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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 64. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID I DI GIOVANNI OTTONE I 2019

SEMINCI di Valladolid 2019

Vince il cinema cinese e primeggiano film dal Brasile, dall’Islanda e dall’Algeria

Espiga de Oro al miglior film a Öndög, di Wang Quan’an. Espiga de Plata e premio alla miglior attrice per entrambe le protagoniste a A vida invisível de Eurídice Gusmão, del brasiliano Karim Aïnouz. Premio al miglior nuovo regista all’algerina Mouna Meddour per Papicha

DI GIOVANNI OTTONE

"Papicha", Mouna Meddour

Seminci di Valladolid

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La "63. Semana Internacional de Cine (SEMINCI) de Valladolid", svoltasi dal 19 al 26 ottobre, è il secondo Festival internazionale cinematografico più importante che si svolge annualmente in Spagna e vanta consolidati legami con autori e istituzioni cinematografiche di tutto il mondo. Anche quest’anno Il Direttore Javier Angulo e il comitato di selezione hanno presentato un programma veramente ricco e interessante, che ha rappresentato pienamente la tradizione del Festival e la sua mission di proposta di un cinema d’autore variegato e mai scontato. LA SEMINCI ha confermato la capacità di attrazione per alcuni dei migliori film e autori a livello europeo e internazionale della presente stagione e al tempo stesso un’efficiente organizzazione e il suo usuale stile serio, ricercato, e, al tempo stesso, amichevole. Quindi ha registrato ancora una volta un’ampia partecipazione di pubblico e di critici spagnoli ed europei.

La "Sezione Ufficiale" competitiva, comprendente 17 lungometraggi in concorso e 2 fuori concorso, ha incluso, tra gli altri, alcuni film di qualità già presentati anteriormente quest'anno ai Festival di Rotterdam, Berlino, Cannes, Locarno, Karlovy Vary, Venezia e Toronto. Forniamo il commento critico dei film vincitori dei Premi principali assegnati dalla Giuria, presieduta dalla regista spagnola Josefina Molina, e comprendente i registi Philippe Lesage (Canada), Dilip Metha (India); Keti Machavari (Georgia), Il produttore e fotografo Thierry Forte (Francia), la scrittrice Rosa Montero (Spagna), il Presidente del Festival de La Habana Iván Giroud (Cuba).

La Espiga de Oro al miglior film lungometraggio è stata attribuita a Öndög, settimo lungometraggio del cinese Wang Quan’an. Si tratta di un dramma esistenziale che propone un incipit secco ed efficace di genere thriller. Ma Benpresto emerge la vera intenzione del regista: offrire un ritratto femminile peculiare, sospeso tra approccio documentaristico e spunti intimi e poetici e ricco di suggestioni culturali, ma, purtroppo, abbastanza artificioso. La vicenda si svolge nella Mongolia interna, durante l’estate. Il ritrovamento da parte della polizia del corpo nudo di una sconosciuta assassinata in una zona sperduta della steppa determina la necessità di lasciare un inesperto poliziotto diciottenne (Norovsambuu Batmunkh) a sorvegliare il cadavere e la scena del delitto durante la notte, in attesa di poter predisporre i rilievi di legge. Il commissario ottiene che una donna nomade trentenne (Dulamjav Enkhtaivan), che cavalca un cammello, sa sparare con il fucile e si occupa di un gregge di pecore e montoni, accetti di trascorrere la notte con l’agente per aiutarlo a difendersi dai lupi. I due simpatizzano e, poco a poco, con la complicità dell’alcool, la donna seduce l’occasionale compagno. Poi il giorno dopo la donna torna alle proprie faccende. Da quel momento, nonostante plurime microstorie si intersechino, si osserva essenzialmente la quotidianità della donna che vive in una yurta e che riceve spesso l’aiuto di un altro pastore (Aorigeletu), con cui ha una relazione libera, senza impegno a convivere. Il nomignolo della donna è “dinosauro” e pare che “ Öndög” nella narrazione popolare mongola significhi “l’uovo del dinosauro”, simbolo di fertilità. Wang Quan’an ripropone il contesto e le atmosfere del suo film più noto Tuya de hunshi (Tuya’s Marriage) (2007), un’opera magistralmente sospesa tra approccio documentaristico e melodramma, attenta alle modalità culturali e comportamentali e pervasa da uno humour gentile, un potente ritratto femminile in cui convivono volontà di ragionevole responsabilità, genuini slanci di amore e di desiderio e determinazione nel tentativo di raggiungere la felicità, senza sacrificare il proprio universo affettivo. Come in quel film, anche in Öndög, vi è il contrasto tra la cultura tribale, nutrita da un patrimonio di leggende, e i bizzarri segni della modernità, antenne satellitari, cellulari e stick per il test di gravidanza. Parimenti il paesaggio assume un ruolo essenziale, una presenza costante che si caratterizza con cieli tersi immensi e grandi spazi aperti e ventosi in cui i riti e i gesti quotidiani degli esseri umani, che ne sono quasi inghiottiti, si ripetono. Tuttavia il personaggio della protagonista, donna indipendente e determinata, che rivendica il proprio diritto al piacere sessuale con parole da femminista occidentale, non convince pienamente. La messa in scena è molto ricercata, e a tratti manierista e compiaciuta, con un’ipnotica dilatazione e lentezza narrativa, tra pause e divagazioni, e con una combinazione suggestiva di long shot, close up e ardite traiettorie nelle inquadrature, avvalorata dalla magnifica fotografia curata da Aymerick Pilarski. E gli attori non professionali del cast appaiono molto credibili, nonostante la scarsità di dialoghi.

La Espiga de Plata è stata assegnata a A vida invisível de Eurídice Gusmão, settimo lungometraggio del brasiliano Karim Aïnouz. Allo stesso film, che adatta l’omonimo romanzo di Martha Batalha, è stato anche conferito il Premio alla miglior attrice, attribuito ad entrambe le interpreti protagoniste, Carol Duarte e Julia Stockler. È un ambizioso ed elegante melodramma, ambientato a Rio de Janeiro. Racconta le esistenze parallele di due sorelle, separate con l’inganno durante gli anni ’50. Propone il ritratto di una società con impronta patriarcale, conservatrice e classista, ma anche una rappresentazione mistificante del contesto. Le sorelle Eurídice (Carol Duarte), diciottenne, e Guida (Julia Stockler), ventenne, sono legatissime: la prima sogna di diventare pianista concertista, mentre la seconda, sessualmente esuberante, fugge con un marinaio. Dopo alcuni mesi Guida torna: è stata abbandonata dal compagno ed è incinta. Suo padre Manuel (António Fonseca), un immigrato portoghese cattolico tradizionalista che è diventato un rispettato fornaio, non la perdona e la scaccia, dopo aver mentito dicendole che sua sorella si è trasferita a Vienna. Eurídice sposa Antenor (Gregório Duvivier), il figlio del socio di suo padre, e vive un’esistenza convenzionale di moglie poco rispettata e di madre di due figli, continuando vanamente a cercare tracce della sorella. Guida vive nei bassifondi della città. È costretta ad accettare umili lavori e riesce a mantenere il suo bambino solo grazie alla solidarietà di un’anziana ex prostituta afrobrasiliana. Durante molti anni continua a scrivere lettere a Eurídice, senza sapere che i genitori non le recapiteranno mai a sua sorella. Al centro del cinema di Karim Aïnouz vi sono da sempre le tematiche delle scelte esistenziali di personaggi femminili o omosessuali maschili. Il suo film di esordio, Madame Satã (2002), e il successivo, O Céu de Suely (2006), mostrano un’efficace rappresentazione degli itinerari emotivi dei personaggi. Al contrario i suoi film più recenti, O Abismo prateado (2011) e Praia do Futuro (2014), denotano vistosi difetti di scrittura, un desolante “conformismo sentimentale” e soluzioni drammatiche prosaiche o artificiose. A vida invisível de Eurídice Gusmão propone un convincente meccanismo narrativo scandito dalle lettere di Guida che raccontano le cronache delle ardue prove che supera, senza sapere che Eurídice potrà infine leggerle solo all’età di 80 anni. Tuttavia Karim Aïnouz sceglie una missione impossibile: coniugare gli stilemi delle migliori telenovelas televisive brasiliane con uno sterile omaggio ai melodrammi di Douglas Sirk. Inoltre la descrizione della contraddizione tra “la vita invisibile” di Eurídice, che si sottomette ai valori di rispettabilità e di ipocrisia piccolo borghese, imposti dal padre e dal marito, e la vita grama, ma libera, di Guida, sostenuta dalla solidarietà interrazziale, appare troppo studiata e manichea. Purtroppo Aïnouz mette in ombra le potenzialità della dialettica emotiva tra le due protagoniste per rileggere la storia del proprio Paese in accordo con temi e miti del dibattito politico contemporaneo brasiliano.

