interference
interference
eng
de
es
it
it
tr
 
px px px
I
I
I
I
I
I
 

px

impressum
contact
archive
facebook

 

px

 

pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 71. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI LOCARNO I Varietà di generi e poche eccellenze ... I DI GIOVANNI OTTONE I 2018

Festival di Locarno 2018

Locarno Festival 2018

Varietà di generi e poche eccellenze
Pardo d’Oro al miglior film a A Land Imagined, del cinese, di Singapore, Yeo Siew Hua

DI GIOVANNI OTTONE

"A Land Imagined", Yeo Siew Hua

 

Locarno Film Festival

px
px

Il 71° Locarno Festival,  svoltosi dall’1 all’11 agosto, ultima edizione diretta da Carlo Chatrian, già designato Direttore Artistico della Berlinale dal 2019, si è caratterizzato come una rassegna dalle mille anime, festosa ed introspettiva,  all’insegna del tentativo di canalizzare la complessità e l’imprevedibilità dei rapporti umani, le ragioni politiche dei sentimenti e la ricerca di nuovi linguaggi. Inoltre ha palesato la scelta di presentare nel “Concorso Internazionale”, e nelle sezioni collaterali, molti film dedicati a ritratti femminili forti e /o controversi. Nell’inaugurazione in Piazza Grande, la versione restaurata del cortometraggio Liberty (1929), con Stanlio ed Ollio,  nell’avventura vertiginosa tra i grattacieli di New York, dopo la fuga dal carcere, per presentare al pubblico l’omaggio più significativo di quest’anno al grande cinema classico: la tradizionale retrospettiva del Festival è stata infatti dedicata alla geniale ed aristocratica creatività dell’americano Leo McCarey (1896 - 1969). Un grande protagonista dell’epoca del muto e personalità degli Hal Roach Studios, e poi, fino ai primi anni ’60, multiforme creatore di tipi umani, interpretando miti,  identità e paure delle varie epoche, in grandi drammi e commedie, tra cui i memorabili: The Milky Way (1936), Love Affair (1939), The Bells of St. Mary’s (1945), Good Sam (1948), My Son John (1952), An Affair to Remember (1957) e Satan Never Sleeps (1962).  Quindi una sfilata di presenze iconiche in Piazza Grande, sera dopo sera, premiate per celebrarne la carriera. Pardo d’Onore a Bruno Dumont, che ha presentato  due puntate del suo novissimo serial televisivo Coincoin et les z’inhumains. Si tratta delle nuove avventure del commissario e della piccola comunità rurale di simpatici freks, in un piccolo villaggio della costa atlantica francese nella regione di Boulonnais, non lontano da Calais, stavolta in lotta con l’invasione degli ultracorpi. Un sequel del suo precedente e più esplosivo e originale P’tit Quinquin(2014), originale incursione nel genere slapstick, ricca di humour caustico, cinico, anarcoide e macabro, con una precisa caratterizzazione antropologica e con uno strampalato coté di thriller. Excellence Award a Ethan Hawke, che ha portato al Festival la sua ultima regia, Blaze (già presentato al Sundance Film Festival 2018),  un malinconico biopic, con una struttura narrativa piuttosto faticosa, e solo a tratti emozionante, dedicato a Blaze Foley (Ben Dickey), cantautore leggendario, ma misconosciuto, della musica outlaw country texana. Un tipo contraddittorio, anticonformista e anarcoide, che si esibiva dal vivo nei bar di Austin, assassinato quando aveva solo 40 anni, in circostanze poco chiare, nel 1989. Leopard Club Award a Meg Ryan e Premio Rezzonico al produttore americano Ted Hope, scopritore di talenti, tra cui Ang Lee, Todd Solondz, Hal Hartley e Michel Gondry.

Peraltro, in sede di bilancio, occorre rilevare l’impressione di un Festival consolidato, ma ingessato, da  alcuni anni, in un programma con sezioni ormai non chiaramente caratterizzate e in una logica troppo attenta al pubblico svizzero nelle sue diverse espressioni linguistiche. Ne è prova la costante presenza di troppi film francesi mediocri e di maniera, specie  commediole e drammini politically corrects, diversi film italiani deboli o pretenziosi e molti film tedeschi di genere, velleitari o “scandalosi”, spesso viziati da estetica televisiva. In effetti, esaminando le sezioni principali del Festival (Piazza Grande, Concorso Internazionale, Cineasti del Presente, Sign of Life e Fuori Concorso), si nota che la presenza del cinema d’autore più innovativo (un marchio storico del Festival di Locarno) è apparsa confinata e contenuta. Mentre un comitato di selezione, incerto nelle valutazioni e nel tracciare programmi coerenti, ha dato spazio, specie nel Concorso Internazionale, a un mix mal assortito di registi veterani o maturi, noti beniamini del Festival,  in alcuni casi autori di opere di pregio, quantunque nel segno  della continuità, e  di registi trentenni e quarantenni, che hanno presentato film di genere drammatico, deludenti e pieni di stereotipi  o acerbi e pretenziosi, spesso costruiti ad hoc per ingraziarsi la Giuria e / o per provocare il pubblico con situazioni e immagini contundenti o con una pseudo rivoluzione affabulatoria estenuante, accanto a pochi film realmente convincenti, con diversi elementi estetici e poetici originali. Inoltre proprio la sezione “Cineasti del Presente”, storicamente destinata ad ospitare i lungometraggi più qualitativamente significativi di giovani autori del panorama internazionale, ha presentato, in maggioranza, opere deboli e irrisolte. Al contrario si deve segnalare la buona qualità e l’originalità creativa di vari documentari presentati fuori concorso o nelle rassegne collaterali. Ne citiamo alcuni: De chaque instant, del francese Nicolas Philibert; Mudar de piel,  della tedesca di origini basche Ana Schulz e dello spagnolo Cristóbal Fernández; The Sentence, dell’americano Rudy Valdez; Demons in Paradise, del cingalese tamil Jason Ratnan; The Apollo of Gaza, dello svizzero Nicolas Wadimoff.

