione mistificante dell’epoca storica e del dolore e dell’oppressione vissuti da milioni di persone a causa delle scelte politiche e  di coercizione sociale del regime cinese. All’inizio della vicenda Liu Yaoyun (Wang Jingchun) e Wang Liyun (Yong Mei), una coppia di trentenni, lavora in una fabbrica di una cittadina del nord della Cina. Nel 1994 sono schiantati da una tragedia assurda e incomprensibile: Xing xing, il loro bambino di 8 anni, annega in un fiume mentre fa il bagno con altri ragazzini.

trailer Trailer

I due sono molto legati a un’altra  famiglia, costituita da Shen Yingming (Xu Cheng) and Li Haiyan (Ai Liya), essendo quest’ultima il supervisore di Wang Liyun in fabbrica, e dal loro bambino  Shen Hao, coetaneo di Xing xing, presente quando quest’ultimo era annegato e molto reticente rispetto all’incidente. Nei mesi successivi, quando Wang Liyun rimane nuovamente incinta, Li Haiyan, fedele alla rigida direttiva del Partito Comunista per una pianificazione familiare  basata sull’obbligo per ogni coppia sposata di avere un unico figlio, la denuncia e la obbliga ad abortire. Per superare il gravissimo trauma, Liu Yaoyun  e Wang Liyun  si trasferiscono in una città  marittima della provincia  di Fujian, nel sud del Paese, e adottano un orfano, dandogli il nome di Liu Xing (Wang Yuan). Peraltro quest’ultimo, giunto all’età di 15 anni si rivela problematico e ribelle, non studia, è assuefatto al walkman e ai videogames e infine compie un piccolo furto. Quando Liu Yaoyun lo rimprovera aspramente, il ragazzo fugge da casa. Passano molti anni e, da un lato, Liu Yaoyun  e Wang Liyun invecchiano amaramente, lavorando stancamente nel loro modesto negozio in cui riparano biciclette, mentre, dall’altro lato, Shen Yingming e Li Haiyan, si arricchiscono diventando grandi possidenti grazie alle speculazioni immobiliari (sfruttando verosimilmente i privilegi e le protezioni riservate ai membri del partito). Fino all’inverosimile e grottesco epilogo, quando Li Haiyan, tormentata dai sensi di colpa, e prossima alla morte a causa di un cancro, ottiene che Liu Yaoyun  e Wang Liyun tornino a visitarla nel luogo natio, divenuto una città moderna quasi irriconoscibile per chi è stato assente per molti anni. La donna morente chiede e ottiene il loro perdono. In aggiunta Shen Hao, divenuto brillante medico, confessa la propria responsabilità nella morte di Xing xing,  rivelando ai due ospiti di aver indotto l’amico timoroso e riluttante a spingersi nel fiume e  di non averlo soccorso mentre stava annegando, per evitare lo scherno degli altri bambini. E, quando i due anziani coniugi, ormai rassegnati, stanno per tornare nella loro città, ricevono la telefonata del figliol prodigo, Liu Xing, che comunica di essere tornato con la fidanzata per vivere con loro, aiutandoli a gestire il negozio. Wang Xiaoshuai è autore di  alcuni film significativi: Shi Qui Sui De Dan Che (Beijing bycicle) (2001), la drammatica storia del confronto tra due  adolescenti, sullo sfondo di Beijing dove i  vecchi quartieri sono minacciati dalla modernizzazione e dove le contraddizioni sociali sono diventate stridenti; Quing hong (Shanghai dreams) (2005), un malinconico melodramma di derivazione autobiografica, con una struttura narrativa classica, riguardante le  problematiche in seno ad una famiglia, trasferitasi da Shanghai ad un villaggio rurale durante la Rivoluzione Culturale, quando all’inizio degli anni ’80 si prospetta la possibilità di tornare nella metropoli; Rizao Chongqing (Chongqing Blues) (2010), un dramma - thriller in cui si evidenziano i fallimenti delle relazioni familiari e interpersonali, le ambiguità morali e i fraintendimenti sessuali, nonché i meccanismi sociali conformisti e mafiosi che, nella società cinese contemporanea, provocano disagio, dolore ed esclusione; Chuang ru zhe (Red Amnesia) (2014), un retorico melodramma - thriller psicologico, in cui  un’anziana vedova, dignitosa e ostinata, si ritrova ad essere perseguitata da vecchi colleghi,  già Guardie Rosse durante la Rivoluzione Culturale, animati da  motivazioni meschine, dogmatiche e settarie. Purtroppo nel corso degli anni il cinema di Wang Xiaoshuai, sempre coerentemente dedicato alle dinamiche familiari nel corso del tempo, a confronto con le problematiche degli ultimi 50 anni della storia della Cina, ha progressivamente accentuato le valenze didascaliche, mentre la caratterizzazione dei personaggi, e dei contesti passati e presenti in cui vivono, è diventata maggiormente stereotipata. Wang Xiaoshuai, insieme a Zhang Yuan, Lou Ye e altri, appartiene alla cosiddetta “Sesta Generazione” dei registi cinesi (quelli emersi dopo la tragedia del massacro di Piazza Tenanmen e osteggiati dal regime alla fine degli anni ’90 a causa dei contenuti sociali dei loro film), ma So Long, My Son mostra purtroppo  molti punti di contatto con Fang hua (Youth) (2017), di Feng Xiaogang, opera molto lodata dal regime, caratterizzata dalla rappresentazione melodrammatica falsa, retorica e di maniera del travaglio e delle pene d’amore degli studenti cresciuti durante la Rivoluzione Culturale e inseriti nella divisione artistica dell’esercito cinese nel 1975. So Long, My Son  ricostruisce con una certa cura il modo di vivere e i costumi dell’epoca in cui lo stato cinese e il partito erano controllati da Deng Xiaoping, caratterizzata da una cauta apertura  al mondo capitalista occidentale e dalla promozione dell’economia di mercato,  gestita dallo stato illiberale, e dei consumi, senza deflettere dallo stretto controllo sulla vita delle persone. Ma si tratta di una sapiente rappresentazione scenografica, mentre lo sguardo è distanziato e la costruzione drammatica, nonostante la ricercata composizione delle inquadrature e lo sforzo stilistico naturalista, rafforzato dalle qualità interpretative degli attori, non evidenzia con chiarezza quanto le miserie e le sofferenze private dipendessero allora, e dipendono ancora oggi, in Cina, dal contesto politico antidemocratico e persecutorio. In sostanza Wang Xiaoshuai costruisce una rievocazione del passato molto contraddittoria e didascalica e una dialettica  tra i personaggi che, dopo un lungo, contorto ed elegiaco percorso di traumi, sofferenze, amori, tradimenti, sensi di colpa, rimorsi e ravvedimenti, approda a un’ambigua riconciliazione finale in nome del perdono e della solidarietà umana, nonostante le differenze di condizione sociale e di  stili di vita che dividono le due coppie protagoniste. Si tratta indubbiamente di un film che punta a commuovere il pubblico, ma che in realtà è perfettamente consono alla politica culturale promossa da Xi Jinping, l’attuale capo supremo del regime, che rilancia i valori del confucianesimo e che giustifica l’esperienza maoista e post maoista, riducendo il grave disagio di milioni di persone a una questione di vicende sfortunate e di colpe individuali. So Long, My Son è  quindi molto meno vero e convincente sia  rispetto ai migliori film di Zhang Yimou e di Chen Kaige, realizzati fino al 1994, sia  rispetto al cinema di Jia Zang Ke che, dal 1997, racconta, con ben maggiore credibilità e qualità nella messa in scena, un Paese in cui il “progresso” calpesta la dignità della gente comune,  in cui l'arroganza e la sfacciata corruzione dei funzionari pubblici locali e dei  nuovi ricchi vessa il popolo fino all'estremo limite e in cui la perdita di valori morali nella vita delle persone comporta  conseguenze controverse e altamente drammatiche. Alla luce delle precedenti considerazioni risulta quindi sorprendente il fatto che molti critici siano rimasti ammaliati dalla ricostruzione storica e dallo “spessore umano” dei personaggi del film, arrivando a considerarlo quasi magnifico e a individuare una sensibilità narrativa simile a quella del cinema di Hou Hsiao - hsien, esprimendo un paragone che, secondo noi, è molto azzardato e fantasioso.