Il Premio Pilar Miró al miglior nuovo regista è stato attribuito all’algerina Monia Meddour per la sua opera prima. Papicha. Allo stesso film è andato anche il Premio del pubblico. Si tratta di un convincente dramma esistenziale con precise connotazioni politiche.È ispirato a una storia vera avvenuta in Algeria, durante gli anni '90, tragicamente segnati dagli eccidi perpetrati dai terroristi islamisti del GIA e dagli arbitri dell’esercito e della polizia. Nedjima (Lyna Khoudri) ha 18 anni e studia nella Cité universitaria: brillante, indipendente e laica, ha molto talento come designer di moda. Crea i propri vestiti e li vende nella discoteca che frequenta con alcune amiche. Ma, giorno dopo giorno, le vessazioni dei fanatici e i massacri attuati dei terroristi jihadisti aumentano. Quando la sua amica giornalista Linda (Meryem Medjkane) viene assassinata, Nedjima decide di organizzare una sfilata di moda nella Cité. Mounia Meddouri realizza un'opera emozionante, girata benissimo: per ricordare e per sperare in un futuro di libertà.

Il Premio ‘Miguel Delibes’ alla miglior sceneggiatura è stato conferito ai veterani belgi Jean - Pierre e Luc Dardenne, che hanno scrittoe diretto Le jeune Ahmed (The young Ahmed). È un’opera che affronta lecitamente un tema di grande attualità, soprattutto in Belgio, sede di anni di tragici fenomeni di radicalizzazione jihadista di un consistente numero di appartenenti alla forte minoranza di immigrati musulmani, con conseguenti azioni di terrorismo e attentati sanguinosi. Si tratta di un coming of age film che racconta l’ostinato itinerario di un adolescente musulmano indottrinato all’estremismo il quale si propone di compiere un atto esemplare per difendere l’integrità del messaggio coranico dalle presunte azioni ostili dei cosiddetti infedeli. Costruito come un thriller, è un’opera caratterizzata da toni melodrammatici e didascalici, nonostante il dichiarato impegno dei Dardenne a essere rigorosi. Il tredicenne Ahmed (l’esordienteIdir Ben Addi) è uno studente apparentemente mite, inoffensivo e socialmente non disagiato. Il film inizia “in media res” ovvero si assiste a varie manifestazioni di fanatismo religioso intransigente e di ossessione per la “purezza” da parte di Ahmed. L’iman Yousouf (Othmane Moumen) quarantenne, islamista militante e proprietario di un negozietto di alimentari, è diventato il padre spirituale di Ahmed, e lo spinge a combattere con la violenza gli infedeli e i membri della comunità musulmana che deviano dall’interpretazione integralista del Corano. Anche se non è del tutto chiaro quando e perché sia avvenuta la recente radicalizzazione di Ahmed, appare ben presto evidente quale sia la missione che si è imposto. Per lui, il nemico da punire è Inès (Myriem Akheddiou), una sua docente trentenne di origine nordafricana che si propone di insegnare l’arabo con le comuni tecniche moderne, senza ricorrere al Corano come unico strumento per l’apprendimento linguistico, ma utilizzando persino i testi di canzoni popolari. Un giorno il ragazzo si presenta alla porta dell’appartamento di Inès e cerca di accoltellarla e di ucciderla. Le jeune Ahmed è un film molto ambizioso, ma risulta artificioso perché troppo pensato, schematico e contraddittorio. In effetti porta alle estreme conseguenze l’involuzione creativa e poetica del cinema dei fratelli Dardenne. Purtroppo, da circa una decina d’anni dimostrano di essere ormai ben lontani dai loro primi eccellenti instant movies esistenziali, La promesse (1996), Rosetta (1999), Le fils (2002), e L’enfant (2005), che sono caratterizzati da intensa fisicità e ambientazione scarna, da uno sguardo laico ed essenziale e da una narrazione “in presa diretta”, con un ritmo stringente. Successivamente Le silence de Lorna (2008) e Le gamin au vélo (2011), hanno marcato una maggiore vicinanza ai temi dell’attualità sociale e un’osservazione naturalistica più sottile dei personaggi a partire da una profonda compassione per gli stessi. Deux jours, une nuit (2014) e La fille inconnue (2016) accentuano ulteriormente la propensione al racconto morale, sconfinando nel finalismo didascalico. I Dardenne optano ormai per un approccio umanitario “cattolico” piuttosto sterile e per una suspense del tutto artificiosa. Purtroppo Le jeune Ahmed denota tutti i suoi gravi limiti già a partire dalla sceneggiatura in cui la rappresentazione del contesto appare piuttosto incerta e semplificata. Ahmed viene rappresentato con un’ambigua accondiscendenza: è un tipo pericoloso, abile nel dissimulare la scelta della violenza, ma viene presentato anche come un adolescente psicologicamente fragile e vittima de proprio narcisismo, da comprendere e aiutare. Infine l’epilogo - rivelazione pseudo catartico e grottescamente consolatorio mina fortemente la credibilità dell’intero percorso narrativo.

Il Premio al miglior attore è stato assegnato a Levan Gelbakhiani, protagonista di Da cven vicekvet (And Then We Danced), terzo lungometraggio dello svedese di origine georgiana Levan Akin. È un convincente dramma di formazione, dall'amicizia a un amore sfortunato. A Tbilisi il diciassettenne Merab Levan Gelbakhiani), di famiglia povera, è allievo dell'accademia del Balletto Nazionale Georgiano. Danza dall'età di nove anni insieme alla sua amica Mary (Ana Javakhishvili) e vuole emergere. Irakli (Bachi Valishvili), un nuovo venuto, attraente e di talento, è un concorrente. Ma poi i due fanno amicizia, escono a divertirsi di notte e alla fine diventano amanti. Finché arrivano ostacoli e disavventure. Levan Akin offre il riuscito ritratto del conflitto tra tradizione conservatrice e pulsioni trasgressive, tra fratture familiari, orgoglio, mito della mascolinità e desiderio di vivere liberamente.

Analizziamo quindi un paio di film della “Sezione Ufficiale” che mostrano una significativa qualità autoriale.

Kiz kardesler (A Tale of Three Sisters), terzo lungometraggio del quarantaquattrenne turco Emin Alper, è un eccellente dramma esistenziale. Offre il ritratto delle dure condizioni di vita e dei contrasti all’interno di una famiglia patriarcale che vive in un villaggio molto arretrato di pastori, con una popolazione residuale in gran parte di anziani, sperduto tra le montagne della regione nordorientale dell’Anatolia. Al centro della vicenda vi sono tre sorelle, figlie dell’anziano vedovo Sevket (Müfit Kayacan): Reyhan (Cemre Ebüzziya), Nurhan (Ece Yüksel) e Havva (Helin Kandemir), rispettivamente di 20, 16 e 13 anni. Sono accomunate dal fatto di essere state inviate in città, in tempi diversi, presso la stessa famiglia benestante dove, secondo un’antica tradizione, hanno assolto il ruolo di besleme, una figura molto particolare di domestica che si occupa anche dei bambini, ma che è considerata quasi come una figlia adottiva. Una dopo l’altra, le tre sorelle sono tornate a vivere nella vecchia e spartana casa paterna a causa di dissidi e insofferenze maturati durante il loro lavoro in città, ma non si sentono a loro agio. Reyhan, tornata al villaggio dopo essere rimasta incinta, era stata frettolosamente maritata a Veysel (Kayhan Açikgöz), un pastore rozzo e ignorante, che non si è mai affezionato al figlio della donna e che si lamenta costantemente, sentendosi deriso e umiliato dagli anziani del villaggio. È un tipo ostinato e codardo e le sue azioni impulsive lo renderanno al tempo stesso reo, in un tragico evento, e vittima delle conseguenze successive. Nurhan è stata rinviata al padre dopo che, spazientita, ha percosso il bambino che accudiva perché ogni notte orinava nel letto. Le tre sorelle trovano modo di punzecchiarsi continuamente, addossandosi colpe e mostrando piccole gelosie, ma si sentono solidali nel desiderio di andare a vivere in città appena trascorso il rigido inverno. Nel frattempo si coalizzano per fronteggiare il padre, un uomo arcigno e illetterato, ma, in fondo, non malvagio, che ama raccontare vecchie storie in cui si mescolano realtà e magia. Poi Nurhan si ammala a causa di una probabile infezione polmonare e ottiene le attenzioni dei congiunti nel corso di un epilogo che resta aperto. A Tale of Three Sisters ripropone alcuni temi tipici del cinema di Emin Alper, in particolare quelli presenti in Tepenin ardi (Beyond the Hill (2012), il suo film di esordio. Vi è la scelta intenzionale di costruire un’intelligente allegoria con un forte significato e con riferimenti al contesto sociale e culturale. Inoltre emerge di nuovo un fattore sostanziale del tradizionale “senso comune” dei turchi che riguarda la paura irrazionale nei confronti dell’altro, del diverso. A Tale of Three Sisters si sostanzia in una rappresentazione credibile della condizione e della psicologia femminili e offre una lucida disanima di un microcosmo bloccato moralmente e fortemente condizionato da pregiudizi culturali conservatori. La collocazione temporale della storia è sfumata, ma individuarla come un fairy tale è del tutto improprio e pretestuoso: si svolge in un’epoca moderna, ma non proprio contemporanea. Infatti si nota l’assenza della televisione e dei telefoni cellulari, ma, al contrario, è significativo il fatto che una delle sorelle manifesti l’intenzione di abortire con sicura consapevolezza. La sceneggiatura, dello stesso Emin Alper, palesa riferimenti a Cechov e a Shakespeare (il personaggio della donna folle) e propone le problematiche reali della vita condizionata dall’ambiente e dalla gerarchia sociale, con significativi rimandi anche a un patrimonio di antiche credenze e di leggende popolari, ma senza giudizi didascalici. La narrazione è ricca di sfaccettature e accumula lentamente motivi e dettagli, con qualche spunto comico e surreale. La tensione cresce progressivamente anche grazie ad un abile gioco di inquadrature e di montaggio. I personaggi vivono con disagio perché oppressi dalle loro contraddizioni. Sentimenti e valori si confrontano e si complicano, tra differenze di opinioni, illazioni e dissidi, in parte criptici, senza possibili mediazioni o sintesi. La messa in scena è caratterizzata da lunghi dialoghi, con un notevole gioco interpretativo degli attori: conversazioni che si svolgono prevalentemente in interni, animando splendidi tableaux vivants. Si notano similarità, nei toni, nell’uso dei dialoghi e nelle scelte di regia, con i due ultimi film realizzati da Nuri Bilge Ceylan, Winter Sleep (2014) e The Wild Pear Tree (2018). Visivamente è un’opera affascinante. Offre una composizione magistrale delle immagini, inquadrature fisse negli huis clos, con un abile gioco campo - controcampo, sapienti piani sequenza e saltuarie panoramiche widescreen del paesaggio.

