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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 72. CANNES FILM FESTIVAL I Schede di approfondimento di vari film di tutte le sezioni del Festival I DI GIOVANNI OTTONE I 2019

FESTIVAL DI CANNES 2019

Schede di approfondimento di vari film di tutte le sezioni del Festival

 

DI GIOVANNI OTTONE

"Parasite " di Bong Joon-ho

Cannes 2018

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SEZIONE COMPETITION OFFICIELLE

L’incontro esplosivo tra privilegiati ed esclusi
Una satira sulla manipolazione: cinica, feroce, efficace ed esagerata
GISAENGCHUNG (PARASITE), di Bong Joon-ho (Sud Corea) Palme d’Or Prix CICAE

Gisaengchung (Parasite), settimo lungometraggio del quarantanovenne sudcoreano Bong Joon-ho, è un’esilarante farsa “tragica”: una black comedy cinica, graffiante, efficace e debordante che mette a fuoco le marcate differenziazioni di classe esistenti nella società sudcoreana contemporanea. In un affollato quartiere popolare di Seul una famiglia molto unita di sottoproletari sopravvive in un angusto e fatiscente scantinato. Kim Ki-taek (Song Kang-ho, attore feticcio di Bong Joon-ho), e sua moglie Chung-sook (Chang Hyae-jin) si affidano all’intraprendenza dei due figli ventenni, che hanno frequentato parzialmente le scuole: Ki-woo (Choi Woo-shik), simulatore con un certo talento, e Ki-Jung (Park So-dam), abile nell’utilizzo del phoshop. Ma un giorno avviene un fatto nuovo: un amico, studente in una prestigiosa università e in partenza per uno stage all’estero per un anno, ricordando che Ki-woo ha studiato con impegno l’inglese, gli propone di sostituirlo come tutor di Da-hye (Jung Ziso), figlia quindicenne di Mr Park (Lee Sun-kyun), ricco manager di un’impresa commerciale. Il giovane, fornito di falsi diplomi, si presenta all’indirizzo indicato, ritrovandosi in una magnifica grande villa moderna con giardino. E incontra Yeon-kyo (Cho Yo-Jeong), la padrona di casa, un’avvenente trentenne che si lascia facilmente impressionare dalla parlantina del presunto insegnante. Ottenuto il lavoro, Ki-woo approfitta del proprio ascendente sulla giovane allieva, subito invaghita di lui, e riesce a imporre la propria sorella, spacciandola per la sua talentuosa conoscente Jessica, come tutor artistico e terapista del secondo figlio di Park, Da-song (Jung Hyeon-jun), un bambino iperattivo di nove anni. Successivamente, dopo che i due giovani hanno provveduto, con abili ed efferate azioni di discredito, a far licenziare gli altri dipendenti di Park, anche Kim Ki-taek e Chung- sook, presentati sotto mentite spoglie e con false referenze, vengono assunti dai Park con le rispettive mansioni di autista e di cuoca. Per qualche tempo la finzione manipolativa dei quattro ingegnosi impostori, riciclati come rispettabili e stimati lavoratori, funziona perfettamente e genera gustosi siparietti comici. Ma un giorno Moon-gwang (Lee Jeong-eun), ex governante licenziata dai Park, si presenta alla porta della residenza e, con una scusa, riesce a introdursi in casa. Da quel momento la coerente e raffinata progressione narrativa, abilmente centrata sul confronto di identità tra le due famiglie, subisce un’alterazione di modalità e di ritmo. Inizia una sarabanda di colpi di scena incresciosi e controversi, in un crescendo incalzante, in cui emergono rivelazioni di segreti, strenua e violenta competizione tra poveri, spirito di vendetta, sorda volontà di riscatto rispetto alle umiliazioni e precipitazioni inaspettate, con clamorosi ed accentuati particolari splatter. È un peccato che il regista si perda in due o tre finali consecutivi e apostrofi una specie di chiosa di pentimento e di irrealistica speranza, vagheggiata con trepida amarezza da Ki-woo, con sottintesa confusa morale antisistema. Bong Joon-ho ha diretto notevoli film di genere che hanno ottenuto importanti riconoscimenti a livello internazionale: Barking Dogs Never Bite (2000), Memories of Murder (2003) e  Mother (2009). Ha anche realizzato riusciti blockbusters che hanno riscosso molto successo non solo in Corea: The Host (2006) e Snowpiercer (2013 e Okja (2017), entrambi girati negli USA. Parasite propone un nuovo ritratto al vetriolo della società coreana. È un dramma satirico che evidenzia, con lucidità e intelligenza, contraddizioni e aspetti molto espliciti di un feroce confronto sociale, tra privilegiati ed esclusi, presentandolo con modalità caustiche e sardoniche, attraverso un’escalation implacabile. La descrizione, ricca di indovinate sfumature, delle due famiglie di “simpatici mostri”, che vivono anche fisicamente al vertice e alla base della piramide sociale, è oltremodo efficace. E il gioco della convivenza nel microcosmo della grande villa si affida agli strumenti visivi e ai comportamenti e alle emozioni dei personaggi in continua alternanza.

Cannes 2018

"Parasite" di Bong Joon-ho

 

Tra l’altro si può dire che il nucleo familiare che in Parasite vive ai margini della società, sembra sociologicamente affine a quello che è protagonista del magnifico Shoplifters (2018), del giapponese Kore-eda Hirokazu. Tuttavia Bong Joon-ho è un autore molto lontano dalla poetica umanista del maestro giapponese, anche quando propone un contesto di alterità radicale e mostra una realtà miserabile e personaggi credibili, ben oltre l’esagerazione farsesca. In effetti confeziona un originale racconto sulla manipolazione a partire da una scrittura originale e in gran parte ben calibrata. La sua messa in scena è energica, ma molto studiata, piena di idee e di invenzioni e molto curata in termini estetici. Rivela il suo caratteristico gusto creativo anticonformista, viscerale e fragorosamente sopra le righe, giocato sulla contaminazione dei generi, in questo caso commedia, dramma distopico, pamphlet sociale e thriller, con venature goticheggianti, macabre o fuori dal contesto (la scelta della canzone “In ginocchio da te”, interpretata da Gianni Morandi), maledettamente calzanti, incisive e divertenti.

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ATLANTIQUE (ATLANTICS), di Mati Diop (Francia - Senegal) Grand Prix