L’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura è andato a Maurizio Braucci, Claudio Giovannesi e Roberto Saviano per il film La paranza dei bambini, di Claudio Giovannesi. Si tratta  dell’adattamento dell’omonimo romanzo di Roberto Saviano, pubblicato nel 2016: un affresco ispirato alla realtà della nuova delinquenza giovanile napoletana, bande di adolescenti che cercano di sostituire i clan camorristici colpiti dagli arresti della polizia. È un dramma costruito come un romanzo di formazione, con un’articolazione narrativa piuttosto povera e costellata da incongruenze e paradossi, che denuncia una derivazione, senza sostanziali novità, da molti film e serial televisivi realizzati negli ultimi anni e ispirati dal precedente romanzo di Saviano, “Gomorra”, pubblicato nel 2006. La vicenda è ambientata nei quartieri proletari del centro di Napoli nel 2006. Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò e alcuni altri, sono quattordicenni e quindicenni che conoscono la strada e che vedono ogni giorno come i camorristi sfruttano la popolazione chiedendo il pizzo. Vogliono ottenere rapidamente molti soldi, comprare abiti e accessori firmati e motorini nuovi, avere accesso alla discoteche più note ed esclusive e mettersi insieme alle ragazze più belle e smorfiose.

 

La paranza dei bambini

“La paranza dei bambini” by Claudio Giovannesi

Trailer

trailer

Si fidano della loro amicizia, nata durante la prima infanzia, non temono il carcere,  pensano che l’unica possibilità loro concessa è quella di giocarsi tutto, subito e, attratti dal desiderio di potere, optano per il crimine e la sopraffazione come scelta naturale e definitiva,  pur  consci del rischio di morire. Percorrono in scooter il Rione Sanità, sono spavaldi e si fanno notare. Iniziano come piccoli spacciatori al servizio di un clan monopolista della vendita di hashish, poi su proposta di Nicola (Francesco Di Napoli), diventato il loro capetto, si alleano ai fratelli Striano, loro coetanei ed eredi impotenti e screditati di una famiglia camorrista della zona spodestata e decimata. Poco dopo si procurano una prima pistola rubandola a un metronotte e iniziano ad ammazzare i rivali del quartiere, luogotenenti incapaci di un boss camorrista precedentemente arrestato con un’operazione in grande stile durante un matrimonio. Approfittando del vuoto di potere, conquistano il controllo del territorio e si comportano da boss “buoni” e populisti decidendo di non far più pagare il pizzo ai piccoli  negozianti e ai venditori ambulanti del quartiere. Contemporaneamente avviene il salto di qualità, dopo aver ottenuto un vero arsenale di armi da fuoco pesanti da un anziano boss di un quartiere periferico, bloccato agli arresti domiciliari (Renato Carpintieri), che appalta loro alcuni suoi affari. Diventano “una paranza”, ovvero una  gruppo armato giovanile, secondo il gergo camorristico che tramuta un vocabolo usato dai pescatori per indicare quei pesci di piccole dimensioni che, accecati e al contempo attratti dalla intensa luce delle lampare, si staccano dal fondo del mare e salendo verso la superficie vengono inesorabilmente intrappolati nelle reti dei pescatori. Non può mancare la storia d’amore tra Nicola e  Letizia (Viviana Aprea), un’avvenente reginetta di bellezza, figlia di un pizzaiolo dei Quartieri Spagnoli, con vacanza romantica  sulle spiagge del Gargano. Fino ad un finale aperto e sospeso,  che lascia immaginare un destino tragico, in tono dimesso, seppure non didascalico. Claudio Giovannesi ha dimostrato la capacità di raccontare l’universo giovanile dei non garantiti, inseriti nei quartieri periferici di Roma, tra quotidianità incerta, disillusione, emarginazione e sogni di cambiamento, nei risvolti più intimi e contraddittori, al netto di certi stereotipi, ponendosi dalla parte dei personaggi per catturarne le problematiche di identità e relazionali, le scelte e le emozioni. Ne sono prova i suoi  precedenti cortometraggi e documentari e i  lungometraggi, La casa sulle nuvole (2009), Alì dagli occhi azzurri (2012) e, soprattutto, Fiore (2016), un coming - of - age film che ha il merito di contenere la tentazione  sociologica a effetto e di evitare  lo psicologismo di maniera, grazie a una significativa gestione dei tempi drammatici attraverso un intelligente lavoro di sottrazione. Al contrario nella La paranza dei bambini  lo sguardo è ambiguamente empatico, vagamente dolente e privo della giusta distanza, con scarsa qualità documentaristica e con continue cadute prosaiche a causa dei troppi stereotipi visti e stravisti sulla criminalità partenopea, persino nelle scenografie kitsch degli interni degli appartamenti dei camorristi, curate da Daniele Frabetti. E la caratterizzazione dei personaggi appare spesso di maniera e bozzettistica, a partire da una scrittura poco incisiva, con soluzioni drammatiche da commedia cinematografica giovanile o mutuate dalla classica sceneggiata napoletana e viziate da un’incongrua deriva sentimentale alla “anema e core”. Certamente si tratta di un’operazione produttiva rispettabile, con un discreto casting che mescola giovanissimi esordienti, non sempre credibili, e anziani professionisti che gigioneggiano (in primis Renato Carpentieri), impreziosita dalla fotografia di Daniele Ciprì, ma depotenziata da una messa in scena  priva di vera personalità autoriale, in cui le scene d’azione, girate con telecamera a mano, presentano  modalità artigianali, e  dal montaggio incerto di Giuseppe Trepiccione.

Out Stealing Horses

Out Stealing Horses by Hans Petter Moland

 

L’Orso d’Argento per un contributo artistico di alta qualità è stato attribuito al danese Rasmus Videbæk, direttore della fotografia di Ut og stjæle hester (Out Stealing Horses), del norvegese Hans Petter Moland. Si tratta dell’adattamento dell’omonimo romanzo di  Per Petterson, pubblicato nel 2003. È una saga familiare che si sviluppa per oltre 50 anni, dal 1948 al 1999, con una struttura narrativa complessa e disomogenea a causa dei continui flashback e flashforward. All’inizio del film, nel novembre 1999, dopo la morte della moglie, Trond Sander (Stellan Skargård), un uomo ormai sessantasettenne, deluso, amareggiato e tormentato, si è trasferito da Oslo in un piccolo villaggio nella regione orientale della Norvegia. Durante una notte  invernale conosce il proprio vicino di casa, Lars (Bjørn Flobert), un  quasi coetaneo che risulta essere un  vecchio conoscente dell’epoca della sua giovinezza. Quell’incontro spinge Trond a ricordare  l’estate del 1948, trascorsa con suo padre (Tobias Santellman), che ammirava molto e amava, in una semplice capanna tra i boschi, sulla riva di un fiume in un’area di confine  con la Svezia.