Cat in the Wall, opera prima di finzione delle documentariste bulgare Mina Mileva e Vesela Kazova, è una commedia drammatica esistenziale riuscita e intelligente. È ambientata in un caseggiato di edilizia pubblica della periferia di Londra. Descrive con lucidità le contraddizioni assurde dello stato sociale in Gran Bretagna e i contrasti tra nuovi immigrati comunitari dall’Europa Orientale e inglesi di varia etnia: verità e paradossi nell’epoca della Brexit. Si tratta di una convincente rappresentazione della dialettica sociale contemporanea, con un efficace studio caratteriale dei personaggi e una buona articolazione dei tempi drammatici: un’alternativa molto interessante rispetto alla sterile retorica dei drammi sociali di Ken Loach.

La sezione competitiva "Punto de Encuentro" ha proposto 13 lungometraggi, tutti opere prime e seconde, molti dei quali in anteprima europea. Ne commentiamo un paio.

O Fim do Mundo, opera seconda dello svizzero - lusitano Basil Da Cunha, ha ottenuto il Premio al miglior lungometraggio. Propone un affresco della vita nello slum Reboleira di Lisbona, a maggioranza di immigrati africani, tra degradazione morale, illegalità, contrasti e vane speranze. Basil da Cunha costruisce un’opera bozzettistica, con una totale immersione nell’ambiente, rifugiandosi in una messa in scena narcisistica e pretenziosa con spiccati accenti naturalisti, che diventano pittoreschi. Utilizza inquadrature rapide e molto mobili e piani ravvicinati e offre largo spazio ai dialoghi divertenti e coloriti e a situazioni paradossali e tragiche, compresa una parentesi surreale. I suoi personaggi sono largamente stereotipati e pateticamente intrappolati in un microcosmo privo di prospettive di mutamento. Purtroppo si nota un netto passo indietro rispetto alla sua opera prima, Até ver a luz (Après la nuit) (2013) pure ambientata in una bidonville-ghetto alla periferia di Lisbona vive una comunità di negri emigrati dai Paesi del sud: Angola, Mozambico, Guinea, Brasile, ecc. Quel film offre un ritratto drammatico, più originale e venato di spunti poetici, di un mondo di poveracci e umili lavoratori che conservano le loro tradizioni culturali. Poi vi sono i protagonisti: una banda composta da piccoli delinquenti e sfaccendati, sbruffoni e grotteschi, coinvolti nello spaccio di droga e in altri traffici e furti.

Ende der Saison (End of the Season), opera prima dell’azero Elmar Imanov, è un dramma familiare che si sviluppa come un misterioso thriller esistenziale. Ambientato a Baku, durante un’afosa estate, descrive la crisi strisciante di una famiglia ordinaria del piccolo ceto medio. I coniugi quarantenni non riescono più a intendersi. Samir, attore disoccupato, chiuso in sé stesso e taciturno oscilla tra pessimismo, recriminazioni e fatalismo. Sua moglie Fidan, medico pediatra in un ospedale, mostra evidenti segni di stanchezza per il suo ruolo al servizio della famiglia da anni e vorrebbe rivendicare maggior autonomia per realizzarsi diversamente. Il loro unico figlio diciannovenne Machmud cerca ansiosamente un alloggio per separarsi dai genitori. Sono tre personaggi individualisti che vivono uno accanto all’altro in un apparente routine, ma senza empatia tra loro, cercando di non dare fastidio l’uno all’altro. Un giorno i tre compiono un’escursione al mare. Mentre si trovano sulla spiaggia un drammatico incidente porta allo scoperto dolorosamente le linee di frattura delle loro esistenze. Imanov utilizza questo ritratto familiare per evidenziare che la confusa ricerca di libertà dai legami nasconde l’incapacità di affrontare le cause della reciproca incomprensione e della crescente alienazione a cui vanno incontro i tre protagonisti. Ne risulta un dettagliato studio di caratteri senza cadere in una deriva didascalica.

La sezione competitiva "Tiempo de Historia" ha compreso 20 documentari lungometraggi, tra cui varie European Premières e alcune World Premières. Commentiamo un film, oltremodo significativo. Shooting The Mafia, della britannica Kim Longinotto è un documentario che intreccia il ritratto di Letizia Battaglia, fotografa e militante progressista e del movimento antimafia di Palermo, appartenente alla buona borghesia, ma divenuta libera e anticonformista, con la rievocazione della storia della mafia siciliana tra gli anni ’70 e gli anni ’90. Vi è un ampio spazio dedicato alle stragi e agli assassini dei giudici Falcone e Borsellino. Longinotto dimostra una notevole sensibilità nella descrizione del contesto antropologico, sociale e politico. La rappresentazione del fenomeno criminale mafioso e del contesto avviene in termini sostanzialmente corretti, a parte alcune importanti omissioni come l’omicidio di Dalla Chiesa e una trattazione superficiale e di parte del tema della presunta trattativa tra corpi dello stato e i capi cprleonesi della mafia durante glianni ’90. Da segnalare lo sviluppo di un preciso percorso osservazionale, con evidente empatia nei confronti della figura di Letizia Battaglia e senza eccessi didascalici, e l’eccellente uso di ampi materiali d’archivio.

La SEMINCI ha dedicato anche un’ampia retrospettiva al nuovissimo cinema cinese, denominata “Cinema cinese del secolo XXI” e comprendente 20 lungometraggi e 4 cortometraggi. Ne commentiamo alcuni.

