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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 24. MED FILM FESTIVAL ROMAI DI GIOVANNI OTTONE I 2018

24. MEDFILM FESTIVAL 2018

a Roma vince il cinema frencese

L’Île au trésor, del francese Guillame Brac, vincitore del Premio, “Amore e Psiche”, miglior film del Concorso Ufficiale per i lungometraggi e mediometraggi

DI GIOVANNI OTTONE

"L’Île au trésor", Guillame Brac

Med Film Festival

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"Il MedFilmFestival, il pù antico Festival internazionale che si svolge a Roma e unica rassegna cinematografica italiana dedicata al cinema dei Paesi del Mediteraneo e dell’Europa, con incursioni anche nel Medio Oriente e nel Maghreb,  nasce nel 1995 in occasione del Centenario del Cinema e della Dichiarazione di Barcellona. Il Festival esprime una mission ben definita: opera per la promozione del dialogo interculturale e la cooperazione commerciale tra l’Europa ed i paesi della sponda sud del Mediterraneo e del  Medio Oriente, attraverso il cinema di qualità e gli audiovisivi, finestre aperte sul mondo per riconoscere e apprezzare la diversità come un valore e la cultura come volano per l’economia. I suoi obiettivi promozionali, che influenzano la selezione dei film proposti sono i seguenti: la tutela dei diritti umani e il dialogo interculturale; l’educazione e la formazione dei giovani in ambito socio-culturale; la lotta al razzismo e alla xenofobia; la promozione e la diffusione della cultura europea e mediterranea. Si tratta di una vetrina che presenta un’ampia varietà di proposte e di generi e che si caratterizza per la presenza di molti autori giovani e di opere caratterizzate da forme narrative e soluzioni estetiche innovative. L’edizione di quest’anno, si è svolta  dal 9 al 18 novembre, presso il Cinema Savoy, storica multisala romana che ha ospitato  la maggior parte delle proiezioni, preso il Nuovo Cinema Aquila e presso il Museo MACRO, dove si sono svolte presentazioni di libri, letture e conversazioni. Il programma ha compreso 79 film, tra lungometraggi, cortometraggi e documentari, provenienti da 34 Paesi, di cui  una  cinquantina anteprime, per la maggior parte nazionali, ma anche europee e internazionali. Si è articolato in varie sezioni. Il Concorso Ufficiale “Premio Amore e Psiche” ha compreso 10 lungometraggi in concorso, mettendo insieme per la prima volta feature films e documentari, provenienti da Siria, Libano, Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco Francia, Spagna, Turchia e Iran, e 4 film fuori concorso, provenienti da Francias, Israele, Danimarca e Tunisia. Inoltre  il programma ha presentato l’ampio Concorso  Internazionale cortometraggi “Premio Methesis” e a un’ampia sezione Corti Fuori Concorso e  la sezione denominata  “ Le Perle: Alla scoperta del cinema italiano” che ha raccolto  5 film.  In aggiunta il Festival ha presentato due interessantissime vetrine - panorama: la prima, denominata “Deseo y Mágia: Focus España”, comprendente 6 cortometraggi di giovani autori spagnoli; la seconda  denominata “Rather Be Horizontal: Women in Film” dedicati a specifici ritratti femminili, comprendente 2 lungometraggi, da Tunisia e Israele e 8 cortometraggi. Il MedFilm Festival ha anche presentato, con grande rilievo,  tre  lungometraggi  della selezione del “Premio Lux per il Cinema 2018” sostenuto dal Parlamento Europeo, di cui quest’anno ricorre il decimo anniversario: Styx, dell’austriaco Wolfang Fischer; Lazzaro felice, di Alice Rohrwacher; The Other Side Of Everything, documentario della serba Mila Turajili?. Una scelta che si deve alla perfetta sintonia tra le finalità del Premio e la mission del Festival stesso.

La Giuria del Concorso Ufficiale, composta da Anna Bonaiuto, Valia Santella, Patrizio Nissirio, Babak Karimi e Jacopo Quadri, ha assegnato i Premi  ai seguenti tre film che commentiamo.