Anche quest’anno non è mancato il piatto forte dedicato al grande pubblico, ovvero la solita selezione-contenitore polivalente di lungometraggi della sezione “Piazza Grande”: in maggioranza commedie piuttosto scontate e/o grottesche, drammi  di buoni sentimenti e pellicole di azione. A parte la riproposizione di alcuni film del passato, grandi classici e omaggi (Grease, di Randal Kleiser, Se7en, di David Fincher, In the Cut, di Jane Campion e Manila in the Claws of Light, di Lino Brocka) e di film presentati nella selezioni ufficiale del Festival di Cannes di quest’anno (BlacKkKlansman, di Spike Lee e Pájaros de verano, di Ciro Guerra e Cristina Gallego), segnaliamo alcuni fra i 18 lungometraggi presentati. The equalizer 2, dell’americano Antoine Fuqua, già uscito a luglio in molti Paesi e programmato a settembre nelle sale italiane, è il sequel di Equalizer (2014), che è dedicato alla vendetta giustizialista. Il nuovo blockbuster, sempre marcato dalla carismatica presenza di Denzel Washington,  che interpreta Robert McCall, un ex-agente della CIA, ritiratosi dopo la morte della moglie, ma  sempre pronto a combattere, in incognito, ingiustizie e soprusi, è  invece un thriller classico contaminato con  suggestioni western. Girato benissimo, con referenze a Hitchcock, riguarda l’ambiguità e il controllo del potere: è notturno e violento,  ma anche divertente, nonostante una certa prevedibilità della trama. Les beaux esprits, opera seconda del francese Vianney Lebasque, è una modesta commedia satirica in cui l’allenatore della squadra di basket francese alle Paraolimpiadi di Sidney del 2000, dopo l’abbandono dei suoi atleti, arruola truffaldinamente giocatori non disabili per ottenere la vittoria. L’ordre des medecins, opera prima del francese David Roux, racconta la silenziosa convivenza quotidiana con il dolore e la morte di un giovane medico ospedaliero completamente assorbito dal suo ruolo di responsabilità, fino a una drammatica crisi, rielaborando regole e stile delle storie dei fratelli Dardenne. Was uns nicht umbringt (What Doesn’t Kill Us), della tedesca Sandra Nettelbeck, si configura quasi come un omaggio al cinema di Paul Thomas Anderson. Ambientato ad Amburgo, presenta storie di distacco e di sofferenza tra coppie di ogni età, in gran parte borghesi, mediate da incontri e confessioni nello studio del protagonista, che è uno psicoterapeuta divorziato, travolto dal problema dell’improvviso innamoramento per una sua paziente, giocatrice d’azzardo compulsiva. Pur impegnandosi nella disanima della paura dell’attrazione e degli affetti e del contrasto tra sentimento, desiderio e realtà, il film risulta dispersivo, drammaticamente asfittico ed esteticamente televisivo, tra ambienti levigati e ritriti stereotipi. Le vent tourne, della svizzera Bettina Oberli, racconta l’utopia ecologista e anticonsumista di una coppia di borghesi trentenni, che gestiscono una fattoria. La loro relazione viene messa in crisi quando Pauline perde la testa per Samuel, ingegnere cinico e giramondo che ha installato il loro impianto di energia eolica. È  un dramma troppo programmatico e scontato e anche viziato da una recitazione complessivamente mediocre. Un nemico che ti vuole bene, dello svizzero Denis Rabaglia, ambientato tra Bari e Gstaad, è una commedia nera centrata sul fortuito e inconsueto rapporto di complicità tra un giovane killer napoletano (Antonio Folletto) e un serioso e burbero docente universitario di astrofisica ( l’efficacissimo Diego Abatantuono), tormentato da un clan familiare di profittatori e bugiardi, tra cui la stucchevole madre (Sandra Milo), e da colleghi ipocriti e truffaldini. È  un film senza grandi pretese, ma a tratti divertente perché evita i toni grotteschi  e grossolani e rielabora con leggerezza alcuni noti stereotipi. L’ospite, opera seconda del toscano Duccio Chiarini, dopo il felice esordio con Short Skin (2014), è una commedia drammatica agrodolce che racconta la malinconica crisi del rapporto tra Guido (Daniele Parisi) un ricercatore universitario e la sua fidanzata Chiara (Silvia D’Amico), guida nei musei con contratto precario. E, attorno a loro, amici e coppie alle prese con incertezze e goffaggini nelle relazioni interpersonali. Chiarini mostra buone intenzioni nel delineare tormenti e difficoltà tipiche dei trentenni di oggi, tra amori perduti e tentativi di nuovi inizi, e propone un approccio fresco, leggero,  chiaramente empatico e, forse, persino troppo tenero, verso i suoi protagonisti. Reinterpreta i clichés, propone un ritratto abbastanza atipico di Roma, anche perché il suo cast comprende in larga parte attori toscani, e opta per facili bozzetti umoristici. Searching, opera prima dell’americano Aneesh Chaganty, già presentata lo scorso gennaio al Sundance Film Festival, è un thriller giocato su inaspettati colpi di scena. Dopo la tragica scomparsa della moglie, David Kim (John Cho) cerca di mantenere un buon rapporto con Margot (Michelle La), la sua unica figlia  sedicenne, lasciandole una certa libertà. Una mattina scopre che la ragazza scompare nel nulla, dopo aver tentato invano di contattarlo la notte precedente.  37 ore dopo  la detective Rosemary Vick (Debra Messing) viene assegnata al caso e segue la pista della fuga volontaria della giovane. David si fida di lei,  e nel frattempo, cerca di ricostruire i movimenti della figlia attraverso le tracce che lei ha lasciato nel proprio computer e intervista on line persone che la conoscevano. Tra e-mail, chat, video su You tube, social network, profili virtuali e dating app, il laptop di Margot rivela molti spiacevoli segreti. Ma poi David scopre che anche la detective che conduce l’inchiesta è spinta da  ragioni inconfessabili e tutto si capovolge. La particolarità del film è che la storia è interamente raccontata attraverso lo schermo del computer di Margot, dove compaiono ogni tipo di immagini, da varie fonti: Skype,  FaceTime, Facebook, motori di ricerca, webcam, smarthphone e notiziari televisivi. Una rigorosa unità di spazio e, con alcuni artifici, un’unità di tempo, con un editing che simula il tempo reale e un unico piano sequenza, e l’unica aggiunta di una colonna sonora incalzante. Una modalità accattivante per una storia non proprio appassionante, con denunce scontate delle storture dell’American Way of Life e della dipendenza dai social media e con personaggi  piuttosto stereotipati. I Feel Good, dei francesi Benoît Delépine e Gustave Kerven, film di chiusura del Festival, è una commedia anarcoide, piuttosto scontata e poco originale nelle gag umoristiche, con una vaga ambizione didascalica. Ambientata in una location vera,  la sede dei Compagnons d’Emmaüs di Lescar - Pau (uno dei centri fondati dal mitico Abbé Pierre per aiutare poveri, marginali e vinti dalla vita, autogestiti grazie al recupero di merci e materiali abbandonati o donati  e al lavoro di tutti in discipline diverse), racconta lo strampalato tentativo di diventare ricco di Jacques (Jean Dujardin), un quarantenne nullafacente e privo di scrupoli, che ha trovato rifugio nella comunità diretta da sua sorella Monique (Yolande Moreau). L’uomo cerca di manipolare alcuni suoi nuovi compagni e li coinvolge in un grottesco viaggio in Bulgaria per frodarne i pochi risparmi, ma  il risultato sarà ben altro.