Tao jie (A simple life) (2011), di Ann Hui, veterana regista di Hong Kong, offre un ritratto femminile molto convincente, intimo ed emozionante. Si tratta di un melodramma familiare, costruito attraverso una straordinaria narrazione di quotidianità, nel corso di anni. È basato su una vicenda reale della vita di uno dei produttori del film, Roger Lee, anche coautore, con Hui, della sceneggiatura. Lo sguardo della regista è acutamente osservazionale e venato di un sottile humour. Mostra una sincera empatia nei confronti dei due protagonisti, producendo momenti di autentica commozione nello spettatore, senza mai indulgere nel sentimentalismo. Ne risulta un film ricco di umanità e privo di enfasi e di accentuazioni esemplari o altisonanti. La protagonista è Ah Tao (Deanie Yip), una amah (domestica e balia) che ha prestato servizio per decenni nella famiglia Leung, essendo testimone dell’alternarsi di quattro generazioni. All’inizio del film la vediamo vivere con Roger (Andy Lau), un produttore cinematografico trentenne, unico membro della famiglia che risiede ancora a Hong Kong. Occorre sottolineare il fatto che gli attori protagonisti offrono interpretazioni di eccezionale qualità, forse anche perché tra loro vi è una consuetudine di anni nella vita reale: infatti Yip è la madrina della nota star Lau. La donna, anziana, minuta e discreta, conduce una vita molto parca. Si prende cura di Roger con una sollecitudine che sconfina in sentimenti di amore materno, essendo ricambiata dal giovane signore con rispetto e sincera devozione. Un giorno Roger, reduce da uno dei suoi numerosi viaggi di lavoro, ritorna a casa e trova Ah Tao semi-incosciente, essendo stata colpita da uno stroke. Dopo le cure in ospedale, la donna si convince che potrebbe essere diventata un peso per Roger, a causa del residuo handicap fisico, e si rassegna a traslocare in una casa di riposo per anziani. Inizia quindi una vita in comune con altri vecchi, non priva di episodi di disagio perché alcuni sono invadenti o privi di tatto. Peraltro, poco a poco, costruisce alcune simpatiche relazioni umane. Nel corso degli anni Roger continua a visitarla regolarmente, a prendersi cura delle sue necessità e a condurla fuori organizzando piccole escursioni in auto. Le resterà vicino anche quando la salute di Ah Tao si deteriorerà, facendole sentire amore e considerazione, fino a quando si spegnerà. Ann Hui ha realizzato un film semplice e raffinato al tempo stesso. A simple life è un’opera ricca di dettagli, sia rispetto alla relazione tra i due protagonisti, sia rispetto alla condizione degli anziani, trascurati dalle famiglie, a Hong Kong. Da un lato testimonia una cultura in via di scomparsa nella metropoli asiatica: quella in base alla quale una persona, che ha dedicato tutta la sua vita (fino da quando era ragazzina) al lavoro subordinato presso una famiglia, viene curata con la stessa considerazione dovuta a un qualunque altro membro di quella famiglia. Dall’altro descrive una galleria di personaggi minori affatto banali e ci consente anche uno sguardo sui meccanismi dell’industria cinematografica di Hong Kong, compreso un ruolo cameo del noto regista Tsui Hark.

Feng ai (’Til Madness Do Us Part) (2013), del noto documentarista cinquantaduenne Wang Bing, è un film straordinario nella concezione, anche se meno riuscito rispetto ad altri capolavori dello stesso autore. Rappresenta il risultato “sintetico” di un’esperienza unica. In effetti Wang Bing ha frequentato durante tre mesi un’istituzione psichiatrica manicomiale in una città di provincia del sud della Cina. Al termine delle riprese si è trovato con 280 ore di materiale filmico e ne ha estratto un’edizione di circa quattro ore. La realtà mostrata è impressionante. Si tratta di un racconto per immagini della quotidianità, senza tempo, di un gruppo di circa 50 pazienti ammassati in un unico piano di un vecchio edificio che si estende per un quadrilatero affacciato su un cortile interno. Stanze interne anguste prive di arredi, sporche e puzzolenti, corridoi esterni protetti da inferriate e un’umanità di derelitti che deambulano avvolti in coperte o lenzuola lerce. Uomini che passeggiano e corrono, parlano da soli e litigano, altri che urlano, altri che si lavano e orinano l’uno accanto all’altro in servizi fatiscenti, senza alcun rispetto della privacy individuale. Hanno rari contatti con l’esterno, se non fosse per qualche raro familiare in visita ammesso a incontrare il proprio congiunto, senza alcuna intimità. Ma anche i medici si fanno vedere molto poco. Emerge un quadro agghiacciante, totalmente contrario a qualsiasi ordinamento giuridico. Ciascuno di loro è stato internato per motivi diversi: alcuni presentano patologie psichiatriche, sommariamente diagnosticate, altri hanno commesso piccoli crimini, ma qualcuno ha ucciso, altri si sono scontrati con qualche funzionario locale dello stato o del PCC. Wang Bing che, come nei suoi film precedenti non ha problemi a filmare anche sé stesso o a entrare nel quadro, cerca di comunicare con alcuni di loro, ma con esiti scarsi. Emergono spezzoni di racconti autobiografici, ricordi e testimonianze. Desolazione, degradazione e tristezza sono comuni. La videocamera è rispettosa, ma, nonostante le inquadrature prolungate con effetti di accumulo e ripetizioni, non riesce ad andare oltre una mera illustrazione che punta a focalizzare alcuni simboli. Si nota l’empatia del regista nei confronti di quei derelitti abbandonati dalla società, ma anche la frustrazione di non trovare né prospettive, né risposte.

Bai ri yan huo (Black Coal, Thin Ice) (2014), terzo lungometraggio di Diao Yinan, è un thriller poliziesco con tinte melodrammatiche. Un film che ripropone, senza grande originalità, stilemi e tipologie umane dei classici americani del genere e struttura una storia drammaticamente piuttosto debole. Un misterioso caso di una catena di omicidi con scempio dei cadaveri, che si dipana in un arco temporale di cinque anni, senza vera suspence e con un arzigogolato schema di relazioni psicologiche, sullo sfondo di una stereotipata condizione sociale. La vicenda è ambientata in una piccola città anonima nel nord della Cina, in un’area costellata da miniere di carbone e vecchi impianti industriali, con estati molto afose e inverni rigidi con abbondanti nevicate. All’inizio, nel 1999, il protagonista Zhang Zili (Liao Fan), è un detective quarantenne della polizia locale che ha appena divorziato, manifestamente infelice e scettico. L’uomo riceve l’incarico di indagare su un caso inspiegabile. In diverse fabbriche e località della provincia sono state trovate parti smembrate del corpo di uno sconosciuto e non si capisce quando e perché siano state disseminate. L’inchiesta procede, ma durante l’appostamento per catturare il presunto assassino, la polizia compie alcuni gravi errori e scoppia una furiosa sparatoria. Due poliziotti vengono uccisi e lo stesso Zhang viene gravemente ferito. Dopo la dimissione dall’ospedale viene sospeso dal servizio. Poi, con una sequenza di grande efficacia, utilizzando un tunnel in una fredda notte nevosa, la narrazione compie un salto cronologico in avanti di cinque anni. Ora, nell’inverno del 2004, Zhang lavora come addetto alla sicurezza in una fabbrica di carbone e il suo malessere si è aggravato: è ormai un alcolizzato e vive disordinatamente senza curarsi del suo aspetto trasandato. Poi un giorno incontra un ex collega, che sta indagando su una nuova serie di omicidi in cui tutte le vittime sembrano aver avuto contatti con la vedova dello sconosciuto, poi identificato attraverso i documenti ritrovati, assassinato cinque anni prima. Da quel momento Zhang, desideroso anche di vendicare i colleghi uccisi, inizia una caccia personale all’assassino. E quando conosce Wu Zhizhen (Gwei Lun Mei), la famosa vedova, ne diventa ossessionato. La donna trentenne lavora in una lavanderia: è triste e reticente, ma non priva di fascino. In poche parole siamo di fronte a una versione proletaria di femme fatale. Zhang va a conversare con lei nella lavanderia fingendosi un cliente, senza rivelare i suoi scopi. Poi inizia a pedinarla. Lei se ne accorge, ma sembra voler stare al gioco. Gradualmente tra i due si stabilisce un rapporto ambiguo, a metà strada tra la manipolazione reciproca e un amore impossibile. A quel punto compare un misterioso terzo uomo che segue Zhang e, una volta scoperto, riesce a dileguarsi pattinando sul ghiaccio nella notte. Si stabilisce un triangolo anomalo che sarà la chiave di volta che condurrà alla poco sorprendente soluzione del mistero. Black Coal, Thin Ice offre anche diversi momenti surreali, quasi a sottolineare che la realtà e le costruzioni mentali siano spesso inseparabili. E in effetti sembra che non ci siano veri eroi o veri geni criminali nel film. Piuttosto si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un melodramma abborracciato in cui la banalità del male è il risultato di un triste groviglio di gelosia, desiderio di affermazione sociale e irresponsabilità. Diao Yinan si sforza di confezionare un film di genere credibile, ma dimostra di non essere avvezzo a regole, ritmi e epica del thriller. Piuttosto pare che abbia voluto descrivere soprattutto le tristi relazioni umane e la condizione sociale presenti nella Cina contemporanea. Tuttavia anche in questo caso ci pare che altri filmmaker indipendenti cinesi mostrino con maggior incisività le contraddizioni attuali. Ne risulta che, purtroppo, il film, forse suo malgrado, sembra denotare una certa connotazione “di regime”, ovvero che configuri facili metafore e messaggi didascalici ad hoc poco convincenti.