Atlantique (Atlantics), il lungometraggio di esordio dell’attrice e regista trentaseienne franco - senegalese Mati Diop, è un’opera imperfetta, interessante, ma decisamente controversa. Fonde, in forma precaria, documentarismo sociale e favola africana, melodramma romantico e malinconico e pseudo thriller poliziesco con deriva onirica e surreale. A Dakar gli operai di un grande cantiere non sono pagati da mesi. Alcuni tra i più giovani tentano la traversata oceanica verso l'Europa a bordo di un barcone: tra loro vi è Souleiman (Ibrahima Traoré), l'amante della bella e volitiva Ada (Mama Sané). Vi sono prove che l'imbarcazione sia affondata. Ada è da tempo vincolata da una promessa matrimoniale e, costretta dai familiari di condizione modesta, sposa Omar (Babacar Sylla) che si è arricchito in Italia. La giovane non lo ama e, quando un incendio devasta la camera nuziale, si convince che Souleiman sia tornato. Nel frattempo una misteriosa febbre contagia le donne del quartiere popolare dove abitavano i giovani scomparsi e Mariama (Mariama Gassama), un’amica di Ada, tradizionalista e conformista, le confida di aver visto il suo amante perduto, che ora sarebbe un revenant dalla morte, ovvero un djinn, un demone della tradizione araba e coranica. Issa (Amadou Mbow), uno stimato detective trentenne della polizia locale, riceve l’incarico di indagare sulla causa dell’incendio avvenuto nella casa di Omar dopo il matrimonio. Scopre la relazione clandestina tra Ada e Souleiman, sospetta che il giovane sia l’autore dell’apparente vendetta e mette sotto pressione la donna. Ada trova rifugio e comprensione presso Dior (Nicole Sougou), una trentenne emancipata che gestisce un night club sulla spiaggia. In quel luogo si riallacciano le fila della vicenda, di Ada, di Issa e delle donne, mogli e fidanzate dei giovani scomparsi. Mati Diop, utilizzando molti trucchi visivi, giochi di specchi e reiterazioni di immagini, fa infine balenare la soluzione del mistero. Atlantique è un’opera prima ambiziosa e rappresenta un lodevole tentativo di stratificare tematiche sociali e culturali, contaminandole con molti, decisamente troppi, elementi di genere. L’idea portante è quella secondo cui un portentoso evento magico soprannaturale può determinare il riscatto dopo una tragedia individuale e sociale. Tuttavia il film è decisamente prolisso e si avvita su sé stesso in un incerto equilibrio tra indovinate suggestioni e maldestre riletture dei canoni di genere. Mati Diop è nata e vive a Parigi ed è quindi naturale che proponga una storia, che si svolge interamente a Dakar, cercando di presentare un ritratto socialmente e culturalmente credibile della patria dei propri avi. La rappresentazione della gente, dei mercati, delle strade e delle spiagge, con i barconi dei pescatori, è senza dubbio veritiera e ricca di dettagli significativi. La descrizione del contesto è caratterizzata da spunti non banali: gli operai e i giovani frustrati e insoddisfatti, la piccola classe media che cerca di vivere dignitosamente, gli imprenditori truffaldini che credono di poter agire senza rispettare le leggi e le norme sindacali, la dilagante corruzione che investe anche la polizia, le usanze e gli obblighi familiari e di clan tuttora rispettate anche in città.

Il ritratto delle giovani donne che frequentano i ritrovi e i locali da ballo sulle spiagge, privilegiando la loro indipendenza e lo spirito di resilienza e di solidarietà femminile, configura la messa a fuoco su chi resta in Senegal ed è vittima del dolore per la morte dei maschi migranti. Tuttavia Mati Diop sviluppa la storia in termini ben poco convincenti. L’operazione centrale della scrittura di Atlantique, curata dalla stessa Diop e da Olivier Demangel, ovvero la scelta di incorporare la tradizione orale di favole e leggende africane nell’ingranaggio narrativo, in una versione che coniuga il dramma reale con il cinema dei fantasmi e degli zombies, risulta fragile, molto pasticciata e semplificata e non riesce a costruire un vero contesto imprevedibile, inquietante e simbolico. Ne sono testimonianza gli squilibri narrativi, le incongruenze logiche, la scarsa accuratezza dei dialoghi, le esagerazioni e i banali clichés, nel rappresentare i deliri e le peregrinazioni notturne, e uno stucchevole finale consolatorio.

 

Cannes 2018

"Atlantique (Atlantics)", Mati Diop

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LE JEUNE AHMED, di Jean – Pierre & Luc Dardenne (Belgio) Best Director

Le jeune Ahmed (The young Ahmed), scritto e diretto dai veterani belgi Jean - Pierre e Luc Dardenne, affronta lecitamente un tema di grande attualità, soprattutto in Belgio, sede di anni di tragici fenomeni di radicalizzazione jihadista di un consistente numero di appartenenti alla forte minoranza di immigrati musulmani, con conseguenti azioni di terrorismo e attentati sanguinosi. E quindi ci pare risibile e assurdo che alcune “anime belle” accecate da pregiudizi ideologici, tra i giovani critici presenti a Cannes, si siano sfogati ad accusare i Dardenne di islamofobia. Si tratta di un coming of age film che racconta l’ostinato itinerario di un adolescente musulmano indottrinato all’estremismo il quale si propone di compiere un atto esemplare per difendere l’integrità del messaggio coranico dalle presunte azioni ostili dei cosiddetti infedeli. Costruito come un thriller, è un’opera caratterizzata da toni melodrammatici e didascalici, nonostante il dichiarato impegno dei Dardenne a essere rigorosi. Il tredicenne Ahmed (l’esordienteIdir Ben Addi) è uno studente apparentemente mite, inoffensivo e socialmente non disagiato. Vive in una città della Vallonie (presumibilmente Liegi), insieme alla madre belga e alla sorella, maggiore di qualche anno, mentre suo padre, verosimilmente di origine araba, è assente. Il film inizia “in media res” ovvero si assiste a varie manifestazioni di fanatismo religioso intransigente e di ossessione per la “purezza” da parte di Ahmed. L’iman Yousouf (Othmane Moumen) quarantenne, islamista militante e proprietario di un negozietto di alimentari, è diventato il padre spirituale di Ahmed, e spinge i propri giovani adepti a combattere con la violenza non solo gli infedeli, ma anche i membri della comunità musulmana che deviano dall’interpretazione integralista del Corano, predicata da lui stesso. Anche se non è del tutto chiaro quando e perché sia avvenuta la recente radicalizzazione di Ahmed, appare ben presto evidente quale sia la missione che si è imposto. Per lui, il nemico da punire è Inès (Myriem Akheddiou), una sua docente trentenne di origine nordafricana che si propone di insegnare l’arabo con le comuni tecniche moderne, senza ricorrere al Corano come unico strumento per l’apprendimento linguistico, ma utilizzando persino i testi di canzoni popolari. Un giorno il ragazzo si presenta alla porta dell’appartamento di Inès e cerca di accoltellarla e di ucciderla. Ma, essendo concitato e maldestro, fallisce. Dopo l’arresto, Ahmed viene inviato in un istituto di rieducazione in cui gli psicologi e gli educatori si mostrano comprensivi e rispettosi rispetto alla sua scelta religiosa. Lo inseriscono in un programma di recupero e di reinserimento sociale che prevede anche un’attività lavorativa in una fattoria con allevamento di animali. Ahmed si mostra obbediente e disciplinato, ma quando è solo con sé stesso i comportamenti denotano che la sua ossessione è rimasta ben presente e chenon demorde dai suoi propositi. Le jeune Ahmed è un film molto ambizioso, ma risulta artificioso perché troppo pensato, schematico e contraddittorio. In effetti porta alle estreme conseguenze l’involuzione creativa e poetica del cinema dei fratelli Dardenne. Purtroppo, da circa una decina d’anni dimostrano di essere ormai ben lontani dai loro primi eccellenti instant movies esistenziali, La promesse (1996), Rosetta (1999), Le fils (2002), e L’enfant (2005), che sono caratterizzati da intensa fisicità e ambientazione scarna, da uno sguardo laico ed essenziale e da una narrazione “in presa diretta”, con un ritmo stringente. Successivamente Le silence de Lorna (2008) e Le gamin au vélo (2011), hanno marcato una maggiore vicinanza ai temi dell’attualità sociale e un’osservazione naturalistica più sottile dei personaggi a partire da una profonda compassione per gli stessi. Deux jours, une nuit (2014) e La fille inconnue (2016) accentuano ulteriormente la propensione al racconto morale, sconfinando nel finalismo didascalico.