La sezione “ Concorso Internazionale” ha compreso 15 lungometraggi provenienti da Paesi di Europa, America e Asia. La Giuria, presieduta dal noto regista cinese Jia Zhang-ke ha assegnato il Pardo d’Oro al miglior film a A Land Imagined, opera seconda scritta e diretta dal trentenne cinese, di Singapore, Yeo Siew Hua. È un noir atipico perché combina  un inedito ritratto realista e credibile del contesto sociale e lavorativo nei cantieri di Singapore intrecciandolo con uno psicodramma esistenziale che si trasforma in thriller notturno sfuggente e metafisico. Al centro della vicenda vi è uno degli enormi cantieri edili esistenti a Singapore che sta costruendo un ampliamento artificiale della superficie, sottraendo al mare una vasta area mediante lo riempimento con rocce frammentate e sabbia importate dalla Malesia, allo scopo di garantire una nuova ampia area edificabile utile per rispondere alla costante richiesta di nuove abitazione per la città - stato, posta all’estremo meridionale della penisola malese e meta di un costante flusso migratorio in entrata. Essendo ben noto che a Singapore vige un regime politico con tratti autoritari,  privo di una legislazione  che rispetti pienamente i diritti civili e dei lavoratori, non sorprende che in quel cantiere  siano utilizzati solo stranieri, provenienti dalla  Cina e dal Bangladesh, a cui la proprietà ha sequestrato i passaporti, trattati come schiavi, con ritmi e turni di lavoro massacranti. Il ventenne cinese Wang Bi Cheng (Liu Xiaoyi) è uno di loro. Dopo un incidente sul lavoro non riesce a dormire ed è tormentato da incubi. Quindi inizia a frequentare  un cyber cafe dove conosce la misteriosa e attraente manager notturna Mindy (Luna Kwok), con il corpo tatuato e un’acconciatura punk, che sembra sfidarlo a scoprire la sua vera identità, mentre lui si appassiona a giocare il “first-person shooters” con sconosciuti interlocutori virtuali. Nel frattempo è stato spostato a guidare una camionetta per il trasporto dei suoi colleghi e, poco a poco, diventa amico di un altro operaio bengalese (Ishtiaque Zico). Ma un giorno quest’ultimo, che ha cercato di promuovere una protesta nel cantiere, scompare misteriosamente e Wang lo cerca di notte, sospettando che sia stato eliminato dai proprietari. Infine ne ritrova il cadavere, sepolto malamente sotto la sabbia di una spiaggia.   Poi fugge e a sua volta scompare nel nulla. Lok (Peter Yu), un  detective della polizia, insonne,  scettico e nostalgico del passato, si mette sulle tracce di Wang, scontrandosi con l’omertà dei padroni e dei lavoratori del cantiere. Quindi decide di lasciarsi guidare dai suoi sogni e cerca di rintracciare  i misteriosi interlocutori virtuali dell’uomo che si è eclissato, ma lui stesso precipita in un vortice labirintico in cui si mescolano realtà, apparenza e distorsione mentale.  E nello spettatore si insinua il dubbio che tutta la vicenda di Wang sia solo un sogno del detective Lok. A Land Imagined combina istanze e generi diversi, con un approccio autoriale interessante, in cui si notano le referenze a Blade Runner, di Ridley Scott, a Heat, di Michael Mann e ai film di Wong Kar-wai e di Apichatpong Weerasethakul, seppure senza la commovente malinconia o la genialità che promana dal cinema di quegli autori. E Yeo Siew Hua sembra guardare soprattutto a David Lynch e propone anche vane imitazioni di certe astruserie narcisistiche del vecchio guru americano. Peraltro il film rivela squilibri e carenze nella sceneggiatura e nella messa in scena, per la palese difficoltà di accoppiare i due registri: la denuncia realista e il thriller con deriva contemplativa  e onirica e spunti surreali. Quindi risulta spesso confuso e irrisolto, pretenzioso e poco rispondente alle sue ambizioni, perché la trama  è destrutturata in un gioco di contorsioni temporali e atmosfere indecifrabili che si avvita su sé stesso, perdendo progressivamente la coerenza narrativa, tra sogni e visioni. Ma è anche  affascinante per l’ottima tessitura visiva, grazie alla preziosa fotografia di Hideho Urata, e per le molte suggestioni fantastiche che propone allo spettatore.

Il Premio Speciale della Giuria è andato a M, della francese, di origini ebraiche, Yolande Zauberman, un’opera eccezionale, di gran lunga il miglior film, secondo il nostro giudizio. È un documentario che offre un’esplorazione ravvicinata della realtà antropologica degli Haredim, la comunità di ebrei ultraortodossi concentrata specificamente nel quartiere di Bnei Brak a Gerusalemme, dove si parla ancora l’yiddish, e che rivela i tanti casi di abuso sessuale pedofilo su minori da parte di adulti. Una sconvolgente realtà che si rivela una ricorrente “abitudine”, favorita dalla separatezza dei maschi e dai rapporti gerarchici di vassallaggio dei giovani rispetto agli anziani nelle scuole rabbiniche e nota a molte famiglie da decenni. Emerge anche che molti casi sono stati minimizzati dalle autorità religiose per soffocare la divulgazione della verità. Menahem Lang, il protagonista trentacinquenne, abusato quando era bambino, uscito dalla comunità, trasferitosi a Tel Aviv e divenuto attore, anche nei film di Amos Gitai, vi  torna dopo 15 anni per sconfiggere i suoi fantasmi e l’omertà che ha aggravato il suo dolore. La sua denuncia,  anni prima,  ha suscitato enorme clamore in Israele, suscitando una controversia che non è mai finita. Racconta la sua storia, ma non cerca vendetta e dimostra di non avere dimenticato i riti e i canti  liturgici appresi fin da bambino, quando frequentava la yeshivah, dove è stato violentato per anni proprio da un rabbino. Nel corso di un paio d’anni, seguito con puntualità dalla regista, l’uomo ricostruisce la relazione con i genitori e i fratelli e raccoglie le dichiarazioni di altre vittime dei pedofili, innescando una dinamica nuova di riflessioni e di rapporti interpersonali. Il film, costruito sapientemente, attraverso una significativa ambientazione prevalentemente notturna e una combinazione vivace di piani di ripresa, personaggi, dialoghi e testimonianze, si sviluppa con una tensione e un’incisività crescenti, evitando la pura denuncia e il rischio di scadere nella retorica didascalica,  semplicistica o sensazionalista.

