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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 63. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID I DI GIOVANNI OTTONE I 2018

SEMINCI di Valladolid 2018

Nuove proposte di cinema internazionale nel segno della qualità

Grande vincitore è Genèse, Espiga de Oro al miglior film e doppio Premio, al miglior regista, Philippe Lesage, e al miglior attore, Théodore Pellerin Premio Pilar Miró al miglior nuovo regista a Milko Lazarov per Ága

DI GIOVANNI OTTONE

"Aga", Milko Lazarov

Seminci di Valladolid

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La "63. Semana Internacional de Cine (SEMINCI) de Valladolid", svoltasi dal 20 al 27 ottobre, è il secondo Festival internazionale cinematografico più importante che si svolge annualmente in Spagna. Anche  questa edizione ha  presentato un programma veramente ricco e interessante, che ha rappresentato pienamente la tradizione del Festival e la sua mission di proposta di un cinema d’autore variegato e mai scontato. LA SEMINCI ha confermato  la capacità di attrazione per alcuni dei migliori film e autori a livello europeo e internazionale della presente stagione e al tempo stesso un’efficiente organizzazione e il suo usuale stile serio, ricercato, e, al tempo stesso, amichevole. Quindi ha registrato ancora una volta un’ampia partecipazione di pubblico e di critici spagnoli e europei.

La "Sezione Ufficiale" competitiva, comprendente 18 lungometraggi in concorso e 2 fuori concorso, ha incluso, tra gli altri, alcuni film di qualità già presentati anteriormente quest'anno ai Festival di Rotterdam, Berlino, Cannes, Locarno, Venezia e Toronto. Forniamo un breve commento di alcuni dei film premiati dalla Giuria comprendente: i registi Miguel Gomes (Portogallo), Lucía  Cedrón (argentina); l’attrice Bárbara Goenaga (Spagna); Inge De Leeuw (Olanda,) programmatore dell’International Film Festival Rotterdam, e Marta Bényei (Ungheria), funzionaria dell’Hungarian Film Fund’s International Department.

La Espiga de Oro al miglior film lungometraggio è stata attribuita a Genèse, del canadese, del Québec, Philippe Lesage. Allo stesso film sono stati assegnati anche il Premio per la migliore regia e il Premio al miglior attore, a Théodore Pellerin  Si tratta di una seconda opera di derivazione autobiografica dopo il più interessante Les Démons (2015). È un racconto di formazione. Descrive con apparente freschezza e con qualche efficace momento poetico, purtroppo  schiacciato da prevalenti toni prosaici, l’educazione sentimentale e sessuale di due sedicenni, fratello e sorella, appartenenti alla classe media più privilegiata. Guillaume (Théodore Pellerin) è  innamorato del suo migliore amico Nicolas (Jules Roy Sicotte), mentre Charlotte (Noée Abita) si imbarca in relazioni con uomini  stupidi o codardi, fino a quando semiubriaca, è vittima di uno stupro. Lesage racconta disagi psicologici, delusioni, sconfitte e il complicato recupero dopo la disperazione, ma il film è squilibrato, disordinato, abbastanza prevedibile e pretenzioso, incerto tra nitida rappresentazione di disarmanti contraddizioni, velleità poetiche e tentazioni sensazionaliste.

Seminci di Valladolid

"In the Aisles" Thomas Stuber

 

La Espiga de Plata ex aequo è stata assegnata a In den gängen (In the Aisles), terzo lungometraggio del tedesco Thomas Stuber. È un dramma esistenziale corale, ambientato in un microcosmo: un enorme shopping center all’ingrosso che vende di tutto, dove gli addetti, inquadrati secondo una gerarchia di anzianità e mansioni, si aggirano in stretti corridoi lunghissimi, tra altissimi scaffali, caricando e scaricando senza sosta casse e utensili. Il film intreccia i percorsi di alcuni dei  magazzinieri - commessi, con diverso retroterra  di esperienze e di provenienza (alcuni cresciuti nella scomparsa DDR comunista). Sono personaggi abbastanza credibili (anche grazie a un buon cast e a una direzione degli attori piuttosto convincente),  oppressi da solitudine e frustrazioni, piccole miserie e segreti. Thomas Stuber mette a fuoco le difficoltà di comunicazione e le faticose interazioni, le prove di solidarietà e propone un caleidoscopio non scontato di sentimenti. È un’opera che cerca di scandagliare, con discreta onestà e sincerità, le problematiche della vita dei nuovi proletari, senza eccessive pretese di analisi psicologica, ma che risulta troppo frammentaria e viziata da un tono dolente non privo di qualche manierismo.

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Il Premio Pilar Miró al miglior nuovo regista  è andato al bulgaro Milko Lazarov per  la sua opera seconda Ága. Si tratta di un film che  costituisce una rielaborazione di un’antica leggenda e che offre un emozionante ritratto di quotidianità esistenziale in condizioni estreme. In Yakutia, nella Repubblica di Sakha, nell’estrema  area nordorientale della Siberia, durante il lungo inverno, una coppia di Inuit, Nanook (Mikhail Aprosimov), un anziano cacciatore di renne, e sua moglie Sedna (Feodosia Ivanova), molto malata, vive in una yurta isolata nelle lande innevate. La loro unica figlia Ága li ha lasciati da anni per andare a lavorare in una miniera di diamanti, vivendo in una città di recente insediamento. La donna soffre acutamente per  quell’assenza e vorrebbe parlarle un’ultima volta,  ma il marito non vuole affrontare la questione,  non avendo probabilmente dimenticato la profonda delusione che ha vissuto. Le loro giornate  sono scandite da attività e da ritmi consueti, con memorie ancestrali  e piccoli imprevisti di cui non si lamentano mai:  le piccole battute di caccia e di pesca di Nanook, le ore solitarie di Sedna che rigira tra le mani oggetti  che le sono cari, tra cui una vecchia fotografia di Ága bambina, il pasto serale in comune,  le emozioni, che trapelano dai volti segnati dall’età, vissute in silenzio e le scarne conversazioni. La loro vita si sta  modificando lentamente, ma inevitabilmente: gli animali selvatici diminuiscono inspiegabilmente e la caccia diventa più difficile, mentre, anno dopo anno,  la neve e il ghiaccio si sciolgono più precocemente.

Saltuariamente ricevono le visite  di Chena (Sergei Egorov), un giovane dello stesso clan etnico, che è molto affezionato a loro e che rappresenta l’unico legame con il mondo esterno. Nel finale struggente, davvero meraviglioso, Nanook, dopo la morte di Sedna, decide di compiere l’ultimo desiderio della moglie: intraprende un lungo viaggio e  ritrova finalmente Ága. Milko Lazarov propone l’affascinante rappresentazione di un legame amoroso forte e di  un’esistenza quasi fuori dal tempo, semplice e dura, animata da un immaginario di leggende e di sogni di antenati e di animali. Lo studio di caratteri è sviluppato con molta discrezione, evitando implicazioni psicologiche superflue. Ága è un film molto poetico e genuino, in termini di realismo documentaristico, con una messa in scena accurata, e giocata su dinamiche lente, ma non solenni. Rivela furtivamente l’empatia del regista ed echi  di Dersu Uzala (1975), il capolavoro siberiano di Akira Kurosawa. Da segnalare la preziosa fotografia curata da Laloyan Bozhilov e  l’eccezionale lavoro  di sound design effettuato da Sebastian Schmidt.