trailer Trailer

Tornano alla mente le giornate  che il sedicenne Trond (Jon Ranes) trascorreva nella foresta per localizzare le piccole mandrie di cavalli bradi, agguantarne uno e cavalcarlo e le esperienze virili e spartane, tra cui  l’abbattimento di alberi  insieme ai boscaioli, ma anche circostanze drammatiche e fatali. Da un lato un fatto tragico avvenuto anni prima, durante l’occupazione della Norvegia, che aveva costretto il padre di Trond, attivo nella resistenza, a fuggire in Svezia,  insieme ad una compagna di lotta con cui poi aveva avuto una relazione: una donna che poi si era ritrovata contesa al padre dallo stesso Trond. Dall’altro lato vi è un episodio terribile che aveva impressionato la piccola comunità: Lars, un ragazzino vicino di casa, aveva ucciso incidentalmente il proprio gemello con un colpo di fucile. La narrazione si infittisce e si aggroviglia affastellando rievocazione storica dell’epoca bellica, con le divisioni tra  partigiani della resistenza e collaborazionisti, amori, passioni, rivalità, tradimenti, sensi di colpa e tardivi pentimenti che coinvolgono più nuclei familiari, costringendo lo spettatore a uno sforzo notevole per seguire la contorta traiettoria temporale e l’evoluzione dei personaggi. Hans Petter Moland, attivo da oltre due decadi,  ha sempre privilegiato le dinamiche familiari e si è cimentato in drammi, commedie e thriller, con modalità narrative spesso efficaci. Tra i suoi film citiamo:  Aberdeen (2000); The Beautiful Country (2004); A Somewhat Gentle Man (2010); In order of disappearance (2014).  In Out Stealing Horses  riesce a malapena a dominare l’ampio respiro della vicenda, cercando di fondere romanzo di formazione e dramma crepuscolare dell’età avanzata. Indubbiamente giocano a favore sia la magnifica ambientazione nella natura di gran parte del film, con paesaggi estivi molto suggestivi, e, soprattutto, la qualità degli interpreti, in primis Stellan Skargård, largamente convincente in una recitazione per sottrazione che risulta ben adeguata per rappresentare  il disorientamento emotivo e psicologico del personaggio. Tuttavia il vero limite di Out Stealing Horses è rappresentato dalla messa in scena che appare troppo viziata da una propensione all’eccesso melodrammatico, con scene esemplari e immagini spesso eccessivamente levigate, frutto di una fotografia molto ricercata, che ostacola una convincente caratterizzazione psicologica dei personaggi.

Proponiamo quindi la critica di due lungometraggi, largamente meritevoli, esclusi dai premi. Kiz kardesler (A Tale of Three Sisters), terzo lungometraggio del turco Emin Alper, è un eccellente dramma esistenziale che propone il ritratto delle dure condizioni di vita e dei contrasti all’interno di una famiglia patriarcale che vive in un villaggio molto arretrato di pastori, con una popolazione residuale in gran parte di anziani, sperduto tra le montagne della regione nordorientale dell’Anatolia. Al centro della vicenda vi sono tre sorelle, figlie dell’anziano vedovo ?evket (Müfit Kayacan): Reyhan (Cemre Ebüzziya), Nurhan (Ece Yüksel) e Havva (Helin Kandemir), rispettivamente di 20, 16 e 13 anni. Sono accomunate dal fatto di essere state inviate in città, in tempi diversi, presso la stessa famiglia benestante dove, secondo un’antica tradizione, hanno assolto il ruolo di besleme,una figura molto particolare di domestica che si occupa anche dei bambini, ma che è considerata quasi come una figlia adottiva. Una dopo l’altra, le tre sorelle sono tornate a vivere  nella vecchia e spartana casa paterna a causa di dissidi e insofferenze maturati durante il loro lavoro in città, ma non si sentono a loro agio.

 

A tale of three sisters Emin Alper

“A Tale of Three Sisters ” by Emin Alper

Trailer

trailer

Reyhan, tornata al villaggio dopo essere rimasta incinta, era stata frettolosamente maritata a Veysel (Kayhan Açikgöz), un pastore rozzo e ignorante, che non  si è mai affezionato al figlio della donna e che si lamenta costantemente, sentendosi deriso e umiliato dagli anziani del villaggio. È  un tipo ostinato e codardo e le sue azioni impulsive  lo renderanno al tempo stesso reo,  in un tragico evento, e vittima delle conseguenze successive. Nurhan è stata rinviata al padre dopo che, spazientita, ha percosso il bambino che accudiva perché ogni notte orinava nel letto. Le tre sorelle  trovano modo di  punzecchiarsi continuamente, addossandosi colpe e mostrando piccole gelosie, ma si sentono solidali nel desiderio di andare a vivere in città appena  trascorso il rigido inverno. Nel frattempo si coalizzano per fronteggiare il padre, un uomo arcigno e illetterato, ma, in fondo, non malvagio, che ama raccontare vecchie storie in cui si mescolano realtà e magia. Poi Nurhan si ammala a causa di una probabile infezione polmonare e ottiene le attenzioni dei congiunti in un finale aperto. A Tale of Three Sisters  ripropone alcuni temi tipici del cinema di Emin Alper, in particolare quelli presenti in Tepenin ardi (Beyond the Hill (2012), il  suo film di esordio. Vi è la scelta intenzionale di costruire un’intelligente allegoria con un forte significato e con riferimenti al contesto sociale e culturale. Inoltre emerge di nuovo un  fattore sostanziale del tradizionale “senso comune” dei turchi che riguarda la paura irrazionale nei confronti dell’altro, del diverso. A Tale of Three Sisters si sostanzia in una rappresentazione credibile della condizione e della psicologia femminili e offre una lucida  disanima di un microcosmo bloccato moralmente e fortemente condizionato da pregiudizi culturali conservatori. La collocazione temporale della storia è sfumata, ma individuarla come un fairy tale è del tutto improprio e pretestuoso: si svolge in un’epoca moderna, ma non proprio contemporanea. Infatti si nota l’assenza della televisione  e dei telefoni cellulari, ma, al contrario, è significativo il fatto che una delle sorelle manifesti l’intenzione di abortire con sicura consapevolezza. La sceneggiatura dello stesso Emin Alper palesa riferimenti a ?echov e a Shakespeare (il personaggio della donna folle) e propone le problematiche reali della vita condizionata dall’ambiente e dalla gerarchia sociale, con significativi rimandi anche a un patrimonio di antiche credenze e di leggende popolari, ma senza giudizi didascalici. La narrazione è ricca di sfaccettature e accumula lentamente motivi e dettagli, con qualche spunto comico e surreale. La tensione cresce progressivamente anche grazie ad un abile gioco di inquadrature e di montaggio. I personaggi vivono  con disagio perché oppressi dalle loro contraddizioni. Sentimenti e valori si confrontano e si complicano, tra differenze di opinioni, illazioni e dissidi, in parte criptici, senza possibili mediazioni o sintesi. La messa in scena è caratterizzata da lunghi dialoghi, con un notevole gioco interpretativo degli attori: conversazioni che si svolgono prevalentemente in interni, animando splendidi tableaux vivants. Si notano similarità,  nei toni, nell’uso dei dialoghi e nelle scelte di regia, con i due ultimi film realizzati da Nuri Bilge Ceylan, Winter Sleep (2014) e The Wild Pear Tree (2018). Visivamente è un’opera affascinante. Offre una composizione magistrale delle immagini, inquadrature fisse negli huis clos, con un abile gioco campo - controcampo, sapienti piani sequenza e saltuarie panoramiche widescreen del paesaggio.

God Exists, Her Name is Petrunija

God Exists, Her Name is Petrunija by Teona Strugar Mitevska

 

Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija (God Exists, Her Name is Petrunija), della macedone Teona Strugar Mitevska, è una brillante, e parzialmente riuscita, commedia drammatica. Propone il ritratto di una antieroina che, casualmente, dopo aver compiuto un  gesto “provocatorio”, si ritrova al centro dell’attenzione di tutti, avendo sfidato le tradizioni della chiesa ortodossa e il predominio del machismo a livello sociale. La vicenda si svolge a Stip, una piccola cittadina macedone. Petrunija (Zorica Nusheva, molto brava) ha 32 anni, è corpulenta e sovrappeso, vivace e intelligente. È laureata in storia, con una tesi sulla rivoluzione cinese, disoccupata, priva di un marito e neppure fidanzata. La donna vive ancora con i genitori,  Vaska (Violeta Shapkovska)  e Stojan (Petar Mircevski), oppressi come molti dalle ristrettezze economiche, ed è continuamente vessata da sua madre affinché trovi un’occupazione. Tuttavia, ogni volta che si presenta a un colloquio per un posto di lavoro subisce umiliazioni o avances indecenti dal capetto di turno.