Il Pardo per la miglior regia è stato attribuito alla cilena Dominga Sotomayor per il suo terzo lungometraggio Tarde para morir joven, un’ambiziosa coproduzione  di imprese di Cile, Brasile, Argentina, Paesi Bassi e Qatar. È un dramma corale, ambientato nell’estate del 1990, dopo la fine della dittatura di Pinochet e il ripristino della democrazia  in Cile. Racconta le dinamiche interpersonali e intergenerazionali in una comune  sita alle pendici delle Ande, ma non lontano dai centri abitati, dove convivono democraticamente, prendendo decisioni in assemblea, idealisti anticapitalisti, ecologisti, nuovi agricoltori, musicisti, pittori, nostalgici degli hippies e semplici senzacasa in cerca di un tetto. In particolare pone l’accento sulla formazione sentimentale e sessuale della quindicenne Sofia (Demian Hernández), introversa e dal fascino insolito, che vorrebbe lasciare la comunità e andarsene a vivere con la madre cantante,  la quale tuttavia non sembra entusiasta di averla con lei. Dominga Sotomayor ha realizzato due lungometraggi, De jueves a domingo (2012) e Mar(2015), dimostrando una notevole sensibilità nella composizione di ritratti di crisi familiari, tratteggiate con un approccio minimalista, ma pregnante, intimo, sottile e  ricco di sfumature emotive. Attraverso  piccoli dettagli che denotano l’intreccio tra fragilità di identità e contraddizioni sociali, ha fotografato anche l’immagine vagamente assurda di strati sociali piccolo borghesi in Cile e in Argentina, in preda a una  inconsapevole condizione di immaturità e di incoscienza. Purtroppo Tarde para morir joven, pur caratterizzato da uno stile maturo in termini di inquadrature e movimenti di macchina e dalla magistrale fotografia di Inti Briones, denota  una narrazione e una messa in scena incerte e dispersive. Tra disanima psicologica poco chiara e velleità didascaliche, la tensione drammatica latita, i troppi personaggi sono caratterizzati superficialmente, il montaggio di Catalina Marín è anacronistico e il film risulta  poco convincente e affatto emozionante, specie nel finale “tragico”.

Andra Guti ha ottenuto il Pardo alla miglior attrice per la sua  significativa interpretazione in  Alice T., del romeno Radu Muntean. Il film propone il ritratto molto credibile di Alice, una sedicenne di Bucarest, adottata in tenera età da una donna che non poteva avere figli. Un’adolescente egoista, bugiarda seriale, priva di qualsiasi freno, narcisista e interessata solamente a fare a gara con le amiche per apparire sui social. Trascura lo studio, salta le lezioni, è aggressiva e litiga con compagni e professori, salvo poi fingere di essere la vittima e farsi difendere dalla madre quando è convocata dalla preside. Alice è stupidamente irresponsabile e capace di approfittare dei sensi di colpa  di sua madre, quando questa scopre che la figlia è incinta, per ottenere attenzione, affetto e concessioni varie. Prima grida di voler  tenere il nascituro e accetta di essere seguita dalla ginecologa di fiducia della madre per monitorare la gravidanza, ma nel frattempo chiede e ottiene il denaro per abortire da parte dell’uomo maturo con cui ha avuto una relazione “senza impegno”. Quindi, una settimana dopo, all’insaputa del genitore, assume farmaci ad hoc, seguendo le indicazioni ricavate on line, e si procura un aborto indotto, sopportando incoscientemente  la dolorosa emorragia mentre si trova a casa di un’amica che le è complice. Infine, in vacanza al mare, a casa dei parenti, finge di essere ancora incinta e si presenta come una giovane donna coraggiosa  conscia del suo ruolo futuro di mamma, salvo cercare persino di sedurre un bagnino che è già fidanzato. Il tratto caratteristico dei film di Muntean, Boogie (2008), Tuesday, After Christmas (2010)  e One Floor Below(2015), è quello di rappresentare molto bene le contraddizioni esistenziali in una società in rapida e drammatica trasformazione in cui i protagonisti, appartenenti al fragile nuovo ceto medio, faticano ad assumere le proprie responsabilità. In Alice T.Muntean  costruisce con cura la trama drammatica, configurando il comportamento del tutto amorale di Alice e la sua relazione con la madre, ma  lasciando allo spettatore impressioni e giudizi. Rappresenta con naturalezza le pieghe della quotidianità “normale” della protagonista, con una messa in scena realista, la precisa valorizzazione dei particolari del contesto e una narrazione che simula il tempo reale. Vi è una tensione controllata che si sviluppa sottilmente e genera brevi e violente esplosioni, non prevedibili, ma sempre conseguenti lo sviluppo della storia e aliene dalla logica del climax.  Alice è presente in ogni scena e tallonata dalla macchina da presa che  ne scandaglia continuamente il volto e il corpo e che registra le sue modalità comportamentali ossessive, truffaldine e ricattatorie e la capacità di mentire sempre e comunque, oltre ogni logica. Muntean evita lo psicologismo di maniera e la catarsi moralistica. Fino alla  resa dei conti finale, nello studio della ginecologa, dopo una nuova ecografia, che mette Alice con le spalle al muro e la costringe a prendere atto, con un pianto disarmante, che la recita è terminata, ma in cui, comunque, il regista, con scelta efficace, non  lascia presumere nulla sul suo futuro.