Li wenman yo Donghu (Li wen at East Lake (2015)), quarto lungometraggio di Li Luo, è ambientato in una delle aree più suggestive della grande città di Wuhan, un luogo minacciato dalla speculazione edilizia e dalla costruzione di nuovi parchi di divertimento e di un nuovo aeroporto. Li combina bene elementi documentaristici e finzionali in un mix non privo di amara ironia. Il personaggio principale è un poliziotto quarantenne cinico e maniacale che, con riluttanza, ricerca un presunto squilibrato. Dal film emerge una lucida riflessione sulle questioni dell’identità e della sopravvivenza nella Cina contemporanea.

Shan he gu ren (Mountains May Depart) (2015), settimo lungometraggio di Jia Zhang-ke, è un vero capolavoro e certamente il miglior film della competizione secondo la nostra opinione. La storia, divisa in tre parti, inizia nel 1999 a Fenyang, piccola città nella provincia dello Shanxi, nonché luogo di nascita dello stesso Jia. È un’epoca di tumultuosa crescita economica e l’ottimismo è diffuso. La ventenne Tao (Tao Zhao) è corteggiata da due amici d'infanzia: Zhang (Yi Zhang), proprietario di una stazione di servizio, e Liangzi (Jing Dong Liang), semplice operaio in una miniera di carbone in crisi. La donna, dopo un doloroso travaglio psicologico, sposa Zhang che diventerà un ricco capitalista ad Hong Kong. Nel 2014 l’euforia si è spenta. Tao, divorziata e rimasta a Fengyang, incontra per l'ultima volta Dollar, il figlio di sette anni affidato dalla legge all'ex marito. Nel 2025 padre e figlio, Zhang e il diciottenne Dollar (Zijiang Dong), sono emigrati da 10 anni in Australia. Hanno vissuto quasi separati: l’uno in un circolo chiuso con vecchi amici cinesi, l’altro educato nelle migliori scuole a stretto contatto con giovani di varie razze che comunicano in inglese. Significativamente il dialogo tra padre e figlio è possibile solo attraverso la mediazione di un interprete che traduce dal cinese all’inglese. I due si scontrano e infine si separano perché il giovane rifiuta la carriera che gli viene proposta connessa all’imperativo di arricchirsi e sente di voler tornare in Cina per incontrare la madre. Fin dai suoi primi film, ambientati in aree provinciali rurali (Pickpocket, del 1997, e Platform, del 2000) e, successivamente, in aree industriali e a Pechino (Unknown Pleasures, del 2002, e The world, del 2004), Jia Zhang-ke ha trattato i temi del disorientamento e dell’alienazione della gioventù e degli squilibri sociali dovuti allo sviluppo economico distorto e alla globalizzazione presenti in Cina. I suoi personaggi amari, duri e individualisti, determinati, ma votati al fallimento dopo amene peregrinazioni, sono protagonisti di piccole e tragiche storie. Dal 2006 Jia, con Still Life, e poi con 24 City (2008), e I wish I knew, (2010), ha privilegiato un registro che combina finzione e documentario, con un risultato poetico e “politico” di grande rilievo emotivo ed estetico. Ha rappresentato scene di vita reali in contesti esistenziali e sociali di mutamenti epocali, con personaggi che oscillano tra tristezza rassegnata e sprazzi di vitalismo, nostalgia o desiderio e aspettativa materialista di una futura affermazione sociale. Il suo penultimo film A touch of sin (2013) è un road movie atipico e sorprendente, in bilico tra realismo e surrealismo amaro e grottesco, con alcune provocazioni “disperate”. Jia racconta la Cina di oggi e il suo “progresso” che calpesta la dignità della gente comune. Un Paese in cui sono saltate tutte le mediazioni sociali e politiche. Dove l'arroganza  e la sfacciata corruzione di funzionari pubblici locali e  nuovi ricchi vessa il popolo fino all'estremo limite. Ma anche dove alcune vittime rispondono ai soprusi con la violenza, senza timore per la propria vita. È un film radicale a vari livelli: vi si per rappresenta una società in cui i valori umani sono soffocati dalla ricerca del denaro a tutti i costi. In Mountains May Depart Jia articola ancora una volta temi cruciali che attraversano e influenzano la vita delle persone in Cina e racconta itinerari umani controversi e drammatici attraverso un approccio audace e sottilmente partecipativo. Tuttavia in questo caso la violenza fisica è quasi assente o autorepressa. Al contrario la dialettica deflagrante pare essere quella tra desideri e “realistica” accettazione della sicurezza, delusione e libera ricerca di nuove prospettive, pur senza dimenticare il passato. Il film si concentra su una dinamica di triangolo amoroso e di formazione e crisi di un nucleo familiare, descritta con toni al tempo stesso sinceri, raffinati, inconsueti e a tratti genuinamente malinconici e commoventi. E proietta il gioco delle relazioni in una prospettiva storica (di vicende, evoluzione dei personaggi e diversità della qualità delle immagini) articolata tra passato, presente e ipotetico futuro. Determinante risulta la squisita costruzione drammatica dei quattro protagonisti, intimamente sofferenti per le conseguenze delle loro azioni. Jia Zhangke fa intervenire continui e improvvisi scarti narrativi e radicali cambi di tono e di punti di vista, con contraddizioni e conflitti, ingenue aspettative, struggenti disillusioni e momenti di disperazione. Inoltre non mancano le ellissi narrative, ma anche le risonanze tra episodi disgiunti, mentre compaiono iterativamente oggetti che fungono da trait d’union tra i personaggi e catalizzano i ricordi e persino un motivo musicale ricorrente, la canzone “Go West” dei Pet Shop Boy, cantata, ballata e ri-arrangiata in varie forme. Come in A touch of sin la messa in scena è improntata al realismo stilizzato. Coerentemente con lo stile di Jia, sono sempre presenti densi piani fissi prolungati e piani sequenza, in un contesto di narrazione ellittica. Tuttavia, quasi a sottolineare le più stridenti contraddizioni che segnano i personaggi, compaiono cesure visive e sonore: immagini che si modificano in senso astratto configurando sperimentalismi da video art e stacchi sonori dissonanti con improvvisi aumenti del volume. Jia ha utilizzato in parte sequenze-appunti girati in digitale , per la prima volta nel 2001 e poi nel 2011, con una videocamera tecnologicamente più avanzata. Il film presenta tre variazioni dello screen format di proiezione in relazione alle diverse epoche in cui è ambientato: inizia con il formato quadrangolare (1:1,37) per il segmento dedicato al passato, poi passa al wide-screen panoramico (1:1,85) per l’epoca presente e opta per il formato scope (1:2,40), con obiettivi anamorfici, per l'ultima parte, collocata in un ipotetico futuro e parlata largamente in inglese. Da segnalare inoltre che la fotografia, curata da Yu Lik-wai, lo storico collaboratore di Jia, è fantastica.

Xiao gua fu cheng xian ji (The Widowed Witch) (2017), opera prima di Cai Chengjie, propone una satira, sinistra e struggente, che combina pungente cinismo, humour caustico, buffi intermezzi e un misticismo sui generis contaminato da elementi surreali. Ambientato in un sonnolento villaggio della provincia Hebei, un’area impoverita che è parte dell’ampio territorio rurale della Cina settentrionale, il film offre un eccellente e veritiero ritratto di una società patriarcale in cui predominano superstizione, rozzo conformismo, avidità, diffidenza, opportunismo, forti pregiudizi e violenti abusi nei confronti delle donne. Racconta la vicenda di Erhao (Tian Tian, molto convincente), non ancora trentenne, ma vedova per la terza volta, dopo che l’ultimo marito è morto in seguito all’esplosione della loro casa dove fabbricava illegalmente fuochi d’artificio. Priva di dimora durante il rigido inverno, la donna viene inizialmente ospitata dai parenti del marito che abitano in una modesta casa colonica. Tuttavia il cognato approfitta dello stato di prostrazione di Erhao e la violenta. Con grande sforzo la donna si riprende e si allontana, portando con sé Shitou, il fratello sordo del marito, un bambino di dieci anni. Quindi la strana coppia inizia un viaggio a bordo dello scalcinato pulmino caravan, di proprietà del marito defunto, con l’obiettivo di trovare una casa disabitata in cui stabilirsi. Tuttavia, ben presto, la donna deve fronteggiate ostilità, soprusi di ogni genere e atti di violenza da parte dei contadini, perché viene considerata una strega, responsabile della morte dei propri coniugi. Essendo maledetta da tutti, Erhao si trova invece coinvolta in eventi casuali strani e “miracolosi”: dopo averla incontrata, un vecchio, apparentemente paralizzato, riprende a camminare e un nascituro, che era stato previsto femmina, si rivela invece maschio. Quindi, essendosi resa conto di come quei fatti abbiano influenzato la mente credulona dei villici, la donna decide di sfruttare la situazione per tirare a campare. Millanta di possedere doti sovrannaturali e, indossato un abbigliamento ad hoc, si spaccia per sciamana, capace di allontanare gli spiriti malvagi, e riesce a ottenere accoglienza e cibo da parte di diverse persone. Tuttavia un destino nefasto la insegue. Dopo aver fallito rispetto ad alcune aspettative, dimostrando quanto siano fallaci i suoi poteri magici, si trova nuovamente alla mercé della cattiveria e della violenza della gente. Cai Chengjie propone una parabola esistenziale e sociale di notevole impatto narrativo, combinando, con audace maturità, sguardo documentaristico, suggestioni oniriche e fantastiche e coraggiosa disanima culturale con implicazioni politiche, senza cadere nelle retorica didascalica. L’ambigua eroina protagonista viene descritta efficacemente nella sua complessa e contraddittoria emotività, evitando lo psicologismo e la deriva patetica e sentimentale. Dal punto di vista stilistico, The Widowed Witch è un’opera di significativa forza visiva, che privilegia le prolungate inquadrature fisse e una ricca combinazione di sequenze claustrofobiche in interni squallidi e miserabili e di suggestive scene open air con i personaggi che si muovono nei campi e nelle strade innevate. Oltremodo suggestiva e lirica risulta la fotografia curata da Jiao Feng che propone una nitida scansione in bianco e nero, con immagini monocrome, spesso velate da fumi e vapori, alternando saltuari inserti e bagliori scintillanti a colori qua e là, per suggerire l’altalena di emozioni e stati mentali della protagonista e la connotazione tragica della storia oltre l’apparente eccentrico fairy tale.