trailer Trailer

Quindi si sente frustrata e cerca di reagire indossando capi di vestiario stravaganti o anticonformisti,  imprestati dall a sua unica vera amica che gestisce un negozietto. Ogni anno, anche a Stip, in occasione dell’Epifania, che cade il 19 gennaio secondo il calendario religioso della chiesa ortodossa,  avviene la cerimonia della “Venerazione della Croce”. Il rito  si svolge con una processione al cui termine vi è il lancio di un crocifisso ligneo di piccole dimensioni (il braccio più lungo misura circa 40 centimetri), da parte del sacerdote, in un corso d’acqua. Immediatamente dopo i fedeli maschi fanno a gara tuffandosi per recuperarlo e colui che lo riporta a riva ottiene una benedizione speciale. Dunque la chiesa santifica un’esibizione prosaica di forza e di virilità, la sfida a resistere nelle acque  gelate, che  è considerata una prova di fede. Proprio quel giorno Petrunija si ritrova in mezzo alla folla sulle rive del fiume, mentre centinaia di uomini di diversa età attendono di tuffarsi. Nel momento fatidico, spinta improvvisamente da un irresistibile e inspiegabile istinto di rivalsa, si immerge nelle acque insieme ai maschi, completamente vestita, e riesce ad afferrare la croce. Ne segue un  parapiglia e un gruppo di uomini esagitati, grida con rabbia che si tratta di una profanazione e cerca di strappare il crocifisso dalle mani di Petrunija. La donna, agguantata e protetta dai  gendarmi, viene condotta nei locali della stazione di polizia, in attesa che “le autorità” prendano una decisione. Nelle successive  36 ore  avviene un lungo e controverso confronto.. Petrunija non spiega compiutamente il suo atto, il commissario la detiene senza una chiara imputazione e il pope Kosta (Suad Begovski) non sa come comportarsi. I poliziotti e il pope vorrebbero che Petrunija, restituisse il crocefisso, ma la donna rifiuta, in attesa dell’arrivo del magistrato che deve interrogarla. Nel frattempo i facinorosi tentano un assalto senza esito e Slavica Janeva (Labina Mitevska), un’ambiziosa, e abbastanza grottesca, reporter di una rete televisiva di Skopje, accompagnata da un cameraman, copre l’evento. Dopo aver visto il reportage televisivo, giunge persino Vaska che  accusa la figlia, definendola un mostro, per avere offeso la tradizione. Teona Strugar Mitevsk, attiva da quasi due decadi, ha proposto, con intelligenza, numerosi ritratti femminili, correlando  itinerari esistenziali ed emotivi con le contraddizioni sociali e politiche del suo Paese, in cui, dopo la caduta del regime comunista e la  dissoluzione della Iugoslavia, sopravvivere e opporsi ai nuovi ricchi e ai mafiosi  è diventata una  sfida molto ardua. Ne sono testimonianza i suoi film, in cui si mescolano toni drammatici e comici: Kako ubiv svetec (How I Killed a Saint) (2004), il promettente esordio; Jas sum od Titov Veles (I Am From Titov Veles ) (2007), il più riuscito e maturo; The Woman Who Brushed Off Her Tears (2012); When the Day Had No Name (2017). God Exists, Her Name is Petrunija potrebbe sembrare semplicemente  un’opera a tesi,  caratterizzato da un’ottica femminista e volto a condannare e a mettere alla berlina l’ipocrisia e la misoginia della chiesa ortodossa e le regole discriminatorie di una società ancora patriarcale, lontana dalla cultura urbana più moderna che si è affermata anche nell’area balcanica. Tuttavia Teona Strugar Mitevska riesce, almeno nella prima parte del film, in cui presenta la protagonista con molta originalità, a contemperare pienamente toni satirici, sfumature psicologiche e spunti drammatici. Al contrario nel corso della seconda parte, quando deve approfondire le questioni in campo, la regista non riesce a essere del tutto efficace, perdendosi spesso tra dialoghi declamatori, ripetizioni, facili metafore e toni bozzettistici. Purtroppo non evita qualche eccesso prosaico, aggravato da un uso nervoso, e in parte fastidioso, della telecamera a mano, anche se, fortunatamente, si dimostra ben lontana dall’ambigua deriva artificiosa, con prevalenti toni di pochade, che caratterizza da molti anni il cinema di Emir Kusturica, per nasconderne la natura qualunquista e mistificante. In sostanza si nota  un calo di tensione narrativa e  la non volontà di imprimere una svolta radicale e “cinica” alla vicenda. Teona Strugar Mitevska opta infine per un epilogo  pasticciato e consolatorio, in cui ”le autorità” evitano qualsiasi atto persecutorio nei confronti di Petrunija, la folla minacciosa si ritira e lei esce dal posto di polizia, rinfrancata dalla simpatia che le ha dimostrato Darko (Stefan Vujisi?), un giovane poliziotto, rinunciando a diventare un simbolo di rivolta femminista.

Riserviamo infine  un commento ai restanti film in concorso, di diverso genere e di qualità differente. Öndög, del cinese Wang Quan’an, dopo una secca ed efficace introduzione di genere thriller, costruisce un ritratto femminile, sospeso tra approccio  documentaristico e spunti intimi e poetici, ricco di suggestioni culturali, ma, purtroppo, abbastanza artificioso. La vicenda si svolge nella Mongolia interna, durante l’estate. Il ritrovamento da parte della polizia del corpo nudo di una sconosciuta assassinata in una zona sperduta della steppa determina la necessità di lasciare un inesperto poliziotto diciottenne (Norovsambuu Batmunkh) a  sorvegliare il cadavere e la scena del delitto durante la notte, in attesa di poter predisporre i rilievi di legge. Il commissario ottiene che una donna nomade trentenne (Dulamjav Enkhtaivan), che cavalca un cammello, sa sparare con il fucile e si occupa di un gregge di pecore e montoni, accetti di trascorrere la notte con l’agente per aiutarlo a difendersi dai lupi. I due simpatizzano e, poco a poco,  con la complicità dell’alcool, la donna seduce l’occasionale compagno.

 

Ondog

“Öndög ” by Wang Quan

Trailer

trailer

Poi il giorno dopo  la donna torna alle proprie faccende. Da quel momento, nonostante plurime microstorie si intersechino, si osserva essenzialmente la quotidianità della donna che vive in una yurta e che riceve spesso l’aiuto di un altro pastore (Aorigeletu),  con cui ha una relazione libera, senza impegno a convivere. Il nomignolo della donna è “dinosauro” e pare che “ Öndög” nella narrazione popolare mongola significhi “l’uovo del dinosauro”, simbolo di fertilità. Wang Quan’an ripropone il contesto e le atmosfere del suo film più noto Tuya de hunshi (Tuya’s Marriage) (2007), un’opera magistralmente sospesa tra approccio documentaristico e melodramma, attenta alle modalità culturali e comportamentali e pervasa da uno humour gentile, un potente ritratto femminile in cui convivono volontà di ragionevole responsabilità, genuini slanci di amore e di desiderio e determinazione nel tentativo di raggiungere la felicità, senza sacrificare il proprio universo affettivo. Come in quel film, anche in Öndög, vi è il contrasto tra la cultura tribale, nutrita da un patrimonio di leggende, e i bizzarri segni della modernità, antenne satellitari, cellulari e stick per il test di gravidanza. Parimenti il paesaggio assume un ruolo essenziale, una presenza costante che si caratterizza  con cieli tersi immensi e grandi spazi aperti e ventosi in cui i riti e i gesti quotidiani degli esseri umani, che ne sono quasi inghiottiti, si ripetono. Tuttavia il personaggio della protagonista, donna indipendente e determinata, che rivendica il proprio diritto al piacere sessuale con parole da femminista occidentale, non convince pienamente. La messa in scena è molto ricercata, e a tratti manierista e compiaciuta, con un’ipnotica dilatazione e lentezza narrativa, tra pause e  divagazioni, e con una combinazione suggestiva di long shot, close up e ardite traiettorie nelle inquadrature, avvalorata dalla  magnifica fotografia curata da Aymerick Pilarski. E gli attori non professionali del cast appaiono molto credibili,  nonostante la scarsità di dialoghi.