Ki Joobong ha ricevuto il Pardo al miglior attore per il suo ruolo in Gangbyun Hotel (Hotel by the River), di Hong Sangsoo. Ancora una volta, come in gran parte dei suoi numerosi film precedenti, il virtuoso regista coreano propone una storia apparentemente semplice e magnifici ritratti esistenziali, per mostrare  la complessità della vita attraverso un ennesima nuova prospettiva. Peraltro pur  mettendo a fuoco, ancora una volta, l’importanza della  relazione amorosa tra uomo e donna, propone, con uno sguardo pacatamente malinconico e quasi rassegnato, la centralità di una dialettica più alta e decisiva, quella tra la vita e la morte, in un percorso narrativo che tocca la contemplazione della bellezza e della natura, la poesia e il sentimento dell’esaurimento e della perdita. La vicenda si svolge durante l’inverno in un piccolo boutique hotel lontano dal tessuto urbano, posto sulle rive del fiume Han, dove due ospiti, che sembrano essere gli unici clienti, si incontrano per la prima volta. Younghwan (Ki Joobong) è un anziano e famoso poeta, invitato dal proprietario dell’albergo, che è un suo estimatore,  con l’offerta di un soggiorno di riposo. L’uomo, sentendo, senza alcun giustificato motivo, approssimarsi la morte, convoca i due figli quarantenni con cui non ha più rapporti da tempo. Mentre attende che questi ultimi lo raggiungono e osserva lo splendido paesaggio innevato, nota una trentenne, bella e riservata. Sanghee (Kim Minhee, musa del regista), afflitta per la traumatica fine della relazione con l’uomo con cui viveva, che l’ha tradita, attende invece l’amica  Yeonju (Song Seonmi), che si è offerta di raggiungerla per sostenerla e confortarla. Younghwan si fa avanti e si presenta alla due donne riempiendole di complimenti per la loro bellezza che, afferma, ispira la sua vena poetica. Nonostante un certo imbarazzo, la solitudine e la malinconia che aleggia tra i personaggi lascia spazio a una certa ilarità. Nel frattempo giungono da Seul i suoi figli, entrambi dedicati al lavoro e alla ricerca del successo: il maggiore Kyungsoo (Kwon Haehyo) è un imprenditore, mentre il minore Byungsoo (Yu Junsang) è un regista cinematografico piuttosto noto. I due non sembrano particolarmente entusiasti di incontrare quel padre anziano con cui non hanno alcuna vera intimità, ma si mostrano sinceramente preoccupati quando apprendono il presentimento della fine che il genitore comunica loro. Kyungsoo ha appena divorziato, ma non vuole farlo sapere al padre perché Younghwan gli ricorda quanto stimi e apprezzi la nuora. Byungsoo, al contrario, è single: ammette di avere paura  delle donne e attribuisce il problema al fatto che sua madre lo avrebbe oppresso  con i suoi sentimenti possessivi. Peraltro dopo un’iniziale impaccio padre e figli riescono a comunicare agevolmente e si impegnano in una lunga discussione che spazia  su ricordi e rivelazioni sul passato. Younghwan si dilunga sulla bellezza e sull’universo femminili, legge una poesia dedicata  a Sanghee e di Yeonju, appena conosciute, ed esprime fiducia nei rapporti uomo-donna, anche  se nella sua vita ha conosciuto separazioni dolorose e non  mantiene più rapporti con la madre dei suoi figli. Poi si allontana lasciando i figli a riflettere sulle cose della vita. Nel frattempo, nella quiete della  camera in cui soggiornano, le due amiche si confidano. Sanghee, rievocando il fatto di essere stata abbandonata dal suo uomo, ammette la labilità dei rapporti amorosi e l’ineluttabilità, a volte, della loro fine. Secondo lei gli uomini sono immaturi, incapaci di comprendere l’amore e codardi. Yeonju, l’amica comprensiva e solidale, la consola e, conoscendola, le sta vicino per non farle avvertire la solitudine. Hong Sangsoo le raffigura in momenti intimi di grande delicatezza e tenerezza, rannicchiate a letto e abbracciate. Tutti i personaggi, il padre con i due figli e le due amiche, si ritrovano in un piccolo ristorante  dove consumano la cena nel tardo pomeriggio, sistemandosi in tavoli separati e  le conversazioni non si intrecciano tra maschi e femmine: si limitano ad osservarsi. Dopo una prima parte dove i personaggi si relazionano tra loro e con la natura, Hong Sangsoo mette in scena un suo topos  abituale: la convivialità dell’esistenza nel senso del piacere di mangiare e di bere alcolici. Poi i figli cercano Younghwan che è tornato a piedi in albergo per fare una passeggiata, ma il finale, facilmente intuibile, è risolto in sottotono, senza inutile enfasi, utilizzando magistralmente il fuori campo. I film di Hong Sangsoo,  tutti diversi, nonostante le molte similarità, le relazioni che legano spesso l’uno ai precedenti e l’evidente matrice autobiografica che li nutre,  offrono uno sguardo ironico e amaro, ma comprensivo, sull’irrazionalità dei sentimenti nella Corea di oggi. La nota dialettica amorosa, sempre presente nelle sue storie, si regge su giochi di incomprensioni, piccole bugie e candide aspettative, che spesso non si realizzano o deludono, condite da dialoghi brillanti e situazioni teatrali. È un cinema sempre molto personale, fondato sulla parola, e quindi sulla conversazione tra pochi personaggi che interagiscono tra loro, e nutrito da uno humour fresco e, a volte, sarcastico o amaro, e da un classico stile naturalista. Riecheggia il cinema francese della post Nouvelle Vague, con riferimenti a Rohmer, Rivette, Resnais e a Lelouch, e anche quello di Woody Allen, ma è saldamente ancorato a  tipologie umane e a contingenze specificamente coreane. I suoi film offrono spunti tragicomici deliziosi, attraverso l’osservazione dei comportamenti e la presentazione di strani incidenti in cui pare che la realtà si vendichi di fronte alle omissioni e alle  menzogne ipocrite dei protagonisti. Ne emerge un’idea della composizione dei contrasti interni alle relazioni attraverso una filosofia di ricerca di momenti di felicità. Relazioni complicate, rapporti che non decollano o che finiscono, infedeltà e incomprensioni attraversano, insieme a nuovi temi introdotti volta per volta, i film più riusciti di Hong Sangsoo  nel corso degli ultimi anni: Woman on the Beach (2006), Oki’s Movie, e Ha ha ha (2010), The Day He Arrives (2011) Our Sunhi (2013), il bellissimo Hill of Freedom (2014), il ricercato e intriganteRight Now, Wrong Then (2015), l’ossessivo e misterioso On the Beach at Night Alone (2017), l’umoristicoThe Day After (2017) e il raffinato Grass (2018).  In queste opere, spesso girate in un prezioso bianco e nero, gli elementi della messa in scena  sono costantemente semplici ma anche sofisticati, con una composizione accurata delle immagini data da una combinazione magistrale di inquadrature fisse a varia distanza e simmetriche, zomm, close up, e tipiche panoramiche a schiaffo. Gangbyun Hotel conferma gli elementi essenziali, narrativi e stilistici del cinema di Hong Sangsoo, anzi, a parte qualche manierismo, ne è una  sintesi squisita,  con una costruzione drammaturgica fluida, armoniosa ed estremamente consapevole ed efficace. Ma al tempo stesso introduce e rende centrale, con ammirevole delicatezza, un tema nuovo, quello della morte, già accennato  trasversalmente nei suoi film precedenti, The Day After e Grass, e abilmente messo in relazione con i plurimi segni della vita. Ancora una volta il film è una storia di incontri, di doppi, di simmetrie e di solitudini parallele, prodotte dalla disgregazione di affetti e amori che marca ognuno dei personaggi, ma assume notevole importanza anche il tema della natura, del paesaggio restituito in un freddo e levigato bianco e nero, e degli esseri viventi, persone e animali, sempre in coppia.