 

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"Aga" Milko Lazarov

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"A Land Imagined" Hideho Urata

 

Il Premio alla miglior fotografia è andato al giapponese Hideho Urata, direttore della fotografia di A Land Imagined, opera seconda scritta e diretta dal trentenne cinese, di Singapore, Yeo Siew Hua. È un noir atipico perché combina  un inedito ritratto realista e credibile del contesto sociale e lavorativo nei cantieri di Singapore intrecciandolo con uno psicodramma esistenziale che si trasforma in thriller notturno sfuggente e metafisico. Combina istanze e generi diversi, con un approccio autoriale interessante, in cui si notano le referenze a Blade Runner (1982), di Ridley Scott, a Heat (1995), di Michael Mann e ai film di Wong Kar-wai e di Apichatpong Weerasethakul. E Yeo Siew Hua sembra guardare soprattutto a David Lynch e propone anche vane imitazioni di certe astruserie del vecchio guru americano. Peraltro il film rivela squilibri e carenze nella sceneggiatura e nella messa in scena, per la palese difficoltà di accoppiare i due registri: la denuncia realista e il thriller con deriva contemplativa  e onirica e spunti surreali. La trama  è destrutturata in un gioco di contorsioni temporali e atmosfere indecifrabili, ma il film è anche  affascinante per l’ottima tessitura visiva.

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Analizziamo più ampiamente altri  quattro film della “Sezione Ufficiale” che mostrano spunti interessanti e una significativa qualità autoriale.

Al – Taqareer Hawl Sarah wa Saleem (The Reports on Sarah and Saleem), opera seconda del palestinese trentenne Muayad Alayan,  è un convincente dramma esistenziale. Racconta la  problematica storia di  un adulterio  che viene irrimediabilmente condizionata dal clima di sospetto  che mina la coesistenza tra israeliani e palestinesi. Ambientato a Gerusalemme e costruito come un thriller politico, è giocato sull’intreccio tra  comportamenti e scelte dei personaggi e dettagliata e onesta disanima delle condizioni sociali e dei fattori che impediscono la normalizzazione delle relazioni tra le due comunità anche nella vita privata. L’inizio del film è  sorprendente: di prima mattina un commando delle forze di sicurezza israeliane irrompe nell’alloggio di una coppia di palestinesi, Saleem (Adeeb Safadi)  e Bisan (Maisa Abd Elhadi), nella zona est della città, e arresta l’uomo. Il breve prologo è seguito  dal racconto delle complicate circostanze e implicazioni della vicenda. Sarah (Sivane Kretchner), ebrea e proprietaria di un caffè ebraico, e Saleem, un fattorino,  che la rifornisce quotidianamente dei prodotti di una panetteria, entrambi trentenni e sposati, intrattengono una relazione clandestina da alcuni mesi. La sera, terminato  il lavoro, i due hanno l’abitudine di fare l’amore con passione, nel van di Saleem. 

 

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"The Reports on Sarah and Saleem " Muayad Alayan

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Ma si tratta di  una liason che potenzialmente li espone a rischi ben più gravi che la rottura dei rispettivi matrimoni. Il  fatto è che David (Ishai Golan). il marito di Sarah, è un colonnello dell’esercito israeliano. L’uomo, molto assorbito dagli impegni lavorativi non ha notato  che alla sera la moglie spesso rincasa più tardi del solito. D’altro canto anche Bisan, la moglie incinta di Saleem,  è convinta che i ritardi notturni del marito siano dovuti alle ore di straordinario che l’uomo accumula per guadagnare di più. La storia tra Sarah e Saleem, nata dalla frustrazioni di entrambi rispetto alle pressioni che vivono nelle rispettive famiglie, si nutre dell’intensità dell’attrazione sessuale, ma poi  gli amanti commettono un errore fatale. Saleem ha ottenuto un lavoro extra: si reca a consegnare prodotti alimentari nei territori  palestinesi della West Bank, occupati dagli israeliani, presso commercianti che non hanno il permesso di recarsi a Gerusalemme per procurarseli. Una notte Sarah accetta di accompagnarlo a Betlemme. Poi, ultimata la consegna, i due si recano in un bar e Saleem litiga con un uomo palestinese che si è accorto che Sarah è ebrea. Quel fatto  porta all’arresto di Saleem da parte dei servizi segreti palestinesi.  Il suo avvocato, Abu Ibrahim (Kamel El Basha), lo informa che può essere rilasciato solo se accetta di firmare una dichiarazione in cui attesta che Sarah non è una prostituta, ma è invece una potenziale spia che lo stesso Saleem si è proposto di reclutare. La dichiarazione viene sottoscritta. Ma successivamente nel corso di un raid compiuto dall’esercito, gli israeliani sequestrano gli archivi dei servizi palestinesi e scoprono la dichiarazione firmata da Saleem. Avi (Jan Kühne),  l’ufficiale incaricato dell’inchiesta ricostruisce la relazione tra Saleem e Sarah, dispone l’arresto di Saleem (quello già visto nell’opening scene del film) e  avvisa David, informandolo che la faccenda può portarlo ad essere messo sotto inchiesta e può pregiudicare definitivamente la sua carriera.  Quindi si scatena una catena di eventi drammatici. Da un lato vi è  David, il marito di Sarah, mentre dall’altro vi sono Bisan, la moglie di Saleem e  Maryam (Hanan Hillo), l’avvocatessa arabo - israeliana incaricata della difesa  di Saleem,  il quale si rifiuta di implicare Sarah. Tra colpi di scena e circostanze imprevedibili, Sarah e Saleem si ritrovano  trascinati in una situazione inaspettata, penosa e pericolosa, che trascende le responsabilità familiari per diventare un caso politico. E Sarah deve confrontarsi sia con suo marito David, sia con Bisan, che ha scoperto di avere una rivale. Muayad Alayan ha esordito con Love, Theft and Other Entanglements (2015), una commedia drammatica, con risvolti dark e thriller, ambientata nei territori della West Bank, che racconta una storia d’amore clandestina, complicata da equivoci politici: un ritratto umoristico, intelligente, e a tratti persino commovente, sottile metafora di problematiche e contraddizioni reali presenti nei territori palestinesi. The Reports on Sarah and Saleem segna indubbiamente un ulteriore progresso per Muayad Alayan, il quale, abbandonate le suggestioni della Nouvelle Vague francese, di Jim Jarmush e di Otar Iosseliani, realizza un’opera più matura e convincente in termini narrativi, a partire dalla intrigante sceneggiatura del fratello Rami, e di messa in scena. Nonostante la storia coinvolga un ampio numero di personaggi,  la loro caratterizzazione psicologica appare in larga parte ben definita e il ritratto della barriera di diffidenza e di sospetto tra israeliani e palestinesi è  sostanzialmente credibile. Inoltre  Muayad Alayan mostra di aver appreso molto dal cinema dell’iraniano Asghar Farhadi, laddove propone in qualche modo un ”thriller dell’anima”, con una dialettica morale, in cui  Sarah, Saleem, Bisan e David, devono ognuno faticosamente fare i conti con le proprie emozioni e con vari pesi che gravano sulla  coscienza  e confrontarsi con menzogne obbligate e con sentimenti contrastanti di dolore edi  lealtà, schiacciati da un contesto di tensione e di divisione permanente.  Il regista non giudica i  propri personaggi, né manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di  proporre toni didascalici, influenzando lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante un epilogo catartico. Infine la rappresentazione delle tecniche di controllo, delle manovre di depistaggio e delle  montature con false accuse, attuate dai servizi segreti di entrambe le parti, israeliana e palestinese, ricorda, in qualche modo, il contesto, ancora più tragico presente in Omar (2015),  del palestinese Hany Abu - Assad.