Cannes 2018

"Le Jeune Ahmed", Jean – Pierre & Luc Dardenne

 

I Dardenne optano ormai per un approccio umanitario “cattolico” piuttosto sterile e per una suspense del tutto artificiosa. Le jeune Ahmed denota tutti i suoi gravi limiti già a partire dalla sceneggiatura in cui la rappresentazione del contesto appare piuttosto incerta e semplificata. Tutto il processo di recupero del giovane fanatico, determinato e pericoloso, appare viziato da una forzosa disponibilità alla fiducia da parte dell’autorità giudiziaria e dei servizi rieducativi. Ahmed viene rappresentato con un’ambigua accondiscendenza: è un tipo pericoloso, abile nel dissimulare la scelta della violenza, ma viene presentato anche come un adolescente psicologicamente fragile e vittima de proprio narcisismo, da comprendere e aiutare. Infine l’epilogo - rivelazione pseudo catartico e grottescamente consolatorio mina fortemente la credibilità dell’intero percorso narrativo. La messa in scena ripropone il consueto pedinamento del protagonista, ma risulta inefficace perché è solo formalmente rigorosa, intensa e ruvida: non configura più un vero “thriller dell’anima”.

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LES MISÉRABLES, di Ladj Ly (Francia) Jury Prize ex aequo

Les Misérables, lungometraggio di esordio di Ladj Ly, francese quasi quarantenne con origini familiari nel Mali, è un cosiddetto “film de banlieu”. È ambientato a Montfermeil, un piccolo comune della periferia metropolitana parigina che ospita una delle tante “cités”, grandi agglomerati di palazzoni di edilizia popolare con popolazione multietnica e molteplici emergenze sociali: estesa disoccupazione giovanile, criminalità legata al traffico di droghe, scarsa qualità dei servizi sociali, ribellismo antistatale e fenomeni di radicalizzazione islamista. Ladj Ly vi ha abitato per anni, fin dalla prima infanzia. Purtroppo è un dramma molto pretenzioso, ma ben poco credibile. La rappresentazione del contesto e delle dinamiche dei gruppi in conflitto, le diverse gang criminali, i poliziotti e i giovani del quartiere è artificiosa, perché è viziata da mediocri stereotipi. E la costruzione narrativa, drammaticamente altalenante, sfocia in un epilogo didascalico enfatico e fuorviante. Al centro della vicenda, che copre l’arco temporale di due giorni, vi è una pattuglia della “Brigade Anti - Criminalité”, che ha l’incarico di sorvegliare le strade di Les Bosquets, il complesso abitativo di case popolari più degradato e pericoloso. Chris (Alexis Manenti, anche co-sceneggiatore del film), il sergente bianco cinico e razzistae Gwada (Djebril Zonga), il negro più responsabile e cosciente, ma solidale a prescindere con il compagno, sono una coppia di agenti con anni di esperienza: conoscono tutti i kaïd malavitosi e intrattengono con loro relazioni controverse. A loro viene affiancato Stéphane (Damien Bonnard,), un collega trasferitosi di recente. Siamo di fronte a una citazione, “mutatis mutandis”, di Training Day (2011), di Antoine Fuqua, in una ennesima versione del classico dualismo poliziotto buono / poliziotti più o meno cattivi. Ladj Ly si dilunga, in un clima da commedia parodistica, nell’affastellare episodi in cui i tre agenti si confrontano con diversi interlocutori: la banda dei narcotrafficanti, quelli che controllano la prostituzione, quelli che taglieggiano i commercianti, l’ambiguo “sindaco” del quartiere, un boss che si è autonominato mediatore tra le gang (Steve Tientcheu), una confraternita di grotteschi “Fratelli Musulmani” guidata da un ex galeotto, vari clan giovanili. Finché, all’improvviso, la situazione precipita a causa di un evento minore. Poi nel corso del concitato arresto di un ragazzo, Gwada compie un atto violento ingiustificabile e scopre che un drone lo ha filmato.

Inizia il vero dramma e, dopo varie vicende, giunge un lungo epilogo violentissimo e “moralista”, all’insegna di un’insostenibile logica di vendetta giustizialista dei giovani contro i poliziotti, ma anche contro i ras delle gang, accomunati a causa dei loro intrallazzi “conflittuali” per mantenere lo statu quo nel quartiere. Fin dagli anni ’80 si è gradualmente affermato in Francia il genere dei “banlieu - films” dedicati alla grave patologia sociale delle periferie di Parigi e di Marsiglia. Tra le prove d’autore la più significativa è, La Haine (1995), di Mathieu Kassovitz, perché riesce a rappresentare meglio il mix di problemi e di sentimenti di frustrazione e di odio presente nelle cités. Les Misérables non è affatto innovativo e, anzi, scopiazza malamente molti spunti presenti in altri banlieu - films e guarda superficialmente al cinema più conflittuale di Spike Lee, in particolare a Do the Right Thing (1989).

 

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"Les Misérables", Ladj Ly

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BACURAU, di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles (Brasile) Jury Prize ex aequo

Bacurau, terzo lungometraggio scritto e diretto dal cinquantenne brasiliano Kleber Mendonça Filho, in collaborazione con il suo abituale scenografo Juliano Dornelles, è solo apparentemente un film baroccheggiante molto colorato, espressione ostentata di una cinefilia bulimica. È un’opera che mette insieme disinvoltamente molteplici generi: il dramma sociale e antropologico distopico con contaminazioni di fantascienza; l’epopea popolare con tracce di commedia; il western in versione sertaneja; il thriller atipico con venature horror e splatter. Molti critici ne hanno ovviamente individuato la vera natura di apologo politico che vorrebbe prospettare. attraverso la metafora, il triste destino del Paese dopo le elezioni dell’autunno del 2018 che hanno insediato come Presidente della Repubblica Jair Bolsonaro, un politico reazionario di destra, votato dall’ampia maggioranza degli elettori. Ma, analizzandolo dettagliatamente, si scopre che si tratta di una allegoria che, dietro la facciata del cinema d’autore “creativo” e provocatorio, nasconde un pamphlet autoreferenziale, mortifero e distorsivo, che esalta scriteriatamente lo spettro della lotta popolare armata come esperienza mitica e liberatoria. All’inizio del film vi è un espediente narrativo: una scritta avvisa lo spettatore che la vicenda si svolge in un futuro ben prossimo. Bacurau è un remoto villaggio con una popolazione di poco più di un centinaio di abitanti, sperduto nel sertão brasiliano. È una comunità in cui tutti rispettano le abitudini e le stramberie altrui e sono solidali, tra gadget tecnologici moderni e pregiudizi, riti e tradizioni ancestrali, una sessualità libera e promiscua senza limiti e il consumo generalizzato di droghe naturali e sintetiche. La popolazione, che appare molto unita e orgogliosamente legata alla memoria dei cangaçeiros, i banditi sanguinari attivi nel Nordeste degli anni tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, a cui è dedicato il piccolo museo locale, vive in condizioni difficili. Tony Jr. (Thardelly Lima), il sindaco cialtrone e corrotto di Arco Verde, il comune da cui dipende il villaggio, ha interrotto le forniture idriche. In questo contesto avvengono le esequie di Carmelita, la matriarca riverita da tutti, deceduta all’età di 94 anni. Sono presenti anche il figlio Plinio (Wilson Rabelo), insegnante dell’unica scuola, e Domingas (Sônia Braga), vecchia dottoressa scarmigliata, lesbica e alcolizzata. Nei giorni successivi inizia una serie di eventi strani e sconcertanti. Plinio scopre che il villaggio non è più localizzabile sulle mappe satellitari di Google Earth, poi anche il segnale telefonico scompare e infine compaiono i primi morti. Un gruppo di una decina di presunti turisti yankee, accampati da qualche tempo ad alcuni chilometri dal villaggio e guidati da Michael (Udo Kier), ha iniziato ad ammazzare il maggior numero possibile di abitanti, per seminare terrore e disperazione. Si comportano come una masnada di psicopatici goliardi in cerca di emozioni forti. Gli abitanti di Bacurau individuano i nemici e, dopo un acceso dibattito, convincono Lunga (Silvero Pereira, noto attore trans), una sorta di feroce nuovo cangaçeiro, a mettersi a capo delle operazioni di autodifesa. Dopo Aquarius (2016), dramma esistenziale con velleità di denuncia politica e morale mistificante e manichea, che coniuga un immaginario legato al cinema di genere con una calcolata e schematica vocazione alla testimonianza politica propagandistica, Bacurau porta alle estreme conseguenze la scelta di Kleber Mendonça Filho a favore di un cinema politico, rozzamente allarmista. Tuttavia l’essenza della parabola politica è mascherata da una strategia narrativa fortemente affabulatoria e con un variegato campionario di incursioni nei generi e nel cinema di diversa provenienza. Cita, rilegge e mescola, contenuti e poetiche di registi ben noti: Glaber Rocha, Sergio Leone e Sergio Corbucci, John Carpenter, Dennis Hopper, Ruggero Deodato e molti altri.