Da xiang xi di er zuo (An Elephant Sitting Still) (2018), di Hu Bo, pseudonimo di Hu Qian (1988 - 2017), è un vero capolavoro, della durata di ben 230’. È l’opera prima di uno scrittore di grande talento, i cui romanzi hanno già causato grande sensazione in Cina nel corso degli ultimi anni: un film straordinario che configura una modalità espressiva priva di compromessi di fronte alla pesantissima censura del regime e che segna una cesura netta rispetto al cinema cinese contemporaneo largamente dedicato a operazioni di mercato, con film spettacolari, epici, storici e fantasy, o consoni ai dettami politici e morali del partito comunista e del governo antidemocratico. Purtroppo, tragicamente, questo film costituisce il capitolo finale e il lascito di un artista che lo scorso 12 ottobre 2017, poco dopo averne ultimato la postproduzione e l’edizione finale, si è suicidato, a soli 29 anni di età. Hu Bo ha compiuto un atto autolesionistico che rappresenta una risposta estrema al clima ostile e alienante presente nel Paese. An Elephant Sitting Still offre un ritratto davvero credibile e impressionante della disillusione, del grande senso di vuoto interiore e dell’afflizione di cui è preda gran parte della popolazione nella Cina di oggi. Propone un umanissimo intreccio vite e di destini, marcati da corruzione, odio e violenza. Un mosaico di storie che si sviluppano in una stringente spirale drammatica, viziata da pervicace individualismo, egoismi di vario genere, ipocrisia, sensi di colpa e fatalità, nell'arco di sole 24 ore, dall’alba al tramonto. Ambientato a Manzhouli, decadente città industriale di medie dimensioni nella Cina settentrionale, dove, tra le persone, sembrano predominare sentimenti di solitudine e di avvilimento, racconta le vicende di tre personaggi principale e di altri secondari i cui destini appaiono inestricabilmente collegati tra loro. Ognuno di loro sta lottando per fronteggiare la violenza e l’odio che permeano le loro vite. Il sedicenne Wei Bu (Yuchang Peng) è in fuga dopo aver scaraventato giù dalle scale Shuai (Xiaolong Zhang), un altro studente. Parallelamente, Huang Ling (Uvin Wang), una sua compagna di scuola, si trova esposta al pubblico ludibrio dopo che è stato diffuso, via social network, ed è diventato virale, un video che mostra la sua relazione intima con il vice preside della scuola. Nel frattempo Mr. Wang (Congxi Li), un gentile pensionato settantenne, è stato costretto a lasciare il proprio appartamento da suo figlio che vuole confinarlo in una casa di riposo. La sceneggiatura, dello stesso Hu Bo, è un vero gioiello in termini di ambizioso e accurato studio di caratteri. La dettagliata osservazione dei personaggi e dei loro comportamenti, e l’abilità con cui Hu Bo sa tessere insieme una catena di multiple cause ed effetti, provvede a delineare uno scenario di grande tristezza. La sua scrittura minuziosa descrive, passo, passo, le circostanze in cui si trovano coinvolti i personaggi e le loro scelte, ma, al tempo stesso, mostra un quadro di insieme, in larga scala: la maggior parte delle persone presenti nel film non sembra avere intenzioni malvagie, ma, comunque, non riesce ad agire in termini corretti e rispettosi verso gli altri. Hu Bo racconta, con parsimonia, ma anche con passione, una storia che mette a nudo un contesto esistenziale di disperazione diffusa. Descrive un mondo corrotto e devastato, la cui architettura sociale deperisce sotto il peso di una rapida globalizzazione. Tuttavia, nonostante collochi i suoi personaggi in una condizione di considerevole e costante pericolo, mostra sempre una certa empatia nei confronti dei loro sforzi e della loro lotta per non essere sopraffatti. In ogni caso l’accurata messa in scena palesa un ritmo narrativo estremamente naturale e coinvolgente ed evita ogni tipo di retorica e di deriva didascalica. La virtuosa composizione estetica del film , tra tensione lirica e raffinata semplicità, dimostra una precisa predisposizione alla qualità da parte di Hu Bo. Ne risulta un’opera affascinante, misteriosa e drammaticamente risolta, caratterizzata da una pervasiva tristezza e da continue istanze e situazioni violente. Il film è marcato da un’aura allucinatoria grazie al lirismo insito nella dinamica delle sequenze e delle inquadrature. Abbondano i piani sequenza: alcuni riguardano lunghe conversazioni tra due personaggi, filmate integralmente, per rendere la tensione delle scene; altri implicano una logistica complicata, affrontata con apparente facilità. Nel seguire con cura e con pazienza un gruppo di personaggi anonimi e perdenti, che cercano di affrontare le difficoltà che incontrano giorno dopo giorno, e nel documentare il loro totale fallimento morale, An Elephant Sitting Still ricorda l’universo esistenziale di A Brighter Summer Day (1991), del taiwanese Edward Yang, in cui l’irrequietezza sociale, nei confronti di un regime repressivo, cresce progressivamente fino a produrre conseguenze esplosive, e si collega anche alla radicale e spietata disanima dell’avidità e dell’insano materialismo predominante nella società cinese contemporanea condotta da Jia Zhangke in A Touch of Sin (2013).