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"Dogman" Matteo Garrone

 

Dogman, dell’italiano Matteo Garrone,  è un  dramma atipico, tragico, sporco e disperato. È ispirato da un efferato fatto di cronaca, un brutale omicidio avvenuto nel 1988. Racconta un’umanità periferica che abita in un non-luogo squallido e desolato: la location è quella dell’ex Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno. Garrone torna con ottimi risultati al suo cinema che ha dato prova di sapersi muovere tra i generi (dramma, noir, horror, commedia), costruendo uno specchio “oggettivo” di voci, facce, comportamenti e suoni e seguendo una logica di “tempo del racconto”. Conclude una trilogia ideale insieme ai precedenti lungometraggi di Garrone: L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2004). La vicenda si svolge in quartiere di periferia, affacciato su un mare sporco, con palazzi dalla architettura “moderna” di pessimo gusto ormai deperiti, attorno a una grande piazza abbandonata all’incuria. Tutti si conoscono: proletari e sottoproletari e pochi negozianti ed esercenti incupiti, solidali contro i violenti, piccoli criminali e tossicodipendenti che si aggirano nell’insediamento.

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Marcello (Marcello Fonte) è un trentenne piccoletto che. si dedica con impegno al suo negozio dove esegue attività di pulizia e  estetica – toilette per cani. Mite e benvoluto dai  proprietari dei negozi vicini, il protagonista ne ricerca la benevolenza e l’amicizia. Inoltre, ogni volta che gli è possibile trascorre il suo tempo con la figlia tredicenne Alida (Alida Baldari Calabria. Ma Marcello non è un eroe: arrotonda le sue entrate con un discreto spaccio di cocaina. Per questo è continuamente cercato da Simone (Edoardo Pesce), un ex pugile dilettante, psicopatico, tossicodipendente e violento, con cui ha instaurato una torbida amicizia. Marcello è soggiogato dalla spavalderia del ribaldo, il quale che ne approfitta. Ne deriva una penosa sudditanza del più debole nei confronti del più forte. Garrone propone una complicata relazione vittima - carnefice nei suoi risvolti di  malsana “amicizia”, di desideri semplificati, di ossessione e di ambiguo riscatto, evitando brillantemente la deriva del revenge thriller. È un film crudo, cupo e, a tratti, struggente, puramente naturalista. Ma non mostra mai autocompiacimento o eccessi spettacolari gratuiti da grand guignol, nonostante qualche aspetto prosaico e qualche tono troppo calcolato. Notevole la regia costruita  su una  sapiente variazione della distanza  della macchina da presa durante le inquadrature.

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"Border" Ali Abbasi

 

Gräns (Border),  dello svedese Ali Abbasi, di origini iraniane, è un  dramma - horror che sconfina  in un cupo fairy tale, intrigante e piuttosto insolito. La trentenne Tina (Eva Melander), agente della dogana, controlla i passeggeri che  arrivano  a Stoccolma via mare dalla Finlandia e, grazie al suo  olfatto non comune, individua la colpevolezza di delinquenti e trafficanti. Fisicamente sgraziata, incontra Vore (Eero Milonoff), un individuo sospetto, di fronte al quale le sue capacità sono messe alla prova per la prima volta. Tina sente che Vore nasconde qualche cosa, ma non riesce a comprendere di quale mistero si tratti. E inoltre sente una strana attrazione verso  quell’uomo che  presenta tratti somatici simili ai suoi. Quando, dopo alcune esitazioni, inizia una relazione con Vore, Tina scopre la loro comune identità e natura di creature umanoidi, fisicamente e moralmente ambivalenti, diverse dai comuni esseri umani. Da quel momento si innescano esiti inaspettati.

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L’opera seconda dell'iraniano Ali Abbasi, radicato in Danimarca e già autore del period film horror Shelley (2016),  adatta una novella di John Ajvide Lindqvist ed evoca i trolls, figure inquietanti della letteratura fantastica nordica, e fonde vari registri: ambivalenza della natura, sofferenza dei “diversi”, amore, brutalità, humour grottesco e violenza. La messa in scena è ricca di qualità e garantisce un continuo interesse per la narrazione anche nei rari momenti in cui appare un poco arzigogolata.

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"U - July 22" Erik Poppe

 

Utøya 22.Juli (U - July 22),  del norvegese Erik Poppe, ricostruisce la strage di giovani del partito laburista norvegese, in maggioranza adolescenti, riuniti per un campeggio estivo, che ne ospitava alcune centinaia, nella piccolissima isola di Utøya, non lontano da Oslo. Il massacro è stato attuato il 22 luglio 2011, mediante un’azione militare a sorpresa e l’uso di armi pesanti automatiche, dal suprematista, razzista e neonazista Anders Breivik (77 morti e 300 feriti, comprendendo quelli della bomba fatta esplodere sempre da Breivik a Oslo, in precedenza, per depistare).  Poppe decide di effettuare una cronaca in totale immersione nei fatti (per forzare l’identificazione dello spettatore), completamente centrata sul “punto di vista” e sulle reazioni delle giovani vittime, inseguite senza sosta dal killer, mentre cercano disperatamente una via di fuga, in un caos tragico, con episodi strazianti e raccapriccianti.

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Tuttavia, nonostante non siano contestabili né il suo genuino impegno morale, né le sue scelte efficaci di non cercare di fornire sterili spiegazioni e di inquadrare il mostro Breivik solo di sfuggita in campo lungo, il film non è convincente perché nel tentativo, in parte riuscito, di evitare la retorica, scivola in una reinvenzione pianificata della realtà viziata di sensazionalismo. Non giovano né la banalità e l’artificiosità dei ritratti di molti degli atterriti protagonisti e i molti clichés didascalici nella descrizione dei loro sentimenti, né la scelta di una narrazione circolare compressa e semplificata, attuata mediante un complesso ed estenuante unico piano sequenza che occupa 72’ del film ( la cui durata complessiva è di 90’), l’ampio uso di scene girate in soggettiva, il ritmo concitato e gli escamotage tecnici specie sul sonoro che, a tratti, ricordano un teen  horror mediocre tipo Blair Witch Project (1999), di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez.

La sezione competitiva "Punto de Encuentro" ha proposto 14 lungometraggi, tutti opere prime e seconde, molti dei quali in anteprima europea. Ne commentiamo alcuni.

Rafiki, della kenyota Wanuri Kahiu, è un film che ha subito una preventiva condanna politica in Kenya, prima ancora di essere concluso. Si tratta di un’opera prima che racconta una storia d’amicizia e di amore lesbico a Nairobi, con meccanismi narrativi semplici, paradigmatici e abbastanza prevedibili. Peraltro mostra un approccio fresco, non banale e abbastanza autentico ed evita sia esagerati toni melodrammatici sia  accenti didascalici di scontata denuncia. Ispirato dal romanzo "Jambula Tree", di Monica Arac de Nyeko, ambientato invece in Uganda, il film racconta la vicenda di Kena (Samantha Mugatsia) e Ziki (Sheila Munyiva), due diciassettenni che stanno terminando la scuola superiore. Divise da differenti frequentazioni e gusti in  tema di moda e musica e, soprattutto, dal fatto di essere le rispettive figlie di due fieri avversari politici, in corsa nelle imminenti elezioni locali, iniziano a conoscersi e simpatizzano. Poco a poco tra loro nasce un sentimento più forte e una vera relazione passionale.