The Golden Glove

The Golden Glove by Fatih Akin

 

Der Goldene Handschuh (The Golden Glove), del tedesco, di origini turche, Fatih Akin, era lo scandalo atteso del Festival. Si tratta di  un period film basato sull’omonimo romanzo inchiesta di Heinz Strunk, pubblicato nel 2016. Ricostruisce un terribile episodio di cronaca nera: l’itinerario criminale atroce di un serial killer ad Amburgo, nel quartiere a luci rosse di St. Pauli, durante i primi anni ’70. È un horror splatter ipergrottesco, che rappresenta, senza alcuna distanza, mediazioni o filtri, e ignorando ogni limite etico ed estetico nel mostrabile, il male assoluto, ottuso ed  efferato. Fritz Honka (Jonas Dassler, invecchiato e deformato dal pesante trucco e da una vistosa protesi nasale), un trentenne tarchiato, fisicamente sgraziato e respingente, rozzo, sgarbato e alcolista, lavora come manovale in una fabbrichetta e vive in una sordida soffitta, tra scarti di cibo, innumerevoli bottiglie di alcolici, mucchi di mozziconi di sigarette, spazzatura varia, topi, una ridicola collezione di bamboline di plastica e  le pareti tappezzate da  pagine di riviste pornografiche con foto di donne nude. Tra l’altro è razzista: odia una famiglia di greci che alloggia al pianterreno dello scalcinato condominio in cui abita.

trailer Trailer

Nel prologo Honka uccide selvaggiamente  una prostituta  quarantenne, ne smembra il corpo usando una sega e avvolge i pezzi in pacchetti, nascondendone alcuni in un’intercapedine di un muro dell’alloggio, sigillata con nastro adesivo,  e  ponendo gli altri in una valigia che poi trascina in strada e getta tra i rifiuti. È una scena che si ripete più volte nel corso del film, con poche varianti,  tra cui lo stupro delle vittime usando oggetti affusolati perché l’uomo sembrerebbe incapace di concludere l’atto sessuale a causa dell’alcolismo. Per il resto si assiste alle sue peregrinazioni. Vi sono gli incontri  con altri emarginati nella birreria “Zum Goldenen Handschuh”, che Honka frequenta regolarmente per agganciare altre donne sole o prostitute, cinquantenni e sessantenni, alcolizzate e miserabili, che diventano le sue compagne occasionali e poi le vittime delle sue crisi di folle violenza. Solo in un caso vi  assiste a una parziale eccezione: una poveraccia, la matura Gerda (Margarete Tiesel), diventa per un breve periodo la sua “compagna”, schiavizzata e regolarmente picchiata, essendo tollerata perché cucina bene e rassetta l’alloggio, ma alla fine viene anch’essa ammazzata. Poi vi è una parentesi in cui, dopo un periodo di ricovero in ospedale e la scelta di diventare astemio, Honka trova lavoro come guardiano notturno in un grande magazzino e fa amicizia con la donna delle pulizie e il suo consorte. Finché, dopo aver cercato di violentarla durante uno squallido festino  che si svolge in un ripostiglio, i due lo respingono. Quindi Honka ricomincia la sua delirante e sordida routine di ubriacature, violenze e omicidi (dagli accertamenti successivi al suo arresto le donne uccise sarebbero quattro). Nel frattempo  è tormentato da un’ossessione: fantastica una impossibile storia d’amore e di sesso boccaccesco con Petra (Greta Sophie Schmidt), una studentessa bionda dai tratti angelici che ha notato mentre passeggiava nelle strade del quartiere con il suo ragazzo. Fino allo scontato epilogo. Più che provocatorio, The Golden Glove risulta noioso e molto pretenzioso. L’intenzione di Fatik Akin è presumibilmente quella di offrire uno studio antropologico del caso, secondo una prospettiva di totale squallore umano, ma non glamour, né, nonostante le apparenze, compiaciuta. Tuttavia il mix di elementi macabri estremi, corpi fatti a pezzi, sangue, vomito e altri fluidi di ogni genere e di estetica kitsch, barocca e, a tratti, neogotica, determina una spettacolarità sterile di immagini laide e omologate. L’ottica è quella politicamente scorretta della rappresentazione senza veli, e in parte ambiguamente condiscendente, di un maschio reietto, misogino e maniaco sessuale,  che picchia selvaggiamente, stupra, uccide e squarta povere donne e, anche, di un universo femminile sgradevole, vizioso e sottomesso. Un altro aspetto negativo è costituito dalla velleità di offrire, insieme alla rappresentazione del mostro, la descrizione di un mondo sottoproletario di spostati, ex marinai, alcolisti, prostitute, magnaccia e scommettitori falliti, tutti brutti, sporchi e cattivi, che animano gli squallidi bar, come appunto il “Zum Goldenen Handschuh”, e i bordelli di St. Pauli, come esempio sociologico. Costituirebbero l’altra faccia, marginale e dimenticata, oscura ed abietta, del Wirtschaftswunder, il miracolo economico  tedesco in atto dalla fine degli anni ’50. In realtà l’operazione è fallimentare perché questo microcosmo ossessivo  appare come un semplice panno di fondo “teatrale” e prosaico, pur attentamente curato in termini di scenografie, costumi e canzoni d’epoca, ma mai messo a confronto con  altri aspetti della società germanica. Akin propone una messa in scena di interni claustrofobici, tutta giocata sull’iperrealismo e sul naturalismo, sulla  sciatteria ripetitiva e sugli eccessi, tra color vividi, corpi sfatti e deformati, scene di sesso turpi e concitate e omicidi con successivo scempio di cadaveri, senza alcuno spessore psicologico, ma con grossolane intersezioni oniriche esteticamente deformate. Vorrebbe ispirarsi ai maestri dell’espressionismo cinematografico tedesco degli anni ’30 e al cinema di Rainer Fassbinder, ma, purtroppo, The Golden Glove è ben lontano sia dalla dimensione sociale ed estetica dei capolavori espressionisti, narrativamente frammentati, esasperati, fantasiosi, antinaturalistici e con una perfetta stilizzazione delle scene e delle inquadrature (Il gabinetto del dottor Caligari, La bambola di carne, Destino, Nosferatu il vampiro, Il dottor Mabuse e molti altri), sia dai realistici melodrammi, esteticamente raffinati e magnifici, di Fassbinder,  in cui l’analisi e la descrizione spietata e “fisica” dei rapporti d’amore e delle passioni  si fonde con la  disincantata e provocatoria rappresentazione delle contraddizioni sociali in precisi contesti della storia della Germania  tra ‘800 e anni ’80. Invece, forse può essere avanzato un confronto tra The Golden Glove e The House That Jack Built (2018), del danese Lars von Trier, un horror, con pretese  di metafora filosofica, costruito anch’esso come elegia nerissima del male assoluto. È il racconto delle imprese di Jack, un quarantenne, efferato e nichilista serial killer di donne, affascinato dalla matematica e dall’architettura, che trasforma i prodotti delle sue gesta, condite da eccessi narcisistici di violenza, in presunte macabre messe in scena artistiche. Entrambi i film sono iperrealistici, zeppi di particolari orridi e sadici, e  francamente noiosi, ma Lars von Trier è maggiormente disonesto nei confronti del pubblico, che viene morbosamente ricattatomediante una rappresentazione escatologica, estremamente grossolana, pretestuosa e manierista, che è la mostruosa estensione dell’ego “creativo” del regista.