Wan mei xian zai shi (Present Perfect) (2019), opera seconda della documentarista Zhu Shengze, npn è un un vero documentario, espressione di una scelta di approccio alla realtà mediata dalla sensibilità del regista con particolare rilevanza di contenuti ed “etica”, quanto piuttosto un’operazione programmatica molto pretenziosa ed estremamente ambigua. Risulta che in Cina, Paese dove, come ben noto, vige una regime dittatoriale “comunista” liberticida che, negli ultimi anni, ha sviluppato raffinate e feroci tecniche di censura e di controllo rispetto alla comunicazione via internet, esisterebbe un gigantesco circuito di comunicazione e scambio di video effettuati da vloggers e YouTubers. Secondo le statistiche riportate nei credits del film nel 2017 ben 422 milioni di cinesi avrebbero scambiato tra loro film auto realizzati in streaming dando vita a un circuito che potenzialmente vale miliardi di dollari. È ovvio che alcuni filmetti insoliti o estremi siano diventati estremamente popolari, ovvero virali: ad esempio un ragazzino che ingoia vermi vivi o due lottatori inzuppati di vernice fresca. E nonostante non costituisca una minaccia politica per il regime, la polizia continua a boicottare il fenomeno: migliaia di virtuali show rooms sono state disattivate. Zhu Shengze ha individuato e seguito, per un periodo di dieci mesi, una dozzina di anchors, prolifici videomaker artigianali che documentano momenti della loro vita o la loro smania di filmare ciò che ritengono strano o interessante (o che registrano video trasmessi in diretta su alcuni siti online), per poi interagire in chat con coloro che osservano e commentano quei loro film. Ha fatto presente di aver scelto tipi ordinari o marginali, che vivono vite solitarie e utilizzano lo streaming per comunicare, escludendo testimonial e influencer in versione cinese, con migliaia di followers. Tuttavia si nota che, accanto a un buffo street dancer marcatamente privo di senso del ritmo e a un annoiato manovratore di gru, ha pensato bene di inserire anche alcuni archetipi: ad esempio una ragazza paralizzata e un travestito di mezza età. Ne sono risultate 800 ore di footage, a partire dalle quali la regista ha selezionato spezzoni diseguali di video, frammenti di una serie di live streams, creando alcuni protagonisti - icone di banali o astruse o stucchevoli scenette che sono state raggruppate in quattro capitoli tematici. Certamente non mancano immagini delle vorticose e gigantesche operazioni di ristrutturazione edilizia imposte dai potentati economici protetti dallo stato, ma si tratta sempre di un paesaggio contemporaneo in cui non vengono messe a fuoco le gravi contraddizioni che ne derivano. Present Perfect offre quindi una carrellata di autoritratti di Youtubers apparentemente ingenui ed entusiasti di mettersi a nudo e, ovviamente, svariati esempi di comportamenti rozzi, egoisti e subculturali e di penose metafore. D’altronde non c’è da meravigliarsi. Tra spoliticizzazione di massa, mentalità succube delle regole politiche, sociali e morali imposte dal partito comunista, censura da parte del regime e autocensura, non ci si potrebbe aspettare alcun esempio di creatività o di integro spirito liberaldemocratico. Quindi è del tutto pretestuoso considerare questo film come un genuino ritratto di una generazione di trentenni - cinquantenni che rappresenta sé stessa e le proprie aspettative, sogni e contraddizioni. È un’opera che non configura neppure un’interessante inchiesta antropologica e sociologica, perché non vi è chiarezza rispetto ai criteri di selezione del materiale visivo utilizzati da Zhu Shengze, mentre prevale l’eterogeneità di temi e situazioni affastellati insieme.

Infine offriamo un’ampia recensione della grande Retrospettiva dedicata alla cinematografia contemporanea del Paese ospite della SEMINCI di quest’anno: la Georgia. Il ciclo intitolato “Obiettivo Georgia” ha compreso 16 lungometraggi, di cui 2 documentari e 6 cortometraggi, realizzati in larga maggioranza da autori trentenni e quarantenni, delle ultime due generazioni del cinema georgiano, nel corso degli ultimi 9 anni, dal 2010 al 2018, ad eccezione di una gemma sperimentale e “futurista” dell’epoca del cinema muto, Chemi bebia. (My Grandmoher) (1929). Proponiamo quindi il commento critico di alcuni dei film più significativi della Retrospettiva.

Chantrapas (2010), del veterano Otar Iosseliani, è un piccolo film poetico pieno di qualità. Racconta le rocambolesche avventure di Nicolas (Dato Tarielashvili), un giovane regista georgiano che, durante il regime sovietico, è costantemente censurato. L’uomo riesce quindi a raggiungere la Francia, trafugando i rulli del suo film. Tuttavia il suo entusiasmo verrà frustrato a causa delle estenuanti difficoltà burocratiche e delle bizzarrie del produttore (Pierre Étaix) che dovrebbe aiutarlo e girare un nuovo film. Il film è caratterizzato da una fine ironia e da siparietti comici irresistibili. Otar Davidovi? Ioseliani, nato a Tbilisi nel 1934 e attivo come regista dal 1958, è emigrato in Francia nel 1982 al termine di una lunga lotta perdente contro la censura del regime sovietico che impedì più volte la distribuzione e la visione dei suoi film. Ha quindi ottenuto anche la cittadinanza francese. È un regista - poeta che non ha mai rinnegato le sue origini e la sua cultura e che, nella fimografia, esprime sentimenti sia scettici sia epicurei. Nel suo cinema si dimostra “flaneur” e “naïf” e ama descrivere personaggi veritieri, ma indifferenti, a metà strada tra la malinconia e il gioioso godimento della libertà, che si lasciano vivere con naturalezza. Ma non ha mai dimenticato la portata repressiva e criminale del potere sovietico e sulla base di una raffinata conoscenza dei fatti e della storia ne fa costante riferimento nei suoi film quando descrive le manifestazioni crudeli e ottuse del potere. I suoi film mostrano modelli di umanità e scene di vita in cui l’individuo libero e creativo è schiacciato e vittima del potere. Sono racconti inclassificabili, semplici, costellati da simbolismi leggeri, ma efficaci e, spesso, velati da una sottile amarezza, al di là dei siparietti comici. Propongono un modello di umanità che rifiuta il lavoro sistematico, dimentica i doveri e deve fare i conti con la stupidità circostante. Si caratterizzano per uno stile curato e fluido al tempo stesso. Spicca uno humour molto originale che si nutre dell’osservazione minuziosa e divertita dei personaggi, veri anarchici sempre alle prese con iniziative stravaganti o impegnati in invenzioni di marchingegni ingegnosi. È indubbio che, nonostante la smentita dell’autore, Chantrapas sia un’opera di derivazione autobiografica. Tra l’altro all’inizio del film viene proposto uno dei cortometraggi inediti di Iosseliani, spacciato per opera del giovane Nicolas. Iosseliani riconferma pienamente il suo talento. Combina naturalezza, creatività e realismo sui generis, esprimendo una poetica personalissima, ma di grande impatto sociale, senza cadere mai nel moralismo. Come nei suoi film precedenti (citiamo Les favoris de la lune del 1984, La chasse aux papillons del 1992, Brigands, chapitre VII del 1996, Adieu, plancher des vaches! del 1999 e Lundi matin del 2002) la particolare suggestione deriva dai movimenti e dai gesti con cui i personaggi manifestano i loro desideri e le loro passioni segrete. L’ambientazione e la messa in scena, ricca di generose incongruenze e di elementi surreali, fanno pensare ai geniali film realizzati dallo stesso Iosseliani negli anni ’80 e ’90. Inoltre la descrizione minuziosa dei riti della burocrazia sovietica e dei falsi dibattiti ideologici organizzati dai funzionari e dagli intellettuali del PCUS è politicamente incisiva. Al tempo stesso la rappresentazione di una Francia (irreale?) in cui lo spirito liberale cede il passo a calcoli meschini risulta gustosa e divertente.

Brma paemnebi (Blind dates) (2013), opera seconda di Levan Koguashvili, è una commedia drammatica minimalista, intrigante e solo apparentemente naïf. Il protagonista è Sandro (Andro Sakvarelidze), un insegnante quarantenne, magrolino, quasi calvo e piuttosto timido e malinconico. L’uomo abita ancora con i suoi assillanti genitori i quali non perdono occasione per recriminare circa la sua condizione di scapolo attempato. Convinto dall’amico Iva (Archil Kikodze), accetta un appuntamento al buio con Lali, una donna più giovane, ma non riesce a instaurare una qualsivoglia relazione. Pochi giorni dopo, durante una gita fuori stagione in una triste località balneare sul Mar Nero, incontra Anna, una sua giovane studentessa accompagnata dalla madre, la bella e volitiva parrucchiera Manana (Ia Sukhitashvili). Sandro finisce per innamorarsi della donna, e tornato a Tbilisi inizia a frequentarla. Nel frattempo apprende che il marito di Manana è in prigione. Ma poi il violento e patologicamente geloso Tengo (Vakhtang Chachanidze) viene repentinamente scarcerato. Sandro è travolto da una paradossale serie di avvenimenti che si aggrovigliano, tra fraintendimenti e confusioni emotive. La rappresentazione del variegato contesto esistenziale e sociale è molto convincente e priva di enfasi, tra modernità e tradizione, dignitosa povertà e humour atipico. Si notano i riferimenti a Otar Ioseliani e ad Aki Kaurismäki, ma Koguashvili appare ancora più genuinamente poetico e opta per una narrazione tranquilla, punteggiata da ellissi e allusioni, e per un’efficace osservazione a distanza dei personaggi e della sequela di piccoli eventi che si susseguono incalzanti. In aggiunta dimostra una particolare sensibilità nello sfruttare gli spazi e nel’evidenziare, anche con un’eccellente composizione di colori autunnali, i particolari del contesto ambientale e dirige al meglio un ottimo cast che mescola attori professionisti e amatoriali.