 

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"Rafiki" Wanuri Kahiu

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Tuttavia, quando una matrona del quartiere le sorprende e aizza la folla contro di loro appellandosi alla diffusa omofobia, subiscono punizioni e violenze e devono fronteggiare l’incomprensione di quasi tutti i loro familiari e di vari amici. Di fronte alla drammaticità e ai rischi della situazione le due ragazze cercano di preservare la propria identità. Il film di Wanuri Kahiu  presenta alcune  aspetti  chiaramente positivi: la vicenda è ambientata in un quartiere non degradato e riguarda un contesto di piccola borghesia e di gioventù “normale” che mostra  una certa modernità nell’abbigliamento e  nelle preferenze culturali, fatto piuttosto insolito nel cinema africano; la rappresentazione di usi e costumi e morale condivisa di una società improntata al conservatorismo è abbastanza credibile e il pregiudizio omofobico della popolazione e delle famiglie è mostrato senza eccessi retorici o sensazionalisti; la caratterizzazione dei personaggi evita lo psicologismo di maniera; la ovvia autocensura rispetto alle scene di sesso non inficia la messa in scena.

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"Weldi" Mohamed Ben Attia

 

Weldi, opera seconda del tunisino Mohamed Ben Attia, propone il ritratto drammatico della disgregazione di una famiglia di  onesti lavoratori in seguito a un evento inaspettato. Riadh (Mohamed Dhrif), gruista al porto di Tunisi  alla vigilia della pensione, e la moglie Nazli (Mouna Mejri) sono molto protettivi verso Sami (Ben Ayed), il loro figlio unico diciottenne in attesa di finire il liceo. Da un lato si mostrano molto preoccupati per le continue crisi di emicrania che tormentano il giovane, dall’altro lo sovraccaricano di aspettative. Un giorno Sami scompare: si apprende che si è recato in Siria e si è unito all'ISIS.  Riadh cerca invano di ottenere informazioni e fattivi interventi da parte della polizia. Poi entra in conflitto con sua moglie e infine, rotti gli indugi, effettua un viaggio in Turchia. Laggiù incontra varie persone senza alcun risultato concreto, anzi ritorna a casa più sconcertato di prima. Solo dopo molti mesi Sami  effettua un breve contatto via skype con il padre e la madre solo per far loro conoscere la donna che ha sposato e il  bambino nato da poco. Ma a quel punto le strade di Riadh e di Nazli si dividono.

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L’opera seconda del tunisino Mohamed Ben Attia continua la sua interessante radiografia del disagio esistenziale in una società sottoposta a drammatici cambiamenti, già intrapresa nel suo lungometraggio di esordio, Hedi (2016). Anche in questo film è centrale il rapporto tra genitori protettivi e attaccati alle tradizioni e figli vittime delle propria irresolutezza, del velleitarismo e dell’irresponsabilità. Tuttavia il regista sceglie un approccio e una scansione narrativa diversi rispetto a quelli che caratterizzano Hedi, in cui il vero protagonista è il figlio a confronto con una madre vedova, benpensante, ossessiva e autoritaria. E ne risulta una maggior credibilità dei personaggi e una loro disanima psicologica più incisiva. In Weldi, Ben Attia non svela mai  le motivazioni del gesto di Sami, ma racconta  i genitori prima e dopo la sua partenza,  dall'apparente  tranquillità felice alla  disperazione. La narrazione è asciutta ed efficace e gli interpreti sono convincenti.

Yomeddine, dell’egiziano A.B. Shawki, è un’opera prima abbastanza convincente che attualizza alcune letture del cinema di Youssef Chahine e che cita e reinterpreta De Sica, Charlie Chaplin e Bresson.  Si tratta di un piccolo racconto di formazione in bilico tra dramma neorealista e fairy tale sentimentale.  È un road movie di avventure marginali e picaresche  scandito da un accattivante motivo musicale ricorrente che spezza i possibili climax melodrammatici. Solo apparentemente fragile, ma genuino e, a tratti, toccante, con alcuni difetti negli snodi narrativi, ma largamente privo di retorica, grazie a un approccio non ricattatorio e non didascalico, nonostante racconti la storia penosa di un reietto. Beshay (Rady Gamal), un piccolo ex lebbroso, coperto di cicatrici, dopo 40 anni di reclusione in un lebbrosario, sopravvivendo con la rivendita di metalli trovati in una grande discarica, parte con il suo carretto, trainato dall’amato asino, per ritrovare la propria famiglia che l’aveva abbandonato in tenera età.

 

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"Yomeddine" A.B. Shawki

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E si ritrova accompagnato da Obama (Ahmed Abdelhafiz) un orfanello che conosce da tempo e che non vuole staccarsi da lui. Yomeddine configura una parabola circolare in cui si susseguono incontri, episodi di dolorosa discriminazione, furti, piccole violenze, inaspettata amicizia e affetti familiari faticosamente recuperati. Sullo sfondo l’Egitto di oggi, un Paese arcaico e “moderno”, duro e persino feroce, con qualche  nota di solidarietà tra gli ultimi nella scala sociale.

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"Diane" Kent Jones

 

Diane, opera prima di finzione dell’americano Kent Jones, è un dramma esistenziale centrato sui temi, non nuovi, della vecchiaia, della malattia e della morte, ma sviluppato in una prospettiva semplice e originale. Propone il ritratto ricco di sfumature e costruito con delicata empatia, di Diane (Mary Kay Place, assolutamente perfetta nel ruolo) una vedova quasi sessantenne, appartenente alla middle class, che vive in una piccola cittadina del Massachusetts. È una donna forte, con un carattere non facile, mordace e ironica, vivace e moderatamente scettica, ma animata da un saldo senso morale che la porta ad  occuparsi instancabilmente dei vari parenti e  dei numerosi amici e a dedicarsi ad attività sociale come  l’assistenza in una mensa per  poveri, disoccupati e  homeless. Ma è tormentata dai sensi di colpa per errori giovanili e dalla preoccupazione per l’unico figlio tossicodipendente.

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Kent Jones, già critico impegnato e documentarista raffinato, esordisce con un film minimalista, lirico e molto convincente. Gestisce con fine humour e understatement, la spirale incalzante, e quasi surreale, di  contrasti, disgrazie e morti che investe e isola gradualmente Diane, costringendola, nel corso dell’inesorabile declino della vita, a confrontarsi con sé stessa e con i suoi fantasmi in una lenta deriva in cui realtà, ricordi, sogni e incubi si confondono.