RAI & LIZ, opera prima di finzione del noto fotografo e documentarista britannico Richard Billingham, ha ricevuto una Menzione speciale. Offre  il ritratto altamente drammatico, ma venato di humour dissacrante, della difficoltà di vivere della propria famiglia proletaria e disfunzionale, ispirandosi ai ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. In quell’epoca  Richard  viveva in uno squallido appartamento nelle case popolari alla periferia di Birminghan, insieme ai genitori, appunto Ray (Justin Salinger) e Liz (Ella Smith), in perenne conflitto tra loro, e al fratello minore Jason. In effetti dopo alcuni anni la famiglia si disgrega e i due si separano. Ray travolto dall’alcolismo si rinchiude in un piccolo alloggio di un lurido caseggiato, mentre Liz, fortemente obesa, trascorre il tempo a fumare e a comporre puzzle, disinteressandosi dei figli,  finché i servizi sociali le tolgono il piccolo Jason dandolo in affido. È  un film lucido e contundente, molto vero e privo di retorica pietistica e /o didascalica. Diviso in due episodi temporali, con progressiva prevalenza dei toni più pessimistici e disperati  mostra referenze a Ken Loach, Mike Leigh e Roy Andersson. Rappresenta una coppia di “brutti, sporchi e cattivi” in interni desolati, con una messa in scena essenziale e  antinaturalistica, uno sguardo molto personale e un’estetica del laido che evoca pienamente  l’epopea di Margaret Thatcher, ma anche la stagione del punk. Mescola degrado estetico degli ambienti ed etico dei personaggi, lacerazione sentimentale, rassegnazione rabbiosa, malinconia, humour nero e le stimmate di  due vite sprecate nell’autocommiserazione e nel  progressivo esaurimento nel nulla.