Cannes 2018

"Bacurau", Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles

 

Ne risulta una narrazione sfrenata, con continui cambi di registro e di tecnica, visivamente molto ricca. La messa in scena combina l’insistenza caricaturale costumbrista e la spettacolarizzazione della violenza, sfruttando pienamente il sistema widescreen anamorfico con effetti panoramici e realizza exploit estetici mediante l’ampio uso del dolly, fluidi movimenti di macchina, tendine e dissolvenze incrociate. Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles inneggiano a un fantomatico “popolo unito” che accoglie e celebra banditi di ogni sorta e che incorpora tutte le ossessioni e i miti della presunta sinistra populista brasiliana: armonia interrazziale, liberalizzazione del consumo delle droghe e il solito prosaico universo polisessuale. In sostanza l’assurda storia dei gringos americani a caccia di prede umane, in combutta con il sindaco corrotto, serve a sollecitare lo spettatore a condividere la spettacolare mattanza finale degli invasori da parte del popolo, armato con i fucili e le pistole dei cangaçeiros conservati nel museo (?!) , glorioso e vincente.

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IT MUST BE HEAVEN, di Elia Suleiman (Palestina) Jury Special Mention FIPRESCI Award

It Must Be Heaven, del veterano palestinese Elia Suleiman è un diario personale e politico, tra gentile umorismo surreale ed elegia del proprio popolo ghettizzato. Suleiman vive pacificamente nella casa avita di Nazareth (cittadina a maggioranza araba e palestinese in Israele) e visita la tomba di sua madre nel cimitero cristiano. Assiste a gustose scenette e a piccole gag: una processione pasquale di cristiani ortodossi con esito inaspettato; i comportamenti di pittoreschi e importuni vicini; un siparietto che vede protagonisti due infastiditi avventori di un bar che mettono in discussione che si serva cibo cotto nel vino. Per non parlare di gruppi di giovani armati di bastoni che corrono nelle strade preparandosi a uno scontro. Poi il regista - attore parte recandosi a visitare i due Paesi simbolo di libertà e di civile convivenza. Ma anche all’estero trova segni di insofferenza, di egoismo e di inasprimento delle misure di controllo e di sicurezza. Parigi  è  teatro di piccole prepotenze degli uni contro gli altri, è vistosamente pulita, ordinata e vigilata da moltissimi poliziotti onnipresenti che controllano passo, passo gli homeless, perseguono i venditori ambulanti e fanno rispettare burocraticamente le norme di occupazione del suolo pubblico per i dehors dei caffé. Quando incontra un indaffarato produttore francese, Suleiman si sente dire che il progetto del suo nuovo film non sarebbe abbastanza palestinese, vale a dire che non conterrebbe i clichés più conosciuti. A New York la gente circola  portando in spalla con noncuranza  mitra, fucili e bazooka. E l’executive di una casa di produzione cinematografica, che gli è stata presentata dal suo amico Gael Garcia Bernal, liquida il regista con gelida cortesia, essendo del tutto disinteressata rispetto al suo cinema. Ovunque Suleiman osserva silenziosamente piccoli incidenti, abitudini disdicevoli, scortesie ed episodi grotteschi che gli ricordano le limitazioni, i vizi e la difficile convivenza interetnica e interreligiosa che esistono in Israele, nei Territori occupati della West Bank e in Palestina, e che gli sono ben familiari. Quindi torna a casa, dove nulla è mutato, e sembra sperare nei giovani che danzano liberi e felici in una discoteca.

It Must Be Heaven è una brillante e malinconica commedia dell'assurdo e degli equivoci: mette alla berlina la violenza e l'estremismo, senza giungere mai alla critica radicale. Ripropone, con maggior arguzia, l'approccio e alcuni  temi del precedente The Time That Remains (2009), sincero ed emozionante ritratto della vita quotidiana dei palestinesi che, in seguito alla formazione dello Stato di Israele e alle guerre successive, con la modificazione dei confini, hanno scelto di rimanere ad abitare nelle loro terre native. Sono definiti “arabo - israeliani”, essendo una minoranza nel Paese ebraico.  Elia Suleiman guarda di nuovo a Jacques Tati e a Buster Keaton, ma anche a Otar Ioseliani e forse persino a Roy Andersson. Propone una narrazione efficace, ma frammentaria, episodica e fluttuante, studiata e istintiva al tempo stesso, ma mai retorica. Interpreta sé stesso come un personaggio muto, attonito e impassibile, ma non passivo, e, spesso, contempla gli altri con un sorriso beffardo quasi impercettibile. Gioca su uno spaesamento calcolato, sui tableax vivants che animano le microstorie, sui tempi di una comicità slapstick e deadpan, sulla ripetizione dei gesti e sfrutta abilmente il fuori campo.