Museo (Museum), opera seconda del messicano Alonso Ruizpalacios, valorizza inopinatamente uno scontato e mediocre heist movie (o caper movie), ovvero un  sottogenere del thriller in cui un gruppo di  delinquenti attua un  colpo clamoroso. In questo caso si tratta dell’improbabile duo, costituito da Juan (Gael Garcia Bernal, in un’interpretazione pessima), un  giovane borghese, sfaccendato e narcisista e da Bejamin (Leonardo Ortizgris) il suo amico devoto, di classe sociale inferiore, che si lascia plagiare, che  programma con cura e attua rocambolescamente il furto impossibile. È un filmetto che racconta,  con ampie licenze fantasiose, il clamoroso furto di 400 pezzi di arte Maya e mesoamericana, realizzato ai danni del Museo Antropologico di Città del Messico la vigilia del Natale 1985. Propone un mix di generi, adventure, road e buddy movie, raccogliticcio e solo in parte divertente,  proprio perché prevale una vena goliardica con gag grossolane.

 

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"Museo" Alonso Ruizpalacios

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Ma soprattutto  palesa la grottesca pretesa di innestare, nel contesto comico - drammatico, una satira convenzionale, spuria e ben poco incisiva della classe media - alta messicana dell’epoca, parassitaria, classista e succube dei modelli comportamentali yankee. E tenta persino una presunta riflessione sull’identità nazionale e un’evocazione, molto ambigua e ben poco credibile, dell’orgoglio nazionale del popolo nei confronti del  patrimonio artistico e archeologico del Paese.

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Mohammad Rasoulof

 

La SEMINCI ha dedicato anche un interessantissimo omaggio a Mohammad Rasoulof, che, a nostro giudizio, è da considerarsi  il miglior regista del cinema iraniano contemporaneo.  Una piccola sezione, denominata appunto “Ciclo Mohammad Rasoulof”, ha presentato i 5 lungometraggi che il regista ha realizzato finora. Il quarantenne Mohammad Rasoulof, attivo dal 1991,  si è sempre proposto di raccontare storie che si rapportano a persone reali in situazioni reali. Le sue opere, realizzate con una tecnica docu-finzionale, esprimono una lucida e lacerante verità sulla  fatica di vivere nell’Iran di oggi, sotto l’oppressione del regime teocratico, mescolando realismo, simbolismi, limpido umanesimo e sofferto pessimismo. Citiamo il suo esordio con il lungometraggio Gagooman (2002), ricostruzione, con i personaggi reali, della storia di una coppia di detenuti che si sposano in prigione, ma che,  una volta  scarcerati,  trovano una società che li respinge e nega loro il lavoro e il reinserimento. Nel 2010 Rasoulof, come Panahi, è stato arrestato con l’accusa di aver filmato senza permesso e quindi condannato dal regime iraniano alla detenzione di un anno e a restrizioni severe rispetto  all’attività di filmmaker. Dopo la liberazione su cauzione, in attesa di sentenza definitiva, ha realizzato tre magnifici film.

   

Bé omid é didar (Au revoir) (2011), offre uno straordinario ritratto femminile in un Paese dove le donne sono considerate individui inferiori senza alcun diritto ad agire o a muoversi senza l’approvazione del marito o di un familiare di sesso maschile. La protagonista è Noora (Leila Zare), un avvocato trentenne radiata dall’albo, e quindi impossibilitata ad esercitare la professione, a causa del suo coinvolgimento con un’organizzazione di difesa dei diritti umani. La donna vive sola a Teheran perché alcuni articoli di suo marito, che è un giornalista, sono stati giudicati provocatori da parte delle autorità. Pertanto l’uomo è stato inviato in un’area semidesertica del sud del Paese per svolgere altre attività imprecisate. Di fatto Noora non può entrare in contatto con lui. Essendo incinta da qualche settimana, ha effettuato la domanda per un visto per lasciare al Paese, ma la sua richiesta è stata respinta. Quindi trascorre le sue giornate peregrinando invano da un ufficio governativo all’altro. Esasperata, tenta persino di accelerare le pratiche pagando una bustarella e infine si rivolge a un trafficante per ottenere documenti falsi. Un giorno le annunciano che il nascituro è affetto da sindrome di Down e che, comunque, se volesse abortire, secondo le leggi vigenti, è necessaria l’autorizzazione di suo marito.

 

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"Au revoir" Mohammed Rasoulof

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Noora si sente isolata e confusa, essendo vessata dalle autorità e dalla polizia e non aiutata dai medici e ricevendo consigli contraddittori da amici e conoscenti. Nonostante le terribili difficoltà in cui si dibatte e la tristezza della sua condizione, la donna è determinata ad espatriare e ad abortire, forse perché non vede un futuro per quel nascituro disgraziato. Rasoulof realizza un film molto controllato, evitando accuratamente di mostrare la protagonista come una martire. La messa in scena è sobria, a tratti iperrealistica e teatrale, punteggiata dai silenzi.  Lo sguardo del regista non è pregiudizialmente politico. Tuttavia l’oggettiva repressione violenta, esercitata dal regime nei confronti degli oppositori veri o presunti, la sfacciata corruzione e la pressione  subite da chi è ricattabile, l’ansia, e la coazione alla menzogna che costituiscono l’essenza della vita di migliaia di persone (in gran parte intellettuali, professionisti e appartenenti alla classe media) sono elementi decisivi che emergono dal film senza alcuna retorica. È un dramma lucidissimo ed emozionante che costituisce indubbiamente un duro atto di accusa.

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"Les manuscripts ne brûlent pas" Mohammed Rasoulof

 

Dast-neveshtehaa nemisoosand (Les manuscripts ne brûlent pas) (2013) propone il  crudo ritratto di due assassini prezzolati  ingaggiati dall'ufficio di censura governativo. I due sicari  compiono operazioni segrete di sequestro e / o  assassinio, o soppressione mascherata da suicidio, di scrittori che rifiutano di consegnare i loro manoscritti considerati sovversivi.  Il film documenta i brutali metodi di ricatto  e racconta tre casi di assassinio di scrittori, concentrando la vicenda in un solo giorno in una tetra Teheran invernale. Khosrow è un ex guardia carceraria, padre di un bambino gravemente malato. Insieme al compare Morteza compie operazioni segrete di sequestro e/o uccisione, o soppressione mascherata da suicidio, di scrittori che rifiutano di consegnare i loro manoscritti considerati sovversivi. Rasoulof descrive una realtà agghiacciante, concentrando la vicenda in un solo giorno in una tetra Teheran invernale.  Documenta i brutali metodi di ricatto usati dall'ufficio di censura governativo e racconta tre casi di assassinio di scrittori.

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Ma mostra anche il fanatismo di Morteza e la postura quasi indifferente, più che cinica, di Khosrow. È un film che va oltre la denuncia perché scandaglia la banalità del male. E al tempo stesso fa emergere l’importanza della resistenza del pensiero. Definisce e analizza nei dettagli una cultura ossessiva di repressione sistematica. L’oggettiva oppressione, violenta e ottusa, esercitata dal regime nei confronti degli oppositori veri o presunti (colpevoli di reati di opinione), la sfacciata corruzione e la pressione verso chi è ricattabile, l’ansia, il pessimismo e la coazione alla menzogna che costituiscono l’essenza della vita di migliaia di persone (in gran parte intellettuali, professionisti e appartenenti alla classe media) sono elementi decisivi che emergono dal film senza alcuna retorica e che testimoniano la realtà concreta. La scelta di una costruzione asciutta, a tratti iperrealistica  e priva di pathos, utilizzando alcuni canoni tipici del thriller, risulta assolutamente efficace. La messa in scena è sobria, con ampi passaggi di stampo teatrale. Colpisce la magnifica fotografia con luce attenuata e colori limitati: simbolo di un Paese inesorabilmente soffocato.