Grzeli nateli dgeebi (In Bloom) (2013), opera di esordio di Nana Ekvtimishvili (anche autore della sceneggiatura) e secondo film per il tedesco Simon Gros, è un prezioso dramma intimo: un piccolo capolavoro diretto a quattro mani da due registi trentenni. La vicenda offre il ritratto di Eka e Natia, due quattordicenni, amiche inseparabili, a Tbilisi, nel 1992. Dopo il collasso dell’URSS, la Georgia è un Paese indipendente, povero e caotico, scosso dalla guerra civile nella regione dell’Abkhazia. Le due ragazze vivono in famiglie disastrate: il padre di Eka è in carcere e quello di Natia è un alcolista collerico. La quotidianità in casa è difficile, essendo entrambe costrette a vivere in appartamenti sovraffollati e alle prese con figure materne stanche e irascibili. Quindi le due protagoniste trascorrono molto tempo in strada e devono fronteggiare le pesanti attenzioni di ragazzi divisi da aspre rivalità. Ne nascono relazioni controverse in cui i ruoli, tra femmine e maschi, non sono sempre chiaramente definiti, in termini di potere e di attrazione e repulsione. Tra fierezza e insicurezza, malinconia e affetti contrastati, confronto con tradizioni ancestrali e testimonianza di violenze e vendette, si consuma un drammatico passaggio precoce all’età adulta. Un affresco intricato e carico di impressionante realismo, con immagini vivide che ricordano i nostri anni ’50 e ’60. Nell’ambito di una narrazione che procede attraverso brevi e intensi episodi, sono da citare in particolare due sequenze: un’animata discussione tra ragazzine teenagers che spettegolano e litigano rispetto al valore della verginità e su chi debba essere considerata puttana; l’impressionante descrizione di un matrimonio tradizionale con un unico piano sequenza (della durata di alcuni minuti) che riprende la virtuosa performance danzante di Eka. La dinamica di ingenuità giovanile e precoce determinazione e sangue freddo, scoppi di violenza e momenti di idillio poetico configura una composizione emozionante, con eccellenti soluzioni di messa in scena. Il film vanta una preziosa fotografia curata dal celebre cameraman rumeno Oleg Mutu ed è illuminato dalla presenza di due giovani interpreti di talento, Lika Babluani e Mariam Bokeria.

Patardzlebi (Brides) (2014), opera prima di Tinatin Kajrishvili, è un dramma che descrive le storture del sistema giudiziario in Georgia, lasciando poco spazio alla speranza. Racconta la storia di Nutsa (Mari Kitia), una trentenne madre di tre bambini che vive in un quartiere popolare di Tbilisi e fatica a tirare avanti. Goga (Giorgi Maskharashvili), il suo compagno e padre dei suoi figli, è in carcere e deve ancora scontare una pena detentiva di sei anni. La donna è costretta a sposarlo solo per ottenere il diritto a un colloquio mensile con lui. Le visite sono penose: una lunga fila di donne rassegnate costrette a perquisizioni e umiliazioni da parte del personale di custodia. Certi giorni i colloqui sono annullati senza alcun preavviso. La condizione di Nutsa è difficile: i suoi bambini, dopo la prima volta, non vogliono più tornare a visitare quel padre che è ormai un estraneo. Nel frattempo ha conosciuto un altro uomo. Timidamente hanno iniziato a parlarsi, poi lui è venuto in casa a visitarla. Ma, poco dopo, la donna riceve una telefonata del marito che le comunica che le regole sono cambiate: ora le coppie sposate hanno diritto periodicamente a trascorrere una notte insieme. Nutsa si reca al primo appuntamento indossando il suo vestito migliore, ma, quando si ritrova sola con Goga in una stanza con un letto, l’improvvisa intimità li mette entrambi a disagio. La regista Tinatin Kajrishvili confeziona un film onesto e dignitoso. Preferisce insistere su alcune scene più significative, in particolare quelle interne al carcere, superando una narrazione convenzionale, offrendo autentici tagli documentaristici e mostrando un’evidente empatia con la sua protagonista. In effetti, oltre a quello di Nutsa, risaltano altri ritratti femminili, solo apparentemente secondari, di mogli e compagne di detenuti, oppresse da un condizionamento psicologico non molto diverso da quello dei loro uomini. A livello estetico si segnalano la valorizzazione dei close-ups e la fotografia ricca di toni di Goga Devdariani.

Mdzevlebi (Hostages) (2017), quinto lungometraggio del georgiano Rezo Gigineishvili, ricostruisce un episodio clamoroso realmente avvenuto in Georgia nel 1983, quando il territorio apparteneva all'URSS. Ricostruisce, con una scansione altamente drammatica, la terribile storia di un gruppo di sette uomini e donne, ventenni e trentenni, appartenenti a famiglie conosciute e in parte privilegiate. Tra di loro vi sono tre pittori, un attore, un medico e altri due praticanti nelle professioni e sono destinati con ogni probabilità ad appartenere alla élite sociale e culturale di quella repubblica sovietica. Sono ispirati da un prete ortodosso anticonformista, attratti dal mondo e dalla cultura occidentali, amanti dei Beatles e delle sigarette Camel. Insofferenti delle regole del regime repressivo comunista e per la mancanza di libertà, preparano un piano pazzesco per dirottare il volo di linea Aeroflot 6833 diretto a Batumi, resort sul Mar Nero, costringendolo invece ad atterrare nella vicinissima Turchia. Quindi, senza adeguata preparazione e affidandosi all’urgenza febbrile dei desideri, lo attuano, sfruttando le nozze tra due di loro, Nika (Irakli Kvirikadze) Anna (Tina Dalakishvili), a cui segue appunto il presunto viaggio di nozze a Batumi della coppia accompagnata dagli altri del gruppo. Alcuni di loro sono armati e approfittano di complicità all’aeroporto per superare i contyrolli. Ma falliscono miseramente, anche per una catena di sfortunate circostanze e traditi dalla loro paranoia e impulsività, scatenando una violenza feroce con conseguenze tragiche. È un film piuttosto autentico e interessante nella descrizione dell'epoca e della disperazione dei giovani protagonisti. Teso e convulso sia nella rappresentazione dei febbrili preparativi sia nella descrizione del sanguinoso dirottamento, con buona gestione delle modalità e delle tempistiche delle colluttazioni e della sparatoria, grottesca e crudele al tempo stesso, in uno spazio angusto, anche grazie all’eccellente fotografia curata da Vladislav Opelyants. E persino a tratti commovente, specie nel finale in cui, con una scelta di sintesi forse un poco grossolana, ma senza dubbio efficace e priva di compiacimento sensazionalistico o didascalico, non si perde in un’arida precisione cronachistica da inchiesta di stampo hollywoodiano. L’epilogo assembla momenti diversi di una spirale ineluttabile di annientamento dei responsabili del crimine e della loro memoria da parte delle autorità, per cercare di ridare rispettabilità a un sistema politico ormai avviato a una storica crisi e al fallimento. Prima il processo sommario, presso un tribunale militare, ai giovani sopravvissuti al dirottamento e al prete ortodosso che accetta di condividerne la sorte. Un dibattimento da cui viene esclusa qualsiasi menzione della circostanza, oggi nota, ma mai indagata ufficialmente, di 108 colpi sparati da un’unità speciale dell’esercito sovietico contro l’aereo, atterrato infine nuovamente sulla pista di Tbilisi, dopo il fallito dirottamento. Un assurdo diluvio di fuoco che certamente finì per uccidere anche alcuni ostaggi e membri dell’equipaggio e non solo alcuni fra i “terroristi”. Poi il tremendo dolore dei genitori, costernati, non solo per lo shock di un fatto di cui erano del tutto ignori, ma anche per il divieto di conoscere il luogo segreto dove vengono eseguite le condanne a morte per fucilazione e dove vengono seppelliti, con dispregio, i corpi dei rei. Rezo Gigineishvili propone una messa in scena imperfetta, anche perché la sua sceneggiatura, scritta insieme a Lasha Bughadze, non è sufficientemente articolata, optando per alcune ellissi discutibili e presentando dialoghi non molto curati. Sceglie di non frapporre eccessiva distanza rispetto ai suoi personaggi, ma ha il merito di non identificarsi ambiguamente con loro, quindi di non giudicarli e di non sovrapporre capziose e strumentali chiavi di lettura dell’iter che ha condotto al clou della vicenda e alla sua tragica conclusione. Li descrive attraverso alcune semplificazioni, ma utilizzando anche dettagli comportamentali significativi, senza scadere troppo nello psicologismo quando mostra le ragioni, reali o velleitarie, del loro disagio nella quotidianità in famiglia o nei luoghi pubblici che frequentano. Certamente il meccanismo di rivelazione progressiva del loro piano, secondo i canoni del thriller, mostra momenti di ingenuità, con sequenze anche prosaiche, ma lascia trasparire anche suggestive caratterizzazioni dei personaggi e spunti politici, senza presentare impronte televisive, specie nel felice incipit sulla spiaggia di Batumi e nella lunga scena del matrimonio.egnalano la valorizzazione dei close-ups e la fotografia ricca di toni di Goga Devdariani.

 

 


 

 

 

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64. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID

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19 - 26 / 10 / 2019

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