 

Cannes 2018

"It Must Be Heaven", Elia Suleiman

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MEKTOUB, MY LOVE: INTERMEZZO, di Abdellatif Kechiche (Francia)

Mektoub, My Love: Intermezzo, settimo lungometraggio di Abdellatif Kechiche, francese di origini tunisine, è il secondo film della sua trilogia inaugurata con Mektoub, My Love: Canto Uno (2017), presentato alla Mostra di Venezia. Questa seconda parte, ambientata sempre a Sète, sulla costa del Mediterraneo, durante la stessa estate del 1994 e, sostanzialmente, con gli stessi personaggi, continua, emozionandoci sempre meno, l'estenuante elegia di una specie di Eden perduto, o meglio, immaginato da una memoria deformata. Propone un affresco in cui giovani, figli di immigrati dal Maghreb e francesi nativi, vivono gioiosamente insieme senza tensioni, pregiudizi e fantasmi etnici e religiosi, nel segno di un enfatico destino, il mektoub (parola araba che significa “già scritto” e che allude appunto al destino). Il microcosmo, descritto con un flusso di situazioni e di immagini, con detours, ripetizioni e divagazioni, puntando su un realismo naturalista apparentemente sfrontato e radicale, è già stato chiaramente configurato nella prima parte, in cui il tempo trascorre tra ore perse, la spiaggia e le serate nei bar, nei ristoranti e nelle discoteche. Emerge un cinema di pura presenza corale, con una narrazione destrutturata che si stempera in una sequela di confidenze, dispetti, seduzioni, rapporti sessuali di vario genere, con sovrapposizione e confusione dei corpi e tranquilla promiscuità. Si susseguono illusioni, amori, tradimenti cercati e subiti con nonchalance e disamori, in un contesto di incontinenza verbale, con dialoghi oziosi, che rammentano Marivaux, Rohmer, ma, purtroppo, anche Vanzina. Chiunque va a letto con chiunque, senza porsi domande sulla propria e altrui appartenenza culturale e identitaria. Si balla, si beve, si mangia, si soddisfano tutti gli appetiti e si vagheggia la Tunisia. Gli adulti, ovvero i genitori e altri parenti, spesso immigrati nordafricani di prima o di seconda generazione, restano sullo sfondo. Mektoub, My Love: Intermezzo continua quindi il diario intimo e “amoroso” di Kechiche, che si rappresenta in Amin (Shaïn Boumedine), un aspirante sceneggiatore ventenne, di origini tunisine, che vive a Parigi, ma è tornato a Sète, dove è nato, per trascorrere l’estate con i genitori, i cugini e gli amici. Il giovane partecipa alla indolente bohème di amici e amiche, ma, soprattutto la osserva e registra momenti e situazioni con la sua macchina fotografica. Per altro questa seconda parte, in cui l’estate sta finendo, è ancora più radicalmente antinarrativa e vede come assoluti protagonisti gli adolescenti e i ventenni e in particolare le donne, senza la presenza degli adulti. E, soprattutto, si riduce a due sole location: la spiaggia e la discoteca. 30’ di chiacchiere in riva al mare per agganciare Marie (Marie Bernard), una diciassettenne nuova arrivata, che viene dalla periferia di Parigi. Poi 170' in discoteca in una notte infinita, tra musica martellante continua, contorsioni dei corpi e dialoghi banali e artificiosi, come quello tra Camélia (Hafsia Herzi), la zia di Amin, e Céline (Lou Luttiau) che discutono sulle loro preferenze sessuali. Amin chiacchiera di letteratura con Charlotte (Alexia Chardard), la turista che ha conosciuta e con cui intrattiene una relazione non nota agli amici del gruppo. Anche Ophélie (Ophélie Bau), l’amica d’infanzia, si intrattiene con lui e gli confida i propri problemi. Da un lato suo padre vorrebbe affidarle la completa responsabilità del piccolo allevamento di capre di famiglia, dall’altro il suo fidanzato Clément, militare di lungo corso, sta per tornare dall’Iraq e in meno di un anno dovrebbero sposarsi. Tuttavia la giovane ama divertirsi e da tempo intrattiene con nonchalance altre relazioni sessuali. Ora l’affair con Tony (Salim Kechiouche), il cugino di Amin, ha determinato una gravidanza. Ma l’amante è del tutto inaffidabile: vuole continuare a mantenerlo segreto, anziché decidere di trasformarlo in un legame stabile e serio. Quindi Ophélie espone il suo dilemma: abortire in segreto e sposare Clément o seguire il proprio istinto materno e rifugiarsi a Parigi, con l’aiuto di Amin, dove potrà partorire. Tuttavia la preoccupazione non le impedisce di ballare con impegno e di accettare le insistenti avances del patetico e insopportabile "draguer" Kamel (Kamel Saadi). I due si appartano in un bagno del locale e seguono 13’ di sesso hard, acrobatico e intensamente arido, che si sostanzia in un interminabile e concitato cunnilingus. Infine 5' dedicati al risveglio di Amin accanto a Charlotte. In Mektoub, My Love: Intermezzo l'esistenzialismo vitalista e sofferto del cinema di Abdellatif Kechiche,  presente nei suoi più riusciti, La graine et le mulet (2007) e La vie d’Adèle - chapitre 1 & 2 (2013), “instant movies”, atipici e similveristi,  che poggiano su un'ossessiva osservazione realista dei personaggi, mostra un evidente impasse.                                       

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"Mektoub, My Love: Intermezzo", Abdellatif Kechiche

 

Il regista punta su un voyeurismo spinto, con ripetizione  insistita degli stessi gesti, immagini e inquadrature (qualcuno ne ha calcolate ben 178 dedicate ai fondoschiena delle “eroine” del film), ma il suo universo generazionale è sempre più collassato, privo di veri desideri e passioni e di sincerità. Sembra quasi che la poetica non didascalica di Kechiche, nutrita di osservazione ossessiva e di magnifica fusione di contenuti, forme e recitazione, in questo film abbia ceduto il passo a un’irritante pretesa di contestualizzazione, tra presunte e insistite immagini iconiche, simbologie retoriche ed estetismi narcisistici. Purtroppo si deve registrare anche una nota sconcertante e clamorosa. Il film presentato a Cannes, senza titoli di testa e credits finali, è durato solo 3 ore e 25 minuti, anziché le 4 ore preannunciate. Per altro Kechiche in conferenza stampa Kechiche ha rivelato che sarà distribuito nelle sale in una versione, già pronta, di una durata su 4 ore. Quindi la versione apparentemente non finita, selezionata per il concorso, ha rappresentato solo una scelta di strategia per mascherare le incertezze del progetto.

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NAN FANG CHE ZHAN DE JU HUI (THE WILD GOOSE LAKE), di Diao Yi’nan (Cina)