Mr Jones, della veterana polacca Agnieszka Holland, rappresenta l’occasione perduta di  ricostruire la storia vera della “Holodomor“ il nome, in lingua russa e ucraina, attribuito alla carestia che si abbatté sul territorio dell'Ucraina dal 1932 al 1933 a causa della politica errata e criminale di collettivizzazione forzata delle terre  imposta da Stalin in URSS, con il risultato di depredare le scarse derrate agricole dell’Ucraina inviandole a Mosca, a Leningrado e  nei nascenti complessi industriali per garantire la sopravvivenza della popolazione  urbana e  l’industrializzazione del regime. Agnieszka Holland propone la biografia parziale di un testimone indipendente della immane tragedia avvenuta in Ucraina. Nel marzo 1933 Gareth Jones (James Norton), un ambizioso reporter gallese di 28 anni, noto per aver incontrato Adolf Hitler, sfruttando un precedente legame con il Primo Ministro britannico David Lloyd George (Kenneth Cranham), informato da un collega della situazione in Ucraina, compie un viaggio a Mosca dove incontra Walter Duranty, giornalista britannico inviato del New York Times in URSS e fresco vincitore del Premio Pulitzer per i suoi reportage a favore di Stalin e della informazione censurata del regime.

 

Mr Jones

“Mr Jones ” by Agnieszka Holland

Trailer

trailer

Jones viene ammesso alle feste debosciate di Duranty e dei suoi amici, giornalisti e artisti, presentate come baccanali a base di sesso e morfina (in un clima che ricorda più Berlino durante la Repubblica di Weimar anziché Mosca durante gli anni ’30), ma non si lascia corrompere. Quindi riesce a eludere la sorveglianza servizio segreto russo e, in modo rocambolesco,riesce a raggiungere in treno l’Ucraina. Percorrendo in inverno le campagne desolate è testimone di una tragedia occultata e negata da Stalin: una terribile carestia (che, secondo vari ricercatori, ha causato 3 o 4 milioni di morti), con estrema disperazione e orrore, cadaveri abbandonati e persino casi di cannibalismo. Dopo una decina di giorni viene arrestato ed espulso dall’URSS. Tornato a Londra a fine marzo, Jones pubblica articoli su vari giornali, tra cui “The Manchester Guardian” e “New York Evening Post”, raccontando la verità. Prontamente smentito dagli altri corrispondenti occidentali rimasti a Mosca, tra cui Walter Duranty, e scaricato anche da David Lloyd Georg, Jones è costretto a tornare nella casa paterna in Galles apparentemente sconfitto. Nel frattempo ottiene l’appoggio di George Orwell (Joseph Mawle) che condivide le sue tesi sull’URSS, traendone ispirazione per scrivere “Animal Farm”,  il suo capolavoro allegorico, di valore universale, ma inequivocabilmente antistalinista, pubblicato solo nel 1945. Ma poche settimane dopo  riesce a convincere il magnate americano e potente editore di giornali William Randolph Hearst e  risponde alle accuse con un vigoroso articolo pubblicato in maggio sul New York Times in cui dimostra la veridicità dei fatti e delle sue fonti. Dai titoli di coda  di Mr Jones si apprende che Jones, bandito per sempre dall’URSS, fu ucciso con la complicità dell’NKVD, il servizio segreto di Stalin, nel 1935, mentre effettuava un reportage nella Mongolia interna. Agnieszka Holland realizza un period film altamente drammatico, reso come un affresco elegante con una narrazione tradizionale, una ricostruzione dei fatti  discutibile e politicamente semplificata e grossolana e una caratterizzazione dei personaggi troppo superficiale e di maniera. Opta per uno stile calligrafico (come in molti dei suoi precedenti film, ad esempio Europa, Europa, Total Eclipse, The Third Miracle, Julie Walking Home) e la messa in scena, largamente inefficace, insiste sugli elementi romanzeschi e pone in primo piano una scenografia pomposa con non pochi aspetti grotteschi e con la fotografia patinata, curata da Tomasz Naumiuk, smagliante quando riprende l’Inghilterra del secolo scorso e gli edifici e gli interni di quella che dovrebbe essere Mosca in quell’epoca, mentre è cromaticamente desaturata durante le scene che si svolgono nelle campagne innevate dell’Ucraina.

Yardie

Répertoire des villes disparues by Denis Côté

 

Répertoire des villes disparues, del canadese Denis Côté, è un dramma corale centrato sulle relazioni interpersonali  e affettive all’interno di una piccola comunità, tra piccole incomprensioni, banali contrasti, qualche mistero e un’apparente solidarietà collettiva. Ma poi  viene introdotta una svolta inconsueta che utilizza certi stilemi dei generi ghost stories e zombies movies per problematizzare il profilo psicologico dei personaggi e per raccontarne il dolore e la nostalgia per i propri cari scomparsi. Iréné -les-Neiges è un  piccolo villaggio  del Québec con una popolazione di appena 215 abitanti. La tranquilla e abitudinaria esistenza  della comunità è profondamente turbata dalla tragica scomparsa del giovane Simon Dubé,  deceduto recentemente a causa di un incidente automobilistico. Ma qualcuno pensa che si sia suicidato, andando fuori strada volontariamente.  Peraltro nessuno vuole parlare dei particolari dell’incidente. Per i genitori di Simon, Romuald (Jean -Michel Anctil)e Gisèle (Josée Duschênes), e per  suo fratello  Jimmy (Robert Naylor) il dolore è quasi insostenibile e l’elaborazione del lutto è  molto difficile.

trailer Trailer

Sembra che, poco a poco,  la loro depressione abbia contagiato anche gli altri abitanti, alcuni dei quali vivono crisi di panico. Il tempo durante le gelide giornate invernali si dilata.  Poi misteriose persone silenziose iniziano ad apparire  nella nebbia e si installano in alcune case disabitate. Qualcuno tra gli abitanti riconosce tra loro alcuni individui morti nel passato. Denis Côté aveva convinto con il suo precedente Vic + Flo ont vu un ours (2013), una commedia bizzarra, curiosa, maliziosamente ironica e sfasata, centrata su relazioni interpersonali complesse, tra sesso e amore, affezione riconoscente e gelosia, che poi si trasforma in un tragico e “umoristico” dramma di genere hard-boiled. In sostanza una favola nera, spiazzante e radicale, tra iperrealismo e surrealismo fantasioso e ”geniale”, intrigante e priva di trappole narcisistiche, con corrispondenze sia con opere di Wes Anderson sia con il cinema dei fratelli Coen e non senza inclinazioni verso le provocazioni di genere di Quentin Tarantino. Purtroppo Répertoire des villes disparues è invece un’opera con alcune suggestioni, ma indefinita e irrisolta, tra l’iniziale minimalismo e la svolta caratterizzata dall’ utilizzo, in parte maldestro, di canoni di genere. La comparsa  dei fantasmi, presenze mute, ma destabilizzanti e minacciose nel rivendicare una volontà di possesso esclusivo delle case e del territorio della cittadina e la loro inconciliabilità con i viventi, appare debole, contraddittoria e inopinatamente grottesca. E la metafora presente nel film appare piuttosto criptica. Denis Côté ha girato in 16 mm per accentuare  gli aspetti irreali e surreali  dell’atmosfera e ha imposto una recitazione ricca di toni stranianti. Inoltre propone una messa in scena raffinata, con interessante utilizzo del fuori campo, ma incerta e non proprio efficace per sostenere la progressiva evoluzione della storia. Anche se qualcuno ritrova alcune similitudini con il cinema di Kiyoshi Kurosawa, ci pare che Répertoire des villes disparues configuri un universo finzionale piuttosto diverso rispetto al magnifico cinema dell’autore giapponese, in termini di qualità creativa ed estetica, di preoccupazioni esistenziali e di critica al modello di vita e sociale. I film di Kiyoshi Kurosawa utilizzano i generi e le metafore in forma molto più puntuale, propongono più conturbanti dinamiche familiari, con personaggi dall’identità esistenziale e morale controversa, e sono spesso caratterizzati dalla ossessiva presenza di fantasmi  che convivono a stretto contatto con gli esseri viventi e ne condividono peripezie ed emozioni, con la fusione contraddittoria, ma molto significativa, tra mondo reale,  elementi fantastici e universo ultraterreno.