A family tour, quinto lungometraggio del cinese Ying Liang, è un eccellente dramma familiare che configura una riuscita operazione di metacinema di derivazione autobiografica, o meglio di autofiction, con un preciso significato politico. In effetti Ying Liang, nato a Shangai, fin dal suo esordio, con Taking Father Home(2005), non ha nascosto le sue critiche al modello di sviluppo economico vertiginoso e alla repressione liberticida del regime totalitario cinese e sei  anni fa è stato costretto ad esiliarsi a Hong Kong per  sfuggire le minacce subite dopo che le autorità condannarono il suo film When Night Falls (2012), premiato a Locarno. Un’opera che ricostruisce in termini finzionali un caso avvenuto nel 2008, quando, a Shangai, un ragazzo fermato, malmenato dalla polizia e impedito di denunciare il grave sopruso subito, uccise sei agenti e fu poi  condannato alla pena di morte e giustiziato poco tempo dopo, con una procedura dubbia e  nonostante la strenua battaglia di sua madre contro la colpevole burocrazia giudiziaria, vanificata dal suo ricovero coatto in un ospedale psichiatrico perché non potesse testimoniare al processo contro il figlio. A family tour mette in scena l’alter ego dello stesso Ying Liang, attraverso il personaggio e la vicenda di una regista trentenne cinese, Yang Shu (Gong Zhe), costretta all’esilio a Hong Kong, dopo aver realizzato il  documentario “The Mother of One Recluse” (che riguarda proprio i fatti raccontati nel film del 2012 di Ying Liang), condannato e boicottato dal regime della Repubblica Popolare della Cina. Ying Liang realizza quindi una lucida e onesta operazione di riflessione su sé stesso e un raffinato gioco di identificazione e di tenera, ma, tra le righe, chiaramente indignata, rappresentazione di un dramma esistenziale e familiare molto doloroso, mostrando sincera empatia, riuscendo sempre a mantenere la giusta distanza e ponendosi ben oltre la denuncia. La protagonista, a distanza di cinque anni dal suo arrivo a Hong Kong, dove ha ottenuto il semplice permesso di residenza temporanea, è sposata con il comprensivo e assennato Cheung Ka-Ming (Pete Teo),  valente organizzatore di Festival cinematografici, che, essendo nato a Hong Kong, può viaggiare liberamente tra il territorio con status speciale e la Cina continentale, ed è madre  di Yue-Yue (Tham Xin Yue), un adorabile bimbetto di tre anni. Yang Shu è preoccupata per le condizione di sua madre  Chen Xiaolin (Nai An), che vive sola in Cina, nella regione del Sichuan, e che essendo malata dovrà affrontare un’impegnativa operazione chirurgica. Quindi decide di cogliere un’opportunità unica per incontrarla, e per farle conoscere il nipotino, quando viene invitata al Formosa Film Festival, a Taipei, capitale di Taiwan, per partecipare a una retrospettiva dei suoi film. Il piano è quello di far giungere Chen Xiaolin a Taipei con un viaggio organizzato, riuscendo a trascorrere il tempo con lei mentre compie il programma di visite alla città. Ottenuta la collaborazione del Festival che consente alle due donne di sistemarsi nello stesso hotel, seppure in camere separate, Cheung Ka-Ming si occupa del visto turistico della suocera. Finalmente la famiglia riesce a riunirsi a Taipei, quantunque l’anziana madre debba sottostare alle continue raccomandazioni e all’occhiuta vigilanza di Peng (“3 3”, secondo i credits,  anche co-sceneggiatrice del film), la tour manager che consente che Yang Shu, con il marito e il figlio, partecipino alle escursioni  guidate del circuito turistico dove incontrano Chen Xiaolin. Nonostante questo piano  complesso possa sembrare troppo spiegato, con l’insistenza nel mostrare i dettagli amministrativi di passaporti, visti e permessi, l’espediente appare del tutto efficace e funzionale per promuovere il vero nucleo drammatico del film: il confronto intenso e commovente, ma non privo di asprezze e contrasti, tra madre e figlia. Da un lato Yang Shu manifesta continuamente il suo carattere fiero e la profonda tristezza per il boicottaggio subito e per il senso di isolamento e di restrizione della libertà dato dal suo status e quindi riconferma l’aspra critica nei confronti del regime cinese, anche perché si prepara a realizzare un nuovo film che racconta la cosiddetta rivolta in difesa della democrazia, e contro il progetto autoritario del governo di Pechino, dei giovani di Hong Kong, avvenuta nel 2014  e denominata “Rivoluzione degli ombrelli” (progetto che, nella realtà, è nei piani futuri dello stesso regista Ying Liang). Dall’altro Chen Xiaolin, figlia di un maoista perseguitato durante la Rivoluzione Culturale e quindi abituata a muoversi con estrema cautela e ai compromessi. rivela alla figlia tutte le tribolazioni subite, consegnandole una registrazione clandestina degli interrogatori  e delle pressioni a cui è stata sottoposta dalle autorità riguardo il vituperato film di Yang Shu e la sua fuga a Hong Kong. Inoltre  le racconta che il governo ha deciso di abbattere la loro casa di famiglia nel Sichuan per realizzare nuovi piani urbanistici nella regione, offrendo una buona compensazione in denaro. Nonostante l’amore e la pena che nutre nei confronti della madre malata, Yang Shu è indignata, esasperata e depressa a causa  di quella che considera un’acquiescente obbedienza di Chen Xiaolin nei confronti del regime cinese. Inoltre non comprende perché  quest’ultima non voglia accettare di esaminare  la possibilità di trasferirsi a Hong Kong per vivere con lei e la sua famiglia. Ad un certo punto manifesta anche al costernato coniuge la terribile idea di recarsi lei stessa nel Sichuan per impedire l’abbattimento della casa di sua madre, nonostante la certezza dell’arresto e della pena a cui andrebbe incontro. Emerge un magnifico e toccante mosaico di emozioni e di affetti, tra silenzi e pudori, slanci e incomprensioni, lacerazioni e ricomposizioni, impulso a ribellarsi e a resistere e timore delle conseguenze per i propri cari, fino al malinconico finale che sancisce  il forzoso  distacco tra le due donne, quando Chen Xiaolin, dopo un malore,è costretta a rientrare anzitempo in Cina accompagnata dal genero Cheung Ka-Ming. A family tour è un film importante  e significativo. Ying Liang utilizza il tema del ricongiungimento familiare per mettere a fuoco la questione scottante della divisione dell’universo cinese in tre patrie: la Cina continentale della Repubblica Popolare, Hong Kong, territorio con statuto speciale, ancora formalmente guidato da un autogoverno, e Taiwan, repubblica democratica, già rifugio dei nazionalisti cinesi sconfitti da Mao Tse-tung, non priva di contraddizioni, sottolineate nel film da alcuni episodi rivelatori. Si tratta di una partizione statale e di  governi e assetti sociali diversi che è determinante nello sviluppo della storia e della condizione esistenziale precaria e dei destini dei personaggi, determinando ostacoli, crisi di identità e di appartenenza e una separazione ingiusta. A partire da una sceneggiatura molto ben calibrata, il regista articola una narrazione caratterizzata da un registro contemplativo e malinconico, ma anche da qualche nota di humour genuino, per sottolineare le situazioni più assurde, pacato, ma mai freddo né rassegnato, nonostante promani una disperazione appena trattenuta. Definisce al meglio i suoi personaggi e la dialettica tra di loro ed evita largamente i toni didascalici. Ne deriva un film ricco di dettagli ed elementi diversi ed  esteticamente molto pulito, con inquadrature fisse prolungate e ben calcolati movimenti di macchina, e impreziosito dalla ricercata fotografia curata da Ryuji Otsuka.