Nan fang che zhan de ju hui (The Wild Goose Lake), quarto lungometraggio scritto e diretto dal sessantenne cinese Diao Yi’nan, è un convincente thriller - noir crepuscolare, malinconico e ricco di suggestioni sociali. In una città decadente in cui le gang di ladri di moto e di taglieggiatori si scontrano per aggiudicarsi territori migliori ove operare, un piccolo boss criminale, il quarantenne Zhuo Zenong (Hu ge), appena uscito dal carcere cade in una trappola e uccide un  agente. Ricercato dalla polizia e braccato dai suoi nemici, viene aiutato da Liu Aiai (Gwei Lun Mei). È una prostituta che è stata inviata da Huahua (Qi Dao), il lenone per cui lavora, per comunicare allo stesso Zhuo Zenong un messaggio di sua moglie. La copia di fuggiaschi si nasconde in una zona sulle rive di un lago, meta di un modesto turismo interno, ma anche luogo dove imperversano traffici di ogni tipo. Ma il cerchio si stringe. Zhuo Zenong sembra rassegnato a un destino fatale, ma deve pensare d assicurare un avvenire alla propria moglie e al loro bambino. Diao Yi’nan appartiene alla cosiddetta ”sesta generazione di registi cinesi” che comprende, tra gli altri, Jia Zhang-ke, Zhang Yuan, Wang Xiaoshuai e Lou Ye, .autori molto diversi, ma, in genere, caratterizzati da un sincero interesse rispetto alle condizioni di vita della popolazione, e quindi aperti al realismo sociale, e spesso più o meno critici rispetto al regime cinese. Diao Yi’nan ha ottenuto la consacrazione internazionale con il suo terzo film, Bai ri yan huo (Black coal, thin ice) (2014), premiato alla Berlinale con l’Orso d’oro al miglior film. È un thriller poliziesco che racconta il misterioso caso di una catena di omicidi con scempio dei cadaveri, che si dipana in un arco temporale di cinque anni. È ambientato in una piccola città anonima nel nord della Cina, in un’area costellata da miniere di carbone e vecchi impianti industriali, con estati molto afose e inverni rigidi con abbondanti nevicate. Purtroppo ripropone, senza grande originalità e senza vera suspense, stilemi e tipologie umane dei classici americani del genere e struttura una storia centrata sull’ambigua relazione tra un ex poliziotto infelice, alcolizzato e trasandato, ma pervicace, e un’ambigua femme fatale proletaria. Il ritratto del contesto sociale pur interessante risulta troppo stereotipato e soverchiato da un arzigogolato schema di relazioni psicologiche, con diversi momenti surreali, quasi a sottolineare che la realtà e le costruzioni mentali siano spesso inseparabili. Diao Yinan si sforza di confezionare un film di genere credibile, ma dimostra di non essere avvezzo a regole, ritmi e epica del thriller e scivola in un melodramma abborracciato in cui la banalità del male è il risultato di un triste groviglio di gelosia, desiderio di affermazione sociale e irresponsabilità. E ancora, configura facili metafore e messaggi didascalici ad hoc poco convincenti. Al contrario The Wild Goose Lake, il cui titolo in cinese si traduce letteralmente come A Rendezvous at a Railway Station in the South, è un’opera che denota ben altra lucidità e maturità. Propone un mosaico ambientale, antropologico e sociale convincente e figurativamente molto suggestivo.

E riesce a mettere insieme echi dei noir romantici di Marcel Carné e di Julien Duvivier, dei polar, popolati da antieroi scettici e perdenti di Jean - Pierre Melville, dei melodrammi bloccati di Wong Kar-wai e citazioni dei migliori action movie di Hong Kong degli anni ’80 e ’90. La storia è complessa, ma assume un respiro drammatico coerente e non artificioso, intrecciando lotta spietata tra le bande criminali per la supremazia, avidità, crimini e tradimenti, limiti e défaillances della polizia, contrastanti dialettiche sentimentali e amori impossibili. Ne risulta un piccolo universo sporco, squallido e degradato in cui dominano ricatti, minacce, soprusi, trappole e sistematica sfiducia degli uni verso gli altri, tra rabbia, impotenza e ineluttabilità della morte. Diao Yi’nan utilizza i codici di genere ricontestualizzandoli, ma, soprattutto, racconta un'umanità vera e con poche speranze, la stessa presente nei film di Jia Zhang-ke. La sua scrittura è puntuale, il ritmo narrativo è veloce e originale e la messa in scena, ricca di idee, è coadiuvata dall’eccellente fotografia di Dong Jinsong. Dirige con oculatezza un cast di buoni interpreti ed evita il manierismo autocompiaciuto e la deriva didascalica.

 

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"Nan fang che zhan de ju hui (The Wild Goose Lake)", Diao Yi’nan

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SEZIONE HORS COMPÉTITION ET SÉANCES SPECIALES

TOO OLD TO DIE YOUNG, di Nicolas Winding Refn (USA - Danimarca)

Gli episodi 4 e 5 del nuovo  serial di Nicolas Winding Refn, targato Amazon, raccontano  la doppia vita di Martin Jones (Miles Teller): detective della polizia di Los Angeles e killer a pagamento. È un trentenne taciturno, ieratico e letale, che si spinge nel deserto del New Mexico per giustiziare due loschi fratelli. Nicolas Winding Refn propone costantemente il tema della violenza, distorta e dolorosa, amalgamandolo con quello dell’amore, tenero e privo di romanticismo, che compenetra radicalmente i personaggi. La violenza è rappresentata con crudo e straziante realismo e gestita con lucidità e forza creativa sconvolgenti, in virtù della dinamica audace e controllata della messa in scena. Il suo cinema di corpi ed emozioni, antinaturalista e perturbante, configura storie molto dark in cui il reale, oscuro e sordido, si confonde con una deriva surreale. Danese, cresciuto professionalmente negli USA, Refn, che ammira David Lynch, Michael Mann, Alejandro Jodorowsky, Jean-Pierre Melville, Mario Bava e Walter Hill,  è venuto alla ribalta con Pusher (1996, 2004 e 2005), una innovativa trilogia criminale su un gruppo di trafficanti di droga. L’intreccio drammatico nichilista tra amore, disperazione e morte, l’atmosfera rarefatta e ossessiva e il protagonismo maschile, caratterizzano tutti i suoi film: i drammi esistenziali, il malinconico Bleeder (1999) e l’ossessivo e angosciante Fear X (2003); Bronson (2008), uno pseudo biopic affabulatorio e antinaturalistico; Valhalla Rising (2009), una saga epica grandiosa, ipnotica e metafisica; Drive (2011), un melodramma atipico, malinconico e brutale, che mescola tensione aggressiva e ipercinetica e straniamento poetico.

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"Too Old To Die Young ", Nicolas Winding Refn

 

Only God Forgives (2013), ambizioso e squilibrato dramma - thriller psicologico, con corrispondenze nella tragedia greca e nelle saghe shakespeariane e con una contraddittoria virata splatter, ha preannunciato The Neon Demon (2016), un’opera  visivamente raffinata, “provocatoria”, ma piuttosto algida e non emozionante. Il film segna due svolte: una storia al femminile, centrata sulla bellezza pericolosa e viziosa, e  la scelta del genere horror più esplicito. Too Old To Die Young è un thriller notturno, lento, antinaturalista e nichilista, a metà strada tra  Corman e David Lynch. Personaggi inquietanti, privi di emozioni, predicano oscure teorie suprematiste. La violenza è improvvisa  e brutale. Refn conferma il suo enorme talento visivo, nella composizione delle immagini e dei colori Da segnalare la  trascinante colonna sonora sincopata curata da Cliff Martinez.

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THE GANGSTER, THE COP, THE DEVIL, di Lee Won - Tae (Sud Corea)
Un convincente thriller, con ampie dosi di action, ispirato da fatti reali, che propone un'incalzante confronto a tre, tra il potente boss di una gang mafiosa, un poliziotto cinico e determinato e un inafferrabile e folle serial killer. Gli omicidi si moltiplicano a Seoul e dintorni. Il detective Jung Tae - seok (Moo Yul Kim) è certo che almeno tre casi siano opera di un serial killer, ma il suo capo non gli crede. Una notte il misterioso K pugnala Jang Dong - su (Don Lee), ma il gangster sopravvive. Jung Tae - seok convince il criminale  che, avendo perso la faccia, deve vendicarsi, a unire le forze. Lee Won - Tae costruisce personaggi iconici, cita Park Chan - wook, gira benissimo ed evita il moralismo.