The Kindness of Strangers, della danese Lone Scherfig, propone il ritratto di una trentenne, madre di due bambini, che abbandona il marito violento. È il classico film che alterna toni drammatici e umoristici e punta sui buoni sentimenti. Offre un’immagine di maniera di New York, con personaggi apparentemente disperati, o vittime dei propri errori, o tormentati dalla solitudine, i quali ritrovano una nuova identità attraverso l’espressione dei loro migliori sentimenti di solidarietà umana che, miracolosamente, li uniscono e li salvano. La trentenne Clara (Zoe Kazan), madre dell’adolescente Anthony (Jack Fulton) e del piccoloJude (Finlay Wojtak - Hissong) non sopporta più  le angherie diRichard (Esben Smed), il possessivo marito poliziotto che è giunto a picchiare lei e i figli. Un mattino d’inverno esce silenziosamente di casa, sale in macchina con i bambini e fugge da Buffalo raggiungendo New York, decisa a sopravvivere anche alla condizione di homeless. Rimasta senza soldi e senza auto, rimossa perché in sosta vietata nel centro di Manhattam, incontra per caso Alice (Andrea Riseborough), una gentile infermiera che, dopo il lavoro, gestisce, in una parrocchia, una mensa per i poveri e  un gruppo di counseling per poveracci con problemi di dipendenze, sociali  e relazionali.

 

The Kindness of Strangers

“The Kindness of Strangers ” by Lone Scherfig

Trailer

trailer

La donna aiuta  Clara e i bambini  i qualisi ritrovano a condividere la sorte di altri  diseredati e dropout. Nel frattempo la situazione di complica perché Richard è giunto a New York e, appoggiato da alcuni colleghi poliziotti, cerca attivamente la moglie e i figli. Clara ha  individuato il “Winter Palace” un antico e pittoresco grande ristorante russo, di proprietà dello stravagante Timofev (Bill Nighy), erede di esuli fuggiti all’epoca della Rivoluzione bolscevica e  ogni sera si intrufola  tra i clienti e ruba cibo per sé e i bambini. Notata daMarc (Tahar Rahim),  ex detenuto che ha scontato una condanna per spaccio di stupefacenti, assunto come manager nel ristorante, ma anche frequentatore del gruppo di supporto gestito da Alice, Clara riceve infine ospitalità per sé e i figli nell’alloggio del nuovo amico che si dimostra mosso da sincera solidarietà.  Dopo vari eventi drammatici si giunge allo scontato happy ending. Lone Scherfig è una regista attiva da un trentennio, con una certa personalità autoriale, ritenuta affidabile dai produttori britannici e americani. Nei suoi film più noti e riusciti, le commedie Italian for Beginners (2000) e Wilbur Wants to Kill Himself (2002) e i drammi An Education (2009) e One Day (2011), ha proposto personaggi,soprattutto femminili, apparentemente deboli, ma determinati, che si impegnano per superare il loro ambito culturale e sociale e le difficoltà,  con lo scopo di realizzare sé stessi e i propri sogni. The Kindeness of Strangers è un dramedy, che, per certi versi, sconfina nel fairy tale romantico. È scritto e diretto da Scherfig in modo  decisamente schematico, accumulando bozzetti ed episodi anche bizzarri, seppure senza i toni melodrammatici più ruffiani e con qualche momento di felice leggerezza.  La caratterizzazione dei personaggi è piuttosto programmatica e ben poco originale  e critica, e abbondano gli stereotipi visti e rivisti: la moglie perseguitata dal marito e vittima di violenza machista, l’ex galeotto redento ferito nell’anima, l’infermiera altruista, ma infelice,  il maturo aristocratico decaduto, strambo e di buon cuore, ecc. E, purtroppo, i pochi spunti anticonformistici si perdono a favore degli aspetti più convenzionali,  in una narrazione soverchiata dalla invadente colonna sonora curata da Andrew Lockington. In sostanza Lone Scherfig si rifà formalmente ai personaggi e alle situazioni dei romanzi di Charles Dickens e, soprattutto, dei film di Frank Capra e di Garry Marshall, cercando di rivisitare nel nuovo millenniol’eterno sogno americano caro a Hollywood e rinnovando l’immagine propagandistica di New York come metropoli tutto sommato accogliente, crocevia e melting pot di individui con provenienza e cultura diverse.  In sostanza The Kindeness of Strangers, nonostante l’impegno produttivo, una confezione rispettabile e il cast internazionale di attori noti e sperimentarti, risulta troppo ottimista e politicamente corretto, artificioso e ben poco emozionante, perché abbastanza noioso e  largamente prevedibile.

The Ground Beneath My Feet

The Ground Beneath My Feet by Mary Kreutzer

 

Der boden unter der füssen (The Ground Beneath My Feet), dell’austriaca Mary Kreutzer, è un  dramma esistenziale, costruito come uno pseudo thriller psicologico.  Propone il ritratto molto pretenzioso e pasticciato di una donna in carriera, nevrotica e workaholic, la quale nasconde ai colleghi del proprio team l’esistenza di una sorella schizofrenica. La trentenne Lola (Valerie Pachner), ambiziosa e affermata  business  planner all’interno di una piccola impresa di consulenza a Rostock, conduce una vita molto stressante:all’alba e poche ore di sonno, intense sessioni di lavoro,  fino a 100 ore complessive alla settimana, frequenti viaggi, cene con i clienti  e una routine che comprende anche estenuanti sedute in palestra e il jogging quotidiano. Vive praticamente tra l’ufficio e le camere d’albergo e solo raramente torna nel proprio ordinatissimo appartamento a Vienna. È una donna che si mostra sempre elegante e inappuntabile e che controlla la propria vita personale con  la stessa ferrea determinazione ed efficienza  che usa per ottimizzare le performance lavorative. In effetti nessuno dei suoi colleghi, e nemmeno Elise (Mavie Hörbiger),il suo suadente boss, potrebbe mai immaginare che Lola  è affidataria  della propria sorella maggiore, Conny (Pia Hierzegger), da tempo  sofferente di manie di persecuzione e infine riconosciuta affetta da schizofrenia paranoica.

trailer Trailer

Lola è una donna in carriera, intelligente e cinica, non si fida di nessuno ed è sostanzialmente anaffettiva. D’altronderelazione lesbica segreta, di natura essenzialmente sessuale, che mantiene con la possessiva Elise pare essere strettamente collegata alla promessa dell’agognata promozione ricevuta dall’amante. Ma quando deve precipitarsi in  una clinica psichiatrica  dove la sorella è stata ricoverata dopo aver tentato il suicidio con i farmaci, trovandosi ad essere colpevolizzata e ricattata emotivamente da Conny, Lola inizia a trovarsi in difficoltà. Da quel momento, poco a poco, inizia a perdere l’autocontrollo e a vivere oscure fobie,  finché  non si presenta a  un incontro di lavoro decisivo, avendo confuso la data, e viene infine estromessa dal progetto che lei stessa aveva  finalizzato e a cui aveva dedicato anima e corpo. Messa alle strette da Elise, Lola  è anche costretta a rivelare l’esistenza della sorella, tenuta nascosta fino ad allora come un’onta.  Divenuta fragile,  viene infine risucchiata  da un destino che ha sempre temuto, a causa della somma del fallimento  lavorativo e del connesso abbandono da parte dell’amante - boss a cui si aggiunge lo shock per il suicidio di Conny, sfracellatasi dopo essersi gettata nel vuoto. The Ground Beneath My Feet racconta una storia basata sul tema del “doppelgänger” ovvero del doppio o sosia di una persona, inteso come alterego maligno e presagio di morte, con un abborracciato riferimento a celebri esempi del cinema di  Alfred Hitchcock. In effetti la stessa  Mary Kreutzer ha dichiarato di essersi ispirata a Marnie (1964), e forse, si può aggiungere, anche a Vertigo (1958). La narrazione è ambivalente, falsamente sensazionalista e catartica, anche perché i vari snodi della vicenda e le ambizioni e le debolezze di Lola sono costantemente mal sviluppati o indefiniti, non producendo significative suggestioni, ma accentuando invece la confusione. Mette insieme la cronaca dettagliata e “realista” delle sessioni di lavoro e delle conference calls, in cui Lola è la protagonista  di successo,con gli incontri  con la sorella Conny e con  l’amante Elise e con altre noiose e ridondanti digressioni. Inizialmente Lola è la stimata  responsabile  di un importante progetto di consulenza, mentre poi, quando cade in confusione a causa dello stress accumulato, diventa un ostacolo imbarazzante. Al tempo stesso il film mostra i progressivi slittamenti della protagonista verso la deriva allucinatoria e verosimilmente psicotica, a causa della somma del fallimento in sede lavorativa e del connesso abbandono da parte dell’amante - boss a cui si aggiunge lo shock per il suicidio di Conny. Tuttavia l’accumularsi di episodi, oscure o immaginarie telefonate e giochetti sulla ripetitività e duplicità delle situazioni, non produce alcun meccanismo affascinante e davvero beffardo e crudele, con squisite oscillazioni tra realtà e onirismo terrorizzante, come avviene nei migliori film di Polanski e in alcuni di De Palma. La narrazione, appunto, si riduce piuttosto a una caratterizzazione superficiale dei personaggi, è costellata da banali stereotipi sul disagio mentale e sugli odierni squallidi e spietati meccanismi di rivalità fra quadri ed executive all’interno delle imprese di servizi e sul mondo patinato della grande borghesia imprenditoriale e dei suoi commis e lacchés,  e si avvita su sé stessa fino a  precipitare in un inconcludente e deludente vicolo cieco.