L’Île au trésor,  del francese Guillame Brac, ha ottenuto il Premio Amore e Psiche al miglior film. Si tratta di un documentario con carattere finzionale, che costituisce, insieme al suo precedente Contes de Juillet (2017), la seconda parte di un  dittico girato  nel grande parco naturale di Cergy – Pontoise. È una vasta area pubblica delimitata eorganizzata per attività creativecon un vasto laghetto artificiale, spiaggette e  piccoli corsi d’acqua e attrezzato con  spazi per attività sportive, essendo ubicato nella banlieu a pochi chilometri dal centro di Parigi.   Ambientato durante le vacanze estive, descrive  la routine quotidiana, affastellando piccole storie ed episodi prosaici che coinvolgono i frequentatori, specie gli adolescenti, indisciplinati, ma mai cattivi o pericolosi e l’équipe dei giovani sorveglianti, tra cui un ventenne che corteggia due ragazze, conducendole su una magica isoletta dopo l’orario di chiusura. Tuttavia lo sguardo è troppo dispersivo e si ha l’impressione di una cronaca troppo  costruita e impostata artificiosamente. Prevale un banale bozzettismo, con ritmi noiosi  e non si riesce davvero ad appassionarsi alle schermaglie tra i troppi personaggi, scelti con criteri scopertamente parodistici.

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"The Swing ", Cyril Aris

 

The Swing, opera prima del libanese Cyril Aris, ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria. Si tratta di un eccellente documentario che descrive la quotidianità, e le relazioni con figli e nipoti, di una coppia di  anziani della classe media libanese nel loro appartamento in un condominio residenziale di Beirut. Il regista racconta la propria famiglia, di  religione cristiana, senza veli, con empatia, ma senza rinunciare a mostrare sfumature e dissidi, affrontando i temi dell’affetto, della verità e delle menzogne necessarie. E al tempo stesso offre  un ritratto di grande significato sociale e culturale in un  Paese con un recente passato tragico di guerra civile e con un presente difficile, dove la convivenza tra religioni, etnie e fazioni si fonda su equilibri che devono essere costantemente rivisti e ricostruiti. Antoine, il novantenne patriarca della famiglia  Aris, costretto a letto  da una severa cardiopatia e da vari altri  acciacchi, è un uomo ancora lucido e capace di intendere, nonostante molte lacune nella memoria e momenti di parziale disorientamento.

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Quindi nessuno fra i suoi  congiunti vuole  rivelargli una dolorosissima  notizia: la sua amatissima figlia Marie - Therese, la più assidua nell’ accudirlo per anni, è deceduta mentre si trovava all’estero, in Argentina. La versione concordata, che viene ripetuta ad Antoine, quando il vecchio chiede  della figlia, è quella  secondo la quale la donna sarebbe in viaggio e molto occupata in Sud America.  In effetti questa pietosa bugia è oltremodo difficile da sostenere da parte di Viviane, la moglie settantenne di Antoine, che è  rimasta devastata dalla perdita della figlia ed è obbligata a soffrire in silenzio di fronte al marito. Cyril Aris, nipote di Antoine, costruisce con grande sensibilità un ritratto intimo, molto vero e malinconico, documentando silenzi e conversazioni tra i due coniugi,  ma anche le frequenti visite di tanti membri della famiglia allargata, figli, zii e cugini e di alcuni vecchi amici. Valorizza il non detto, ma anche i ricordi del passato di Antoine, borghese amabile, gentile e premuroso, che, nel corso dei suoi anni più felici, ha viaggiato estesamente in Europa, a Parigi e a Roma, dove ha vissuto per sei anni, frequentando la bella società. In effetti il film non  rivela affatto i dettagli della scomparsa di Marie - Therese, preferendo soffermarsi sulla  dialettica esistenziale e affettiva dei protagonisti. Mescola vari momenti della giornata e di diverse stagioni, inserendo footage e home - video degli anni ’90 e lasciando trasparire comportamenti, opinioni e convincimenti di una coppia che si è molto amata ed è ancora legatissima, perché i due si sostengono a vicenda. Infatti Antoine si lascia ancora andare a intonare canzoni d’amore in italiano per Viviane che considera ”la donna più bella di Beirut”. E, pur  condensando tutto il film allo spazio fisico dell’appartamento, Cyril Aris riesce anche a evidenziare i continui cambiamenti edilizi, che influiscono sulla memoria di Beirut, attraverso le immagini che compaiono agli occhi di Antoine e di Viviane quando siedono  nella spaziosa terrazza del loro appartamento. Nonostante una scarsa raffinatezza tecnica nella costruzione delle inquadrature, dovuta presumibilmente al low budget, The Swing mostra una notevole capacità e onestà nel raccontare le persone e le loro relazioni, evitando il manierismo retorico.