 

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"The Gangster, The cop, The devil", Lee Won-Tae

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"Chicuarotes", Gael Garcia Bernal

 

CHICUAROTES, di Gael Garcia Bernal (Messico)

La tragica parabola di due adolescenti che abitano in una borgata a sud di Ciudad de Mexico. I sedicenni Cagalera (Benny Emmanuel) e Moloteco (Gabriel Carbajal) fanno i clown sugli autobus chiedendo le elemosina e all'occorrenza borseggiano la gente: l'uno appartiene a una famiglia numerosa ed è vittima di un patrigno violento, l'altro vive solo in una baracca. Poi attuano maldestramente il sequestro di un bambino, figlio del macellaio, scatenando un'escalation di violenza. La convincente opera seconda diretta dal noto attore guarda a Los olvidados (1950) di Luis Buñuel e ai film dei suoi connazionali Arturo Ripstein e Amat Ascalante. Chicuarotes, realista e compatt, evita il costumbrismo folklorico e la deriva didascalica.

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LUX ÆTERNA, di Gaspar Noé (Francia)

Un medio metraggio che è un divertissement beffardamente nichilista e (auto)referenziale, presentato come making off di un film satanico. Béatrice Dalle e Charlotte Gainsbourg vestono i panni della regista e della protagonista di una pellicola sulle streghe. Inquadrate in split screen, conversano amabilmente, raccontandosi precedenti esperienze nel cinema di genere diabolico. Poi si passa al rodaggio del film, in un crescendo di sperimentazioni visive. Gaspar Noé conferma la sua vis provocatoria e si serve di sequenze di Dies irae (1943) di Carlos Theodor Dreyer e di cartelli con frasi di Dostoevskij, Godarrd e Fassbinder per stroncare il cinema senza idee.

 

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"Lux aeterna", Gaspard Noé

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SEZIONE UN CERTAIN REGARD

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"Dylda", Beatriz Seigner

 

DYLDA (BEANPOLE), di Kantemir Balagov (Russia) Best Director “Un Certain Regard”
Il nuovo capolavoro di Kantemir Balagov, dopo il magnifico Tesnota (Closeness) (2017). A Leningrado nell'autunno del 1945, la gente  soffre tra le rovine: penuria estrema di cibo, traumi, il dolore per i morti, ma anche il rigido regime stalinista con la coabitazione forzata, la falsa retorica e il ferreo controllo sui comportamenti. Due giovani donne, Ilya (Viktoria Miroshnichenko) e Masha (Vasilisa Perelygina), assistono  ex soldati con gravi mutilazioni in un ospedale. Vivono in simbiosi, ma la loro relazione umana è sottoposta a prove dolorosissime. Un dramma intenso ed emozionante, con personaggi veri e una messa in scena, valori estetici e recitazione eccezionali.

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SEZIONE SEMAINE DE LA CRITIQUE

CHAMBRE 212, di Christophe Honoré (Francia) Best Actress “Un Certain Regard”

Una commedia leggera con una sarabanda surreale di personaggi: tutto in una notte. Maria (Chiara Mastroianni) è un'insegnante universitaria quarantenne, sposata da vent’anni, e ha appena concluso prosaicamente una relazione con un suo studente. Una sera il marito, sbirciando il cellulare di Maria, se ne accorge, ma lei minimizza. Poi, di soppiatto, si trasferisce nell'hotel di fronte  e osserva dalla finestra lle azioni e le reazioni del coniuge  sconcertato. Tuttavia non è sola: apre una porta e inizia a  confrontarsi, in una fantasia reificata, con amici e rivali. Christophe Honoré gioca con i sentimenti, ma l'atipica introspezione di Maria  diverte poco e si perde tra  parole e musica in libertà, piccoli sketch e tante ripetizioni.

 

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"Chambre 21", Christophe Honoré

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"Papicha", Mounia Meddour

 

PAPICHA, di Mounia Meddour ( Algeria)

Un esordio convincente ispirato a una storia vera avvenuta in Algeria, durante gli anni '90, tragicamente segnati dagli eccidi perpetrati dai terroristi islamisti del GIA e dagli arbitri dell’esercito e della polizia. Nedjima (Lyna Khoudri) ha 18 anni e studia nella Cité universitaria: brillante, indipendente e laica, ha molto talento come designer di moda. Crea i propri vestiti e li vende nella discoteca che frequenta con alcune amiche. Ma, giorno dopo giorno, le vessazioni dei fanatici e i massacri attuati dei terroristi jihadisti aumentano. Quando la sua amica giornalista Linda (Meryem Medjkane) viene assassinata, Nedjima decide di organizzare una sfilata di moda nella Cité. Mounia Meddouri realizza un'opera emozionante, girata benissimo: per ricordare e per sperare in un futuro di libertà.

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ZHUO REN MI MI (NINA WU), di Midi Z (Taiwan)

Il ritratto sofferto e drammatico di un attrice, decisa ad affermarsi, che precipita in un'inquietante psicosi. La trentenne Nina (Wu ke-xi) vive a Taipei da 8 anni, dopo aver lasciato l'idilliaca cittadina natale e Kiki (Sung Yu-hua), collega teatrante e amante. Si barcamena tra pubblicità e un diario osé on line. Un giorno arriva la grande occasione: il ruolo di protagonista in un importante film d'epoca di spionaggio. Nina mostra talento e determinazione e ottiene la parte. Subisce umiliazioni e trionfa, ma poi diventa preda di un incubo ossessivo. Midi Z abbandona i temi sociali e realizza un'opera elegante, conturbante ed efficace, anche se l'epilogo - rivelazione non soddisfa.

 

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"Nina Wu", Midi Z

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SEZIONE QUINZAINE DES RÉALISATEURS

AUNG HUPA (THE HALT), di Lav Diaz (Filippine)

Un radicale melodramma di denuncia del tragico presente, fingendo di raccontare un possibile futuro. Nel 2034, a 3 anni da devastanti eruzioni vulcaniche nel Mar di Celebes, l'intero sud - est dell'Asia è precipitato nel buio e flagellato da un'epidemia letale di influenza. Nelle Filippine il folle Presidente dittatore Nirvano Navarra (Joel Lamangan) sfrutta il caos per attuare massacri utilizzando polizia ed esercito. Lav Diaz è noto per essere autore di un cinema duro, low budget e privo di compromessi. Ricordiamo alcuni suoi lungometraggi fra i più recenti: Melancholia (2008), una meditazione sulla vita, sull’amore e sulla sofferenza; Siglo ng pagluluwal (Century of birthing) (2011), in cui rappresenta il fondamentalismo e l’estremismo religioso, con i suoi meccanismi di coercizione emotiva e, parallelamente, descrive la difficoltà della creazione artistica nel cinema; Norte, hangganan ng kasaysayan (Norte, the end of the history) (2013), in cui, attraverso una revisione critica del romanzo “Delitto e castigo”, capolavoro di Fyodor Dostoyevsky, propone un melodramma esistenziale che si avvita su sé stesso; Mula sa kung ano ang noon (From what is before) (2014), una storia tragica di repressione violenta ambientata in un villaggio rurale periferico, nel 1972, nell’epoca della dittatura di Marcos, con un simbolismo asfittico;. Hele sa Hiwagang Hapis (A Lullaby by the Sorrowful Mistery) (2016), in cui racconta un intreccio di fatti, tra storia, leggenda, mitologia, letteratura e poesia, che si inquadrano nella Rivoluzione Filippina del 1896-98 che determinò la fine della dominazione coloniale spagnola, che si riduce a una saga con personaggi intrappolati nella foresta pluviale; Ang Babaeng Humayo (The Woman Who Left) (2016), un atipico thriller psicologico, che si svolge nel 1997, quando le Filippine furono investite da una delle periodiche ondate di criminalità, tra uccisioni e sequestri a scopo di riscatto, un film “popolare” e quasi mainstream in cui si incrociano temi quali la vendetta, la colpa, il perdono e, l’impossibilità della riconciliazione. Ang Panahon ng Halimaw (Season of the Devil) (2018), un tragico dramma esistenziale d‘epoca risolto in chiave di opera rock, ispirato a fatti reali che si svolgono alla fine degli anni ’70, nell’epoca della più dura repressione attuata dalla dittatura di fatto del Presidente della Repubblica Marcos. Lav Diaz propone un cinema di escavazione nella memoria di un Paese dalla storia tormentata, un cinema di disseppellimento del rimosso e di riesumazione dei fantasmi del passato. È esteticamente rigoroso, a partire dal vivido bianco e nero della maggior parte dei suoi film, e omogeneamente teso a descrivere percorsi esistenziali marcati da complesse problematiche sociali e politiche. I suoi personaggi sono tristi, lacerati e perseguitati, ma dimostrano anche volontà di capire e di battersi per combattere il dolore e per sopravvivere. Uomini e donne seguiti nelle loro routine quotidiana e descritti nei dettagli più intimi, con tipiche dilatazioni dei ritmi, detours e molti momenti di lento flusso di parole, per mostrarne personalità e stati d’animo. Solitamente Diaz predilige i long shots con effetti alternanti, a volte claustrofobici o penetranti, altre di grande respiro, i lenti movimenti della macchina da presa, e lunghissimi vertiginosi piani sequenza o, in alternativa, inquadrature fisse su paesaggi brulli o all’opposto brulicanti. Spesso mescola i dialoghi a rumori ambientali o li trasforma in un chiacchiericcio poco decifrabile. In The Halt Lav Diaz ripropone il suo usuale intreccio di microstorie per evocare l'illegalità repressiva dell'attuale Presidente Duterte, in 4 ore e 36 minuti di narrazione compatta e serrata. Tuttavia esagera nella farsa, tra sadiche poliziotte lesbiche, prostitute ridotte a robot e una setta di bevitori di sangue di animali.
https://www.youtube.com/watch?v=y21JbhVj914