Lerd (A Man of Integrity) (2017) è un dramma - thriller: un capolavoro lucido e amarissimo. Racconta, senza retorica, una lacerante verità: la fatica di vivere sottomessi all'oppressione violenta e ottusa e alla corruzione del regime teocratico iraniano al potere da quasi un quarantennio. In una remota cittadina del nord, il trentacinquenne Reza lavora caparbiamente per far fruttare al meglio l’allevamento di pesci rossi che ha installato, ma subisce un continuo boicottaggio da parte di Hassan, il capataz di una onnipotente “compagnia” privata, legata ai maggiorenti religiosi della zona e  protetta dal governo locale. I suoi azionisti, hanno accumulato in breve tempo sempre più potere, costringendo, con mezzi poco leciti, i contadini e i piccoli proprietari terrieri a  cedere i propri beni, compresi gli immobili. Questo monopolio corrotto vuole impossessarsi  ad ogni costo anche della   proprietà di Reza. Uno degli aspetti notevoli del film è l’ambientazione in provincia, per sottolineare che i metodi discriminatori e persecutori del regime sono diffusi in tutto il territorio.

 

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"A Man of Integrity" Mohammed Rasoulof

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Anzi, lontano da Teheran, i legami tra le organizzazioni delinquenziali e gli ayatollah delle moschee sono ancora più stretti, anche perché questi ultimi spesso sostituiscono persino gli organi di governo locale nel gestire leggi e norme, come apprenderà ben presto lo stesso Reza. La moschea, la stazione di polizia,  la direzione del liceo maschile e di quello femminile, la sede della compagnia, che si sta impossessando di terreni e immobili, costituiscono un “sistema” unico, corrotto e impunito, che sorveglia e condiziona la vita e la libertà dei normali cittadini, stimolando e mediando i conflitti tra chi non appartiene alla cerchia di potere, manovrando le pedine, schiacciando i poveracci e sacrificando, all’occorrenza, i galoppini più compromessi. 

Queste opere mostrano lo sguardo disilluso di Rasoulof, privo di qualsiasi speranza se non quella di resistere preservando la propria vita e libertà di movimento. Ricordano, in qualche modo, il cinema di Bresson. La messa in scena è sobria e priva di pathos. Le riprese sono essenzialmente in interni, huis clos che enfatizzano un’atmosfera soffocante. Le inquadrature sono spesso molto strette o si fissano sul volto inespressivo dei personaggi. La fotografia è caratterizzata da una gamma di colori limitata (blu, bianco, nero e grigio), con una luce attenuata che rappresenta simbolicamente il blocco della dinamica esistenziale, sociale e politica dell’Iran di oggi.  

Infine offriamo un’ampia recensione della grande Retrospettiva dedicata alla cinematografia contemporanea del Paese ospite della SEMINCI di quest’anno: il Portogallo. Il ciclo intitolato  “Cinema portoghese del secolo XXI” ha compreso 20 lungometraggi, di cui 4 documentari e10 cortometraggi, di cui 3 documentari,  realizzati in maggioranza da autori trentenni e quarantenni, delle ultime due  generazioni del cinema portoghese,  nel corso degli ultimi dodici anni, dal 2006 al 2017. Proponiamo quindi il commento critico di alcuni dei film più significativi della Retrospettiva.

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"Aquele querido mês de agosto" Miguel Gomes

 

Aquele querido mês de agosto (2008),  opera  seconda del quarantenne Miguel Gomes, è un film atipico, perché mescola liberamente finzione, documentario e making of, con un risultato complessivo di creatività, freschezza e divertimento, a tratti davvero esilarante. Girato durante la calda estate agostana nelle campagne, sulle aie dei casali e nei paesini della regione di Coimbra, mette in scena sapientemente personaggi ed animali, seguendoli nei loro comportamenti quotidiani e festaioli con esiti imprevedibili. Inoltre sfrutta al meglio il paesaggio. Nella prima parte Gomes ci immerge nei rituali rurali e nelle feste contadine, tra canzoni popolari, orchestrine, balli a palchetto e processioni. Intervista in presa diretta varie persone che raccontano e inventano storie fantasiose e comiche. Contemporaneamente si assiste a buffi episodi ed incidenti che coinvolgono l’équipe di rodaggio. In seguito quasi impercettibilmente, alcune di quelle persone e di quelle facce alimentano una trama di finzione che vede al centro un gruppo familiare di musicisti al cui interno si sviluppa una storia d’amore tra la cantante (Sonia Bandeira) e il chitarrista (Fábio Oliveira) che è suo cugino.

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I due si incontrano in segreto per evitare pressioni e complicazioni da parte dei rispettivi genitori, ma saranno obbligati ad affrontare le sfide dell’età adulta. Gomes, già attivo critico cinematografico, dimostra di aver recepito le lezioni di François Truffaut, di Henri Langlois e di João César Monteiro, ma dà anche un contributo molto personale, e culturalmente ben riconoscibile, alla dialettica tra finzione e realtà.

Tabu (2012), terzo film  di Miguel Gomes, configura un eccezionale dramma esistenziale che contiene una visione molto originale del colonialismo portoghese in Africa, una ferita tuttora molto condizionante per il Paese. Girato in 35mm, in un magnifico bianco e nero, manifesta un intelligente riferimento all’estetica e alle opposizioni binarie del cinema muto tedesco degli anni ’20 e in particolare all’omonimo film del 1931 (quantunque diverso per approccio e ambientazione) del maestro Friedrich Wilhelm Murnau. Tuttavia evita le facili citazioni enciclopediche cinefile “autosufficienti”, puntando chiaramente ad evocare consistenti emozioni. Il film è diviso in due parti intitolate rispettivamente “Paradiso perduto” e “Paradiso”, la prima girata a Lisbona in epoca attuale e la seconda ambientata in Mozambico negli anni ’40 e ’50, in un mondo dorato dove i coloni portoghesi possedevano grandi fazendas e latifondi con al centro eleganti ville, mentre i negri erano totalmente asserviti.

 