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"Weldi", Mohamed Ben Attia

 

Weldi, opera seconda del tunisino Mohamed Ben Attia (Tunisia), ha ottenuto il Premio Espressione Artistica. Propone il ritratto drammatico della disgregazione di una famiglia di  onesti lavoratori in seguito a un evento inaspettato. Riadh (Mohamed Dhrif), gruista al porto di Tunisi  alla vigilia della pensione, e la moglie Nazli (Mouna Mejri) sono molto protettivi verso Sami (Ben Ayed), il loro figlio unico diciottenne in attesa di finire il liceo. Da un lato si mostrano molto preoccupati per le continue crisi di emicrania che tormentano il giovane, dall’altro lo sovraccaricano di aspettative. Un giorno Sami scompare: si apprende che si è recato in Siria e si è unito all'ISIS.  Riadh cerca invano di ottenere informazioni e fattivi interventi da parte della polizia. Poi entra in conflitto con sua moglie e infine, rotti gli indugi, effettua un viaggio in Turchia. Laggiù incontra varie persone senza alcun risultato concreto, anzi ritorna a casa più sconcertato di prima. Solo dopo molti mesi Sami  effettua un breve contatto via skype con il padre e la madre solo per far loro conoscere la donna che ha sposato e il  bambino nato da poco. Ma a quel punto le strade di Riadh e di Nazli si dividono.

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L’opera seconda del tunisino Mohamed Ben Attia continua la sua interessante radiografia del disagio esistenziale in una società sottoposta a drammatici cambiamenti, già intrapresa nel suo lungometraggio di esordio, Hedi (2016). Anche in questo film è centrale il rapporto tra genitori protettivi e attaccati alle tradizioni e figli vittime delle propria irresolutezza, del velleitarismo e dell’irresponsabilità. Tuttavia il regista sceglie un approccio e una scansione narrativa diversi rispetto a quelli che caratterizzano Hedi, in cui il vero protagonista è il figlio a confronto con una madre vedova, benpensante, ossessiva e autoritaria. E ne risulta una maggior credibilità dei personaggi e una loro disanima psicologica più incisiva. In Weldi, Ben Attia non svela mai  le motivazioni del gesto di Sami, ma racconta  i genitori prima e dopo la sua partenza,  dall'apparente  tranquillità felice alla  disperazione. La narrazione è asciutta ed efficace e gli interpreti sono convincenti.

Analizziamo altri due  film a cui sono stati assegnati premi collaterali.

Yomeddine, opera prima dell’egiziano di A.B. Shawki (Egitto), ha  ricevuto il Premio della Giuria del giornale on line PiuCulture È abbastanza convicente perchéAttualizza alcune letture del cinema di Youssef Chahine e cita e reinterpreta De Sica, Charlie Chaplin e Bresson.  È un piccolo racconto di formazione in bilico tra dramma neorealista e fairy tale sentimentale. Si sviluppa come un road movie di avventure marginali e picaresche  scandito da un accattivante motivo musicale ricorrente che spezza i possibili climax melodrammatici. Beshay (Rady Gamal), un piccolo ex lebbroso, coperto di cicatrici, dopo 40 anni di reclusione in un lebbrosario, sopravvivendo con la rivendita di metalli trovati in una grande discarica, parte con il suo carretto, trainato dall’amato asino, per ritrovare la propria famiglia che l’aveva abbandonato in tenera età. E si ritrova accompagnato da Obama (Ahmed Abdelhafiz) un orfanello che conosce da tempo e che non vuole staccarsi da lui.

 

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"Yomeddine" A.B. Shawki

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Yomeddine configura una parabola circolare in cui si susseguono incontri, episodi di dolorosa discriminazione, furti, piccole violenze, inaspettata amicizia e affetti familiari faticosamente recuperati. Sullo sfondo l’Egitto di oggi, un Paese arcaico e “moderno”, duro e persino feroce, con qualche  nota di solidarietà tra gli ultimi nella scala sociale. È un film solo apparentemente fragile, ma genuino e, a tratti, toccante, con alcuni difetti negli snodi narrativi, ma largamente privo di retorica, grazie a un approccio non ricattatorio e non didascalico, nonostante racconti la storia penosa di un reietto.

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"Sibel", Ça?la Zencirci e Guillaume Giovanetti

 

Sibel, della turca Ça?la Zencirci e del francese Guillaume Giovanetti, coppia nella vita, ha ottenuto sia il Premio della Giuria degli studenti delle tre Università di Roma, La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, della John Cabot University e della Scuola d’Arte cinematografica Gian Maria Volontè. Ambientato in  un appartato villaggio montano tradizionale dell’Anatolia, racconta la storia di Sibel (Damla Sönmez), una venticinquenne bella e volitiva, figlia, protetta e amata, del sindaco, muta in seguito a un trauma subito in tenerissima età. La donna per comunicare ricorre a una modulazione di diversi fischi, uno strana forma di  linguaggio che tutti i valligiani locali sembrano conoscere. Grande lavoratrice nei campi, non indossa mai il tradizionale foulard, obbligatorio per le donne musulmane turche, e lotta disperatamente per ottenere il rispetto degli altri, dimostrando  indipendenza e coraggio. È quindi una figura selvaggia, che caccia da sola nella foresta, è influenzata da credenze e mitologie ancestrali e fronteggia persino un uomo minaccioso e ferito, un fuggitivo che si nasconde nella selva perché è renitente alla leva militare. Sibel lo aiuta e, una notte, corrisponde le sue attenzioni.