Elisa y Marcela, della spagnola Isabel Coixet, è un melodramma che ricostruisce una storia vera:  la  tormetata e clamorosa vicenda del legame amoroso e  delle nozze tra due donne spagnole,  Elisa Sánchez Loriga e Marcela Gracia Ibeas, all’inizio del secolo scorso. Si tratta di un period film costruito come un feuilleton ottocentesco, gonfio di retorica e di messaggi moralistici, con una rappresentazione del contesto storico e culturale e dei personaggi che oscilla tra gli stilemi fasulli del  fotoromanzo in carta patinata e un’articolazione drammatica oggettivamente caricaturale al di là delle presunte intenzioni della regista. Ambientato in Galizia, inizia con l’incontro di Elisa (Natalia de Molina) e Marcela (Greta Fernández) quando sono ancora studentesse  in un istituto magistrale gestito dalle monache in un piccolo borgo rurale. Tra loro vi è subito una forte simpatia che si converte nel classico colpo di fulmine  e che, dopo alcune reticenze, le porta ad una relazione piena di romanticismo.

 

Elisa y Marcela

“Elisa y Marcela ” by Isabel Coixet

Trailer

trailer

I genitori di Marcela, specie il padre, severo e truce, non gradiscono la stretta amicizia con Elisa e la inviano in collegio a Madrid. Poi, un paio d’anni dopo, le due giovani donne si riuniscono, essendo diventate entrambe maestre  in due scuole elementari vicine e  possono finalmente abitare insieme e vivere  in segreto il loro amore (in effetti la prima scena di sesso avviene solo dopo 50’ dall’inizio del film). Tuttavia la gente del villaggio dove si sono stabilite mormora e il fatto che entrambe rifiutino le avances dei giovani locali aumenta i sospetti. Avendo capito che devono risolvere il problema, le due amanti architettano un piano.  Elisa si allontana e, una notte, Marcela cede alle insistenze di un focoso boscaiolo, rimanendo infine incinta. Dopo qualche settimana giunge in paese uno strano giovane che afferma di  chiamarsi Mario Sánchez e di essere un cugino di Elisa . In realtà è invece la stessa donna con un taglio di capelli da maschio e travestita da uomo (un’immagine ben poco credibile, mentre lo è quella della vera Elisa, in versione maschile, in una foto d’epoca). Il nuovo arrivato inizia a convivere con  Marcela che lo presenta come il proprio fidanzato. Quindi  l’8 giugno 1901 la coppia, grazia al travestimento maschile di Elisa, riesce a sposarsi con un matrimonio celebrato nella chiesa di San Jorge nella città gallega di La Coruña. Ma, poco dopo, in seguito a una denuncia con relativo mandato d’arresto, Elisa e Marcela fuggono a Porto. Arrestate dalle autorità portoghesi, grazie alla benevolenza del procuratore giudiziario, sposato con una donna cubana a cui Marcela affida la figlia neonata, riescono a evitare l’estradizione in Spagna e a partire su una nave per l’Argentina. Alla fine del film, nel 1925, la figlia di Marcela le ritrova unite: vivono in una  casa isolata sperduta nella pampa. Isabel Coixet, affermata regista catalana, attiva da oltre un trentennio  e interessata da sempre alla letteratura e alla società britannica, ha sempre privilegiato i ritratti melodrammatici femminili, come risulta dai suoi film più noti, tra cui citiamo: My Life Without Me (2003), The Secret Life of Words (2005), Map of the sounds of Tokyo (2009), Another Me (2014) e The Bookshop (2017).  Sono opere costantemente caratterizzate da uno stile e da una messa in scena molto pretenziosi e calligrafici, che puntano sugli aspetti scenografici e propongono una drammatizzazione artificiosa e spesso stucchevole. Elisa y Marcela, prodotto da Netflix e girato in un accattivante bianco e nero, con la smagliante fotografia contrastata di Isabel Cox e le scenografie pacchiane che rendono ancora meno autentico il profilo d’epoca della storia, considerata la  vera misera condizione sociale nel nord della Spagna all’inizio del ’900, conferma pienamente il carattere sterilmente manierista del cinema di Coixet. È un film viziato da una drammatizzazione ridicola, con logori stereotipi, e da una caratterizzazione dei personaggi banale e inefficace, fattori che ostacolano la convincente rappresentazione dell’itinerario emotivo delle due protagonista e di una credibile dimensione sociale della vicenda. Retorico, compiaciuto e piattamente noioso, non emoziona mai. Dispensa “belle” inquadrature, dialoghi poco credibili, molte immagini ammiccanti e scene erotiche ben poco realistiche, con “studiate” pose artistiche o “esagerazioni” pop ai limiti del grottesco, accompagnate da musiche fuori posto. In sostanza, come confermato dalle didascalie finali, l’intento di Coixet è stato quello di proporre la storia esemplare di una coppia di donne  coraggiose che ha lottato per difendere un legame amoroso forte  e il diritto alla felicità contro la morale oscurantista e reazionaria dell’epoca. Una vicenda paradigmatica che, secondo la regista, avrebbe precorso le battaglie che hanno consentito a milioni di lesbiche di ottenere in vari Paesi una legislazione che permette matrimoni tra persone dello stesso sesso. Peccato che Elisa y Marcela non sia né un vero film a tesi né un documentario, ma invece un mediocre melodramma che rappresenta l’amore lesbico secondo modalità falsamente poetiche, con risvolti boccacceschi. Inoltre non si tratta della storia di una  ribellione, ma piuttosto del tentativo da parte delle due protagoniste, di occultare il loro amore lesbico mediante la finzione di un matrimonio religioso tra un finto maschio e una femmina e allietato persino dalla nascita di una figlia, per non destare sospetti e per essere accettate senza derogare dalla morale cattolica bigotta della società dell’epoca.

 

 

 

69. BERLIN FILM FESTIVAL

7 - 17 / 02 / 2019, Berlin

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

Berlinale

link

locarno
px
Home Festival Reviews Film Reviews Festival Pearls Short Reviews Interviews Portraits Essays Archives Impressum Contact
    Film Directors Festival Pearls Short Directors           Newsletter
    Film Original Titles Festival Pearl Short Film Original Titles           FaceBook
    Film English Titles Festival Pearl Short Film English Titles           Blog
                   
                   
Interference - 18, rue Budé - 75004 Paris - France - Tel : +33 (0) 1 40 46 92 25 - +33 (0) 6 84 40 84 38 -