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"Tabu" Miguel Gomes

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La prima parte è ricca di dialoghi, mentre nella seconda gli avvenimenti, che vedono sviluppi sorprendenti al di là dell’apparente ignavia di colonizzatori e avventurieri bianchi, sono illustrati solo da una voce fuoricampo. In qualche modo, attraverso dicotomie dialettiche trattate con fine umorismo (città/campagna; giorno/notte; nostalgia/esotismo; vecchiaia/giovinezza; solitudine/amore; matrimonio felice/adulterio) si passa dalla prima porzione, che è il tempo della colpa vaga, dello sconforto, della recriminazione e della nostalgia, alla seconda frazione dove domina la passione e si sviluppa il melodramma. Una logica che parte da una fine, opposta al comune senso drammatico, e uno sguardo limpidamente antinaturalistico, nutrito da continue torsioni e venato di sottile malinconia e di scetticismo laico sulla Storia e sulla memoria, sugli uomini e sulle classi sociali e sulla religione. La vicenda inizia appunto a Lisbona dove, in un condominio borghese, vive Aurora (Laura Soveral) una vecchia signora elegante, testarda, permalosa e un poco svampita. Consuma le sue scarse residue risorse finanziarie al gioco d’azzardo, non resistendo a una passione inveterata. È assistita da Santa (Isabel Cardoso), un’ineffabile domestica e badante capoverdiana ed è accudita da Pilar (Teresa Madruga), una cinquantenne vicina dicasa, molto religiosa e caritatevole, ma anche donna di buon senso. Essendosi repentinamente ammalata e sentendo avvicinarsi la fine, Aurora prega Pilar di cercare tal Gian Luca Ventura (Henrique Espírito Santo). L’uomo, ormai anziano, viene infine ritrovato e racconta a Pilar la vera storia di Aurora, dopo aver rivelato di essere un antico amore di quest’ultima quando, decenni prima, entrambi vivevano in una colonia africana. Nella seconda parte del film Aurora (Ana Moreira) è una giovane vivace e viziata, rampolla di una ricca famiglia di proprietari terrieri. Prima si sposa con un dandy piuttosto compassato (Ivo Müller) e sembra felice. In seguito, pur essendo incinta del marito, inizia una focosa relazione adulterina con l’affascinante avventuriero italiano Gian Luca Ventura (Carloto Cotta).  Dopo alcuni mesi di melina e di feste vagamente surreali nella curiosa casa con piscina, mentre sta per partorire, Aurora si lancia in una rovinosa fuga con il suo amante. Fino al tragico finale in cui un omicidio spezzerà l’incantesimo passionale.

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"E agora? Lembra – me" Joaquim Pinto

 

E agora? Lembra – me (2013), del prolifico sessantenne Joaquim Pinto, è un film ricco di qualità cinematografica ed estetica Si tratta di un video - diario della condizione esistenziale dello stesso regista, che convive da oltre 20 anni con il virus dell’HIV e con quello dell’epatite C. Pinto racconta con sincerità i dettagli della sua condizione di malato sopravvissuto e le sue cure, ma anche la sua relazione con il compagno Nuno Leonel e la loro passione per la campagna e per i cani. Tra ricordi e citazioni politiche e culturali, allarga la visuale a molti aspetti della condizione umana contemporanea di tutti noi.

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Cavalo dinheiro (2014), sesto lungometraggio del sessantenne Pedro Costa, conferma  la poetica e lo stile del regista che è noto per i suoi precedenti  ritratti sociali di proletari indigenti e di emarginati, tra cui negri immigrati a Lisbona dalle ex colonie africane del Portogallo. Citiamo ad esempio un paio di suoi film precedenti: No quarto de Vanda (2000) e Juventude em marcha (2006).   È un cinema in cui svanisce il confine tra la fiction e il documentario: estremo, austero, molto duro, assolutamente inusuale perché sperimentale e visionario. Costa ama mostrare il semplice svolgersi della vita reale davanti ad una piccola macchina da presa digitale ignorata dalle / dai protagonisti attori - non attori. Privilegia uno stile iperrealistico, prolisso, ipnotico e poetico. Cavalo dinheiro è apparentemente ambientato all’epoca della cosiddetta “Rivoluzione dei garofani”, pacifica e democratica, che, nell’aprile del 1975, su iniziativa dei capitani dell’esercito, pose fine a 50 anni di dittatura fascista e concluse le guerre nelle colonie.

 

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"Cavalo dinheiro" Pedro Costa

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Mostra, attraverso una serie di ritratti individuali e di gruppo, alcuni immigrati africani delle ex colonie, provenienti dal quartiere Fontainhas di Lisbona. Sono  individui emarginati e dolenti che si aggirano in un ospedale alla ricerca del loro compagno, Ventura, un uomo che racconta pene e miserie. Girata prevalentemente in interni, è un’opera esteticamente pregevole sia per le inquadrature calibratissime e gli intensi close up sia per un magnifico impianto chiaroscurale e per la fotografia magistrale di Leonardo Simões che ricordano la pittura di Caravaggio. La narrazione procede per discontinuità attraverso quadri documentari separati e lunghi monologhi ricchi di considerazioni esistenziali e politiche. Purtroppo Costa indulge in un vuoto narcisismo allegorico e verbale, decisamente poco incisivo e credibile, promuovendo un’ambigua lamentazione di poveri diavoli “filosofi”. E, soprattutto, articola una critica feroce e pretestuosa alla citata Rivoluzione.

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"Montanha" João Salaviza

 

Montanha (2015), opera prima del trentunenne João Salaviza, è un coming-of-age film drammatico, realistico e crudamente poetico, abbastanza interessante, credibile e coerente in termini narrativi ed estetici. Al centro della vicenda vi è una famiglia proletaria. Il quattordicenne David (David Mourato),  è cosciente dell’imminente morte del nonno, ma si rifiuta di fargli visita non volendo fare i conti con il peso  della perdita. Sua madre, Mónica (Maria João Pinho), trascorre le notti a vegliare l’anziano in ospedale. David non si sente pronto a diventare adulto, assume comportamenti contradditori ed entra in conflitto con il suo migliore amico e con sua madre.  Salaviza opta per  una narrazione genuinamente indolente, in una dimensione sospesa tra infanzia ed età incerta, tra spensieratezza e prime responsabilità, tra solitudine e conflittualità. Predilige le scene immerse nella penombra e scruta minuziosamente i volti dei suoi protagonisti. Propone un cinema classico, cercando la giusta mediazione tra il rigore della messa in scena, ricercata, ma mai compiaciuta e la naturalezza dei corpi, tra parole, suoni e silenzi. Cattura sapientemente tempi, fisicità e luoghi dell’adolescenza e tratteggia, con pudore ed empati,a un itinerario di maturazione emotiva e sessuale, di (ri)avvicinamento tra madre e figlio e di elaborazione di un lutto atteso.

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Cartas da guerra (2016), terzo lungometraggio  di Ivo M. Ferreira, parzialmente girato in Angola, è una parabola poetica tra tragica realtà bellica e riflessione privata. Un’elegia lucida e dolente su una ferita ancora aperta e tuttora molto condizionante la vita politica e lo spirito dei portoghesi: l’assurdità della guerra  coloniale in Africa (1961 - 1974), nella sua fase finale. Basandosi sulle lettere inviate alla consorte incinta, nel 1971-72, da António Lobo Antunes, medico militare ventottenne in servizio in Angola, interpretato nel film da Miguel Nunes,  il regista propone un film rigoroso e pervaso da una sottile tensione, in un nitido e saturo bianco e nero, impreziosito dalla magnifica fotografia curata da João Ribeiro. Un’opera che  fonde diario, reportage di una guerra crudele, dolorosa e logorante, e dichiarazione di nostalgia e tenerezza per  una moglie lontana.  Scanditi dalla  voce in off della moglie del protagonista Maria José (Margarida Vila-Nova), che legge le missive, apparendo in rari momenti come un fantasma che si muove in stanze vuote, si susseguono episodi  e piccole storie.