AND THEN WE DANCED, di Levan Akin (Svezia - Georgia)
Un convincente dramma di formazione, dall'amicizia a un amore sfortunato. A Tbilisi il diciassettenne Merab Levan Gelbakhiani), di famiglia povera, è allievo dell'accademia del Balletto Nazionale Georgiano. Danza dall'età di nove anni insieme alla sua amica Mary (Ana Javakhishvili) e vuole emergere. Irakli (Bachi Valishvili), un nuovo venuto, attraente e di talento, è un concorrente. Ma poi i due fanno amicizia, escono a divertirsi di notte e alla fine diventano amanti. Finché arrivano ostacoli e disavventure. Levan Akin offre il riuscito ritratto del conflitto tra tradizione conservatrice e pulsioni trasgressive, tra fratture familiari, orgoglio, mito della mascolinità e desiderio di vivere liberamente.
https://www.youtube.com/watch?v=nGzvEXIktTo

PARWARESHGAH (THE ORPHANAGE), di Shahrbando Sadat (Danimarca - Germania - Francia - Lussemburgo - Afghanistan)

Un piccolo racconto di formazione a Kabul, alla fine degli anni '80, durante il governo sostenuto dall'URSS. Qodrat (Qodratollah Qadiri) ha quindici anni: vive in strada vendendo portachiavi e facendo il bagarino davanti al cinema. Fermato dalla polizia è internato in un orfanatrofio. I ragazzini si azzuffano, ma imparano anche a essere solidali. L'opera seconda di Shahrbando Sadat propone una narrazione fresca, utilizzando giovani non attori. Tuttavia l'ambientazione è abbastanza di maniera e la credibilità del contesto rappresentato è discutibile: una memoria edulcorata

GIVE ME LIBERTY, di Kirill Mikhanovsky (USA)
Una commedia briosa e sottilmente malinconica, tra documentario atipico e pochade interetnica, ambientata a Milwaukee. Vic (Chris Galust), un volonteroso ventenne è l'autista di un van che trasporta persone con handicap fisici o psichici. Ma in un fatidico mattino d'inverno non può rifiutarsi di caricare sul mezzo suo nonno e altri anziani immigrati russi che devono recarsi al cimitero per il funerale di un'amica scomparsa. Ma quando si arrestano in un quartiere di black per raccogliere Tracy (Lauren “Lolo” Spencer), affetta da SLA, inizia una sequela di guai. Kirill Mikhanovsky, quarantenne russo, radicato negli USA, è sincero e tiene insieme un cast variegato, ma esaurisce presto le idee brillanti.
https://www.youtube.com/watch?v=pbdq1O7Bm1E

TLAMESS, di Ala Eddine Slim (Algeria)

L'itinerario misterioso e drammatico di un trentenne algerino in fuga. S. (abdullah Miniawi) è un soldato impegnato nelle operazioni di repressione dei terroristi islamici. Un giorno ottiene un congedo di pochi giorniper partecipare ai funerali della propria madre. Trascorrono le settimane: S. diserta, sottraendosi alla polizia militare, e si eclissa sulle montagne. Anni dopo F. (Souhir Amara), moglie incinta di un ricco uomo d'affari, abbandona la grande villa dove abita, va in una foresta e incontra S. I due iniziano una strana relazione. L'opera seconda di Ala Eddine Slim ne conferma il talento visivo, ma risulta più pretenziosa e criptica che poetica.
https://www.youtube.com/watch?v=d4jHPC5nVbE

SEZIONE SEMAINE DE LA CRITIQUE

LITIGANTE, di Franco Lolli (Colombia)

Un eccellente ritratto femminile, tra difficoltà e resilienza. Ambientato a Bogotà, racconta una fase critica della vita di Silvia (Carolina Sanín), una donna forte, ma seria e dignitosa: un'avvocatessa quarantenne impiegata nella pubblica amministrazione, senza marito e mamma di un vivace bambino di cinque anni, che si trova accusata in un presunto scandalo di corruzione. L'angoscia aumenta perché sua madre Leticia (Leticia Gómez), malata di cancro polmonare, è peggiorata. Ma Silvia non esita ad accettare una nuova relazione: la prima storia d'amore dopo molti anni. Franco Lolli conferma il felice approccio presente nel film di esordio, Gente de bien (2014). Confeziona un dramma molto ben scritto, credibile, essenziale ed emozionante, al cui centro vi è il confronto caratteriale e culturale tra Silvia e sua madre.
https://www.youtube.com/watch?v=7OSVIqF61kM

CENIZA NEGRA, di Sofia Quiros Ubeda (Costa Rica)

Un esordio originale, ma irrisolto. L'itinerario di formazione di Selva (Smachleen Gutiérrez), una minuta tredicenne, introversa e inquieta che vive in un villaggio costiero del Caribe. La ragazzina trascorre molto tempo con i nonni anziani e pazienti, apprendendo antiche usanze e ricette. E peregrina nella foresta e in riva al mare, osservando la natura e gli animali e perdendosi in fantasie su cosa avviene dopo la morte. Sofia Quiros Ubeda fonde spirito documentarista e vocazione poetica e privilegia ritmi lenti, immagini elaborate e suggestioni misteriose, ma risulta spesso artificiosa.
https://www.youtube.com/watch?v=00OwkmEoz7o

 

 


 

 

 

 

 

 

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72. CANNES FILM FESTIVAL 2019

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14 - 25 / 05 / 2019

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