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Ma poi l’uomo scompare. La protagonista è rappresentata in perenne concitazione: un’eroina alla Zulawski che diventa icona di un poco credibile percorso di riscatto femminista. Infatti, dopo essere stata osteggiata e persino aggredita dalle altre donne del villaggio che la consideravano persona ostile e pericolosa, nel finale Sibel diventa oggetto di un’inverosimile solidarietà da parte  di quelle stesse donne che l’avevano esclusa e offesa. È un film molto contraddittorio perché si configura come un fairy tale inopinatamente marcato da logiche culturali progressiste occidentali, ma  è costruito come un dramma realista, senza essere credibile nella rappresentazione del contesto. Peraltro i due registi evitano accuratamente di ampliare l’ottica della vicenda,  omettendo di approfondire alcune contraddizioni reali della società turca attuale, che pure sottendono chiaramente alcuni nodi narrativi del film.

Commentiamo infine altri due film del Concorso Ufficiale che risultano particolarmente interessanti e riusciti.

Con el viento (Facing the Wind),  opera prima scritta e diretta dalla  documentarista catalana Meritxell Colell Aparicio, propone un magnifico dramma esistenziale, un racconto di formazione e di riconciliazione, costruito attraverso un misurato e toccante studio di caratteri. La quarantenne Mónica (Mónica García,  ottima attrice esordiente, essendo danzatrice e coreografa nella vita reale) vive ormai da vent’anni a Buenos Aires,  mantenendo labili contatti con la  propria famiglia in Spagna, ed è pienamente concentrata sulla sua carriera di ballerina di danza moderna sulle orme di Pina Bausch. Un giorno riceve repentinamente la notizia che suo padre è gravemente malato, in stato preterminale. Raggiunta nel minor tempo possibile la casa di famiglia, isolata nella campagna presso Burgos, la donna deve constatare che il genitore è   deceduto da poche ore. La vedova, Pilar (Concha Canal, straordinaria esordiente), dopo il funerale del marito, dimostra grande compostezza e dignità e annuncia alle due figlie e alla nipote la volontà di  porre in vendita la casa.

 

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"Con el viento (Facing the Wind) " Meritxell Colell Aparicio

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Nonostante sentimenti controversi e  una manifesta tensione con la sorella Elena (Ana Fernández), che, pur vivendo a Barcelona, si è occupata per anni degli anziani genitori, Mónica accetta di rimanere accanto all’anziana madre, per aiutarla, in quella grande casa di contadini. Nel frattempo inizia l’inverno:  giornate rigide e tempestose, con folate di vento freddo e di nevischio che spazzano le colline e i campi deserti, bordati da filari di alberi; lunghe serate accanto al fuoco e conversazioni ridotte all’osso tra madre e figlia; la riscoperta di foto di famiglia, oggetti dell’infanzia e attrezzi domestici e per i lavori agricoli, che dovranno essere abbandonati quando la casa sarà venduta; sporadiche riunioni con le altre donne del paese e partite a carte nell’unico bar. Mónica è tormentata da dubbi e rimorsi e non riesce a comunicare e ad adattarsi pienamente alla rinnovata convivenza, scandita dai rituali e dai tempi dei lavori domestici. Poi, lentamente, riscopre sua madre, che le regala un maglione confezionato a mano, e capisce quanto sia necessario stare vicino a Pilar nel crepuscolo della sua vita. Inoltre poco a poco si va rappacificando con il ricordo di suo padre  con cui non si era capita,  scoprendo anche che il genitore  si era detto orgoglioso di lei. E  poco a poco ricomincia a usare il proprio corpo per danzare, prima  nel granaio e poi, quando giunge la primavera, all’aria aperta, nei campi, per  manifestare il turbine di emozioni che non riesce ad esprimere. Quindi, grazie a una comunicazione semplice e spontanea con  la nipote ventenne Berta (Elena Martín), la figlia di Elena, Mónica si apre e perdona sé stessa, fino a rappacificarsi anche con sua sorella. Ma quando sembra che la famiglia abbia ritrovato una nuova armonia di rapporti, riemergendo dal dolore e dalla malinconia, improvvisamente  una telefonata comunica che una giovane coppia con una bambina ha concluso la trattativa e ha comprato la casa. Il finale aperto, e senza risposte, è oltremodo suggestivo. Meritxell Colell Aparicio opta per una narrazione scarna e minimalista, ma ricca di  sfumature, e costruendo con discrezione una messa in scena  giocata sull’eccellente commistione di sensibile sguardo documentaristico, piena valorizzazione degli ambienti domestici e dello scenario naturale, scandito dal passaggio del tempo e delle stagioni, e genuina disanima del paesaggio interiore personaggi, evitando la retorica sentimentale, lo psicologismo e la tentazione didascalica. Con el viento è scandito da un continuo lavoro di demarcazione intima dei personaggi, in un contesto sostanzialmente femminile e  intergenerazionale. Ne deriva un vero e proprio mosaico di gesti e di sentimenti trattenuti, che diventa progressivamente plausibile ed emozionante.  Al sapiente utilizzo  degli spazi negli huis clos  delle stanze della casa, che consente una combinazione di close up sui corpi e sui volti dei personaggi, si giustappongono eccellenti long shot e piani sequenze, che mostrano il paesaggio rurale esterno inabitato, interposti senza una logica meccanicistica. Il tutto è illuminato dalla  mirabile fotografia, ricca di toni, curata da Julián Elizalde e Aurélien Py.