 

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"Cartas da guerra" Ivo M. Ferreira

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Emergono la vitalità e la condizione di sfruttamento della popolazione locale, la natura diversa e affascinante, ma anche la triste routine quotidiana e la rassegnazione dei soldati portoghesi che si sentono sperduti in una guerra, che appare a molti di loro incomprensibile, e cercano un appiglio e un punto di riferimento e, infine,  pure alcune scene sanguinose del conflitto. Certamente  non può mancare il confronto con Tabu (2012)  il film  in cui Miguel Gomes mette in scena un eccezionale dramma esistenziale che contiene una visione molto originale del colonialismo portoghese in Africa. Anche quel film è girato in 35mm, in un magnifico bianco e nero. Ne promana una nostalgia diversa rispetto a quella di Cartas de guerra, meno malinconica e fatalista, più finemente umoristica e melodrammatica, giocata su dicotomie dialettiche: città / campagna; giorno / notte; nostalgia / esotismo; vecchiaia / giovinezza; solitudine / amore; matrimonio felice / adulterio.  Lo sguardo di Gomes, limpidamente antinaturalistico, è nutrito da continue torsioni e venato di sottile scetticismo laico sulla Storia e sulla memoria, sugli uomini, sulle classi sociali e sulla religione. Invece Ivo M. Ferreira pone al centro del suo film le lettere di Antunes (raccolte nel libro “D'este viver aqui neste papel descripto - Cartas da guerra”, pubblicato nel 2005 dopo la morte di Maria José Xavier da Fonseca e Costa) che esprimono un lungo lamento d’amore e di assenza, un dolce attaccamento e una passione che è diventata ossessione, ma anche indignazione, rabbia e reiterata ricerca di salvezza. Configura una sospensione in un limbo dal quale non emerge praticamente mai la “realtà”, seppur reinterpretata o reinventata, ma piuttosto la rappresentazione drammatica di un tempo passato dalle forme oniriche. Costruisce sapienti tableaux vivants e fonde magistralmente finzione e footage documentaristici.  Nonostante una narrazione in alcuni momenti esageratamente lenta, ma che simula quasi sempre efficacemente il flusso di coscienza di Antunes, e qualche eccesso nell’uso della voce in off, il film genera nello spettatore momenti di sincera commozione.

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"Sao Jorge" Mauro  Martins

 

São Jorge (2016), terzo lungometraggio  di Mauro  Martins, è un  cinereo e desolante dramma esistenziale ricco di qualità documentaristica. Si tratta del ritratto realistico e naturalistico di un trentenne disoccupato, coinvolto in una complessa e soffocante situazione familiare, e costretto a una scelta disperata per  ripagare i propri debiti e per salvaguardare i propri affetti. È un film che nasce da una ricerca sul campo di due anni nei quartier proletari e sottoproletari di Lisbona, in un’epoca che ha segnato la più grave crisi economica della storia recente del Portogallo, iniziata nel 2011 con i tagli del bilancio statale e la drastica ristrutturazione del debito del Paese imposta dagli organismi economici internazionali. Una congiuntura negativa durata anni, e non ancora del tutto risolta, che ha determinato il collasso delle finanze delle famiglie, con crescenti debiti e impossibilità a restituire i prestiti contratti, diventando quindi vittime delle agenzie private di riscossione. Il  protagonista è Jorge (Nuno Lopes), un corpulento e imponente trentenne senza mezzi né prospettive, che vive ancora  nell’alloggio di suo padre in uno slum sulle rive del Tago abitato da poveracci di varie etnie.

   

L’uomo, ex operaio licenziato dalla fabbrica in cui lavorava, essendo stato in gioventù un pugile dilettante, tenta di raggranellare  qualche soldo accettando di perdere gli incontri  di boxe organizzati in palestre periferiche in cambio di un miserabile compenso. Il suo fisico ormai appesantito e fiaccato da una vita non certo sana  in qualche modo regge ancora, ma rimedia tremende mazzate. Il problema è che sua moglie, la mulatta brasiliana Susana (Mariana Nunes), separata da lui, non solo lo disprezza e cerca in ogni modo di impedirgli di vedere Nelson (David Semedo), il loro bambino, ma  continua a chiedergli denaro e minaccia di tornarsene  nella terra natia in Brasile, portandosi dietro il figlio. Jorge vive una situazione di grande stress e di ossessione e, per convincere Susana a rimanere in Portogallo, accetta un impiego  come esattore per conto di un’agenzia di recupero di crediti e di riscossione di debiti, “legalmente autorizzata”. In breve si trova coinvolto in una spirale di violenza perché capisce che il suo vero compito è quello di intimidire e di picchiare i malcapitati debitori inseriti nella lista dell’agenzia: anziani pensionati, disoccupati, donne sole e altri poveracci.  Un incidente fatale e la sua definitiva rovina sono solo questione di tempo. Mauro Martins costruisce un film di chiara intenzione documentaristica e di forte impatto emotivo, ma evita di ricattare lo spettatore con il facile sensazionalismo dell’esibizione gratuita della violenza e della degradazione o con la deriva populista o buonista. Attraverso il suo protagonista fa incrociare le sconsolate e ambigue chiacchiere degli ospiti della casa del genitore di Jorge con le laceranti lamentazioni e i propositi suicidi di piccoli imprenditori falliti e la vita nei casermoni degradati che paiono sul punto di collassare con le povere e tristi festicciole danzanti degli immigrati africani e brasiliani. Il suo sguardo, ricco di sensibilità, segue costantemente Jorge a distanza ravvicinata,  nel tentativo di consentire allo spettatore di avvertire  pienamente, quasi in forma epidermica, il suo travaglio, in un crescendo di rumori ossessivi e metallici e di tonalità cupe e con un abile uso del fuoricampo. Le infinite peregrinazioni e le tappe della via crucis  di Jorge  segnano una lenta e inesorabile  parabola di disperazione, privilegiando le atmosfere notturne che le rendono ancora più tragiche. E la prevedibilità della sua caduta non assume un significato meccanicista grazie alla scelta  accorta, e drammaturgicamente efficace, di una conclusione incerta e aperta,  evitando la facile tentazione di un finale di morte che sarebbe stato del tutto prosaico. Jorge vive un ultimo breve intermezzo consolatorio di pace e di appagamento nel rivedere Susana e Nelson e il suo destino resta in sospeso. La traiettoria esistenziale, condensata e ineluttabile, di un unico personaggio archetipo diventa la metafora di una sconfitta e di una disgregazione sociale collettiva. L’interpretazione di grande spessore, aspra, rabbiosa, impotente e costernata al tempo stesso, di Nuno Lopes non è solo un valore aggiunto quanto l’imprescindibile filo conduttore che conduce a configurare un’epica dei vinti limpida e realistica.

Colo (2017),  settimo film della cinquantenne di Teresa Villaverde, racconta con uno stile osservazionale e una misura rarefatta, la  dissoluzione di una famiglia mononucleare: padre e madre e figlia diciassettenne. Si tratta di gente comune che scivola nell’indigenza: lui ha perso il lavoro, lei ha un doppio impiego, la ragazza studia. Vivono in un appartamento in un condominio moderno di edilizia popolare che dovranno presto abbandonare. Teresa Villaverde evita il  sociologismo di maniera, ma propone un ritratto piuttosto artificioso e marcato da un esistenzialismo asfittico e da profili psicologici dei personaggi non convincenti. Incerta e oscillante  nello sguardo e negli  intenti, ma visibilmente preoccupata di partire dal registro realista per innescare un messaggio morale e politico subliminale, finisce per approdare a incongrui effetti artificiosi e grotteschi, depotenziando la qualità drammatica del film, tra momenti surreali, pesanti metafore e desolazione, apatia e alienazione mal rappresentate rouge

 

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"Colo" Teresa Villaverde

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63. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID

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26 - 27 / 10 / 2018

Seminci Valladolid

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