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"Sofia", Meryem Benm’Barek

 

Sofia, opera prima del marocchino Meryem Benm’Barek, affronta un tema scottante nella società marocchina, la gravidanza fuori dal matrimonio, che comporta sia l’emarginazione sociale della ”colpevole”, sia una pena detentiva  per violazione dell’art. 490 del codice penale che sancisce i rapporti sessuali consensuali tra persone non unite da vincolo matrimoniale. Un dramma che, nonostante un’eccessiva stringatezza con conseguente parziale meccanicismo narrativo, configura bene sia la dialettica sociale del contesto, sia la caratterizzazione psicologica dai personaggi. La vicenda si svolge a Casablanca. Sofia (Sara Elmhamdi), ha vent’anni e vive in una famiglia piccolo borghese tradizionale che limita molto la sua libertà, quindi non ha sviluppato una personalità indipendente. Un giorno, proprio durante un incontro decisivo tra i suoi genitori,  alcuni parenti più benestanti e un affarista francese da cui dovrebbe nascere una proficua impresa commerciale per la sua famiglia, Sofia si sente male.

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Lena (Sarah Perles), sua cugina, laureata in medicina, si rende subito conto che la giovane, pur negando a sé stessa di essere incinta, ha rotto le acque. Quindi, grazie ad alcune conoscenze, riesce a far ricoverare Sofia in una clinica privata e a farla partorire, ma l’ospedale concede solo 24 ore di tempo per far pervenire i documenti del padre del neonato prima di informare le autorità. Messa alle strette Sofia rivela infine che il padre del bambino sarebbe un giovane apprendista che abita in un quartiere proletario. Ma quando avviene il decisivo confronto tra le due famiglie, entrambe diffidenti e imbarazzate, il giovane indicato nega risolutamente ogni responsabilità. Nonostante  il fastidio di dover stabilire una relazione familiare con sconosciuti poveri e rozzi, Faouzi (l’attore e regista Faouzi Benzaïdi), il padre di Sofia, per salvare la propria reputazione e gli affari, impone un matrimonio con  registrazione retrodatata in modo da regolarizzare la nascita avvenuta. Meryem Benm’Barek, a partire dalla sua sceneggiatura che dimostra discreta credibilità e buona conoscenza dell’ambiente sociale e della problematica trattata, propone con sicurezza una disanima delle relazioni tra i personaggi, prevalentemente giocata su espressioni e gesti più che sui dialoghi, da cui emerge la progressiva manipolazione di ognuno verso l’altro e la compenetrazione di cinismo, ipocrita adesione alla morale comune e penoso tentativo di imitazione di comportamenti delle società europee. Peraltro evita sia la retorica naturalista e prosaica sia  la sterile deriva didascalica. Il dispositivo cinematografico di Sofia ricorda, in qualche modo, gli intrighi narrativi, i dilemmi morali,  la dialettica tra i personaggi, la rivelazione di verità nascoste e la posizione del regista scevra di giudizi che  sono tipici dei migliori film del regista iraniano Asghar Farhadi. Peccato che l’epilogo, pur drammaturgicamente efficace, appaia un poco artificioso e inopinatamente sarcastico rouge

 

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24. MED FILM FESTIVAL

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9 - 18 / 11 / 2018

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