Diane, opera prima di finzione, scritta e diretta dall’americano Kent Jones e già presentata al Tribeca Film Festival dello scorso aprile, è un dramma esistenziale centrato sui temi, non nuovi, della vecchiaia, della malattia e della morte, ma in una prospettiva semplice e originale. Propone il ritratto, privo di enfasi, ma ricco di sfumature e costruito con delicata empatia, di Diane (Mary Kay Place, assolutamente perfetta nel ruolo) una vedova quasi sessantenne, appartenente alla middle class, che vive in una piccola cittadina del Massachusetts. È una donna forte, con un carattere non facile, mordace e ironica, a volte sarcastica, ancora piacente, ma conscia della vecchiaia che avanza. È vivace e moderatamente scettica, ma animata da un saldo senso morale che la porta ad  occuparsi instancabilmente dei vari parenti e  dei numerosi amici e a dedicarsi ad attività sociale come  l’assistenza in una mensa per  poveri, disoccupati e  homeless. Ogni giorno pranza o cena con la sua più cara amica, la coetanea Bobbie (Andrea Martin), con cui scambia confidenze e piccoli pettegolezzi su persone conosciute. Poi si reca a visitare Donna (Deirdre O’Connell), sua cugina, anch’essa coetanea, ricoverata in ospedale per un cancro al collo dell’utero in fase pre-terminale. Tra le due esiste da sempre una certa tensione dovuta al fatto che in gioventù Diane ha sedotto il fidanzato di Donna: un atto che costituisce una ragione di perenne rammarico e vergogna per la protagonista. Infine, periodicamente, Diane visita  il suo unico figlio trentenne Brian (Jake Lacy), un  tossicodipendente sempre pronto a negare  il suo demone e incapace di offrirsi una prospettiva seria di vita e di lavoro. Tra i due non vi è vera comunicazione perché Brian è insofferente per le attenzioni e i rimproveri della madre, mentre Diane mostra di  aver quasi perso la fiducia di fronte alle continue bugie e omissioni del giovane. E non manca una fitta rete di  amicizie solidali  con altri concittadini, molti più anziani (interpretati da un formidabile insieme di attori caratteristi veterani, tra cui Estelle Parsons, Glynnis O’Connor, Joyce Van Patten, Phyllis Somerville e Ray Iannicelli), e con le loro famiglie, che determina per Diane un’instancabile serie di impegni e di incontri. Apparentemente la routine esistenziale della donna sembra noiosa, ma si accompagna al tormento dei sensi di colpa per gli errori giovanili  e per le sorti di Brian, al rammarico per opportunità perdute, alla preoccupazione per le condizioni di salute dei più vecchi e al dolore per la solitudine e per la perdita delle persone più care che avviene anno dopo anno. Kent Jones, già critico impegnato e documentarista raffinato, autore del meraviglioso Hitchcock / Truffaut (2015) e co-regista, con Martin Scorsese, del magnifico A Letter to Elia (2010), nonché attuale direttore artistico del New York Film Festival, esordisce con un film minimalista, lirico, malinconico e molto convincente. A partire da una scrittura puntuale e precisa negli snodi narrativi, che dimostra una perfetta conoscenza del contesto ambientale e antropologico, Jones sviluppa una messa in scena impeccabile nella definizione dei tempi drammatici, riuscendo ad evitare sia i toni pietistici che quelli didascalici, nonostante qualche artificiosità e manierismo. Tra l’altro la scelta di insistere durante gran parte del film con soggettive di Diane in auto che percorre le strade del territorio, facendo la spola tra una casa e l’altra dei suoi  parenti e conoscenti, risulta assolutamente efficace per delineare, attraverso i particolari, il carattere del personaggio e le sue relazioni.  Nel complesso il regista riesce a gestire, con fine humour e understatement, la spirale incalzante, e quasi surreale, di  contrasti, disgrazie e morti che, dopo il lungo prologo di  mesta quotidianità, con il passare  del tempo, investe e isola gradualmente Diane, costringendola, nel corso dell’inesorabile declino della vita, a confrontarsi con sé stessa e con i suoi fantasmi in una lenta deriva in cui realtà, ricordi, sogni e incubi si confondono.

Menocchio, opera seconda di Alberto Fasulo, è un dramma storico d’epoca che rintraccia un episodio emblematico della repressione violenta della religiosità popolare in Italia nell’epoca di applicazione rigida e feroce dei dettami della Controriforma. Ambientato nella campagna friulana alla fine del XVI secolo, il film presenta la ricostruzione di un processo per eresia intentato dalle autorità della Repubblica di Venezia, a cui appartiene quel territorio, prelati locali e inquisitori del Papa di Roma, nei confronti di Domenico Scandella, detto Menocchio,  il mugnaio di Montereale. L’imputato viene rappresentato come un uomo semplice, dignitoso e informato sui precetti della religione cristiana e della Chiesa e, in qualche modo, carismatico. Agli atti  di quel processo, conservati nell’archivio dell’Arcivescovado di Udine, attinse Carlo Ginzburg  negli anni ’70 per redigere il libro “Il formaggio e i vermi. Il cosmo secondo un mugnaio del  ’500”. Dalle notizie storiche accertate si desume che, in realtà, Scandella, uomo della provincia contadina e arretrata, plebeo e autodidatta, subì due processi per eresia da parte del Tribunale dell’Inquisizione: il primo  durante il papato di Sisto V e il secondo durante il papato di Clemente VIII. Menocchio (Marcello Martini) viene accusato di eresia dalla Chiesa di Roma per le sue presunte dichiarazioni sulla ricchezza del papato, sulla nascita del mondo e per i dubbi che avrebbe seminato sulla natura di Cristo e sulla figura della Madonna. Rinchiuso in una tetra prigione sotterranea, dove gli è negato di lavarsi e di cambiarsi d’abito, e barbaramente torturato per la sua scarsa collaborazione  nell’ammissione delle colpe che gli vengono attribuite, viene sottoposto a un lungo processo  con duri interrogatori da parte di un grande inquisitore privo di qualsiasi pietà (Maurizio Fanin). Le fasi del giudizio sono intervallate da una lunga sfilata di compaesani chiamati a testimoniare e a delatare e dall’audizione dei familiari dell’imputato. Fasulo rappresenta la repressione di un percorso  di ricerca della libertà nella professione della fede religiosa, offrendo alcune sequenze e momenti intensi e suggestivi. Tuttavia il racconto risulta carente, e a tratti irritante, perché l’impianto accusatorio, reiterato con pervicacia, appare confuso e marcato da omissioni e passaggi criptici, con una scelta di imprecisione forse suggerita dalla volontà di evitare il rischio didascalico, ma che determina disorientamento nello spettatore. Menocchio non è un seguace di Lutero, non nega molti dogmi della religione cristiana, ma, piuttosto, si limita a considerare Dio, Cristo e i Santi in un quadro di religiosità contadina che valorizza gli uomini e tutti gli esseri viventi. E molto si riduce al tema della verginità di Maria e all’insistenza nell’individuazione dei complici che si riunivano per ascoltare i discorsi e “le prediche” di Menocchio. D’altro canto l’imputato appare chiuso in  un atteggiamento stoico e a tratti quasi amorfo, senza mostrare vera resistenza nel contrastare addebiti e fatti che gli vengono contestati. Girato con luce naturale, con inquadrature, primi piani e una fotografia di gran pregio, curata dallo stesso regista, che esalta ombra e penombra negli ambienti angusti rischiarati da torce e candele,  fa pensare alla pittura barocca di Rembrandt. Tuttavia, nonostante la scelta di un cast in cui prevalgono largamente non attori, con volti, espressioni, corpi e movenze antichi e spesso efficaci, lo sforzo di credibilità antropologica e scenografica rivela numerose incertezze e insufficienze. In effetti la costruzione drammaturgica è purtroppo fortemente indebolita da un approccio ondivago tra rigore documentaristico e stereotipi televisivi, nella costruzione delle scene e nell’impostazione dei dialoghi. Proprio il linguaggio diventa il fattore più deludente del film e non restituisce credibilmente il contesto culturale e sociale dell’epoca. I contadini e i popolani, pur esprimendosi in dialetto, mostrano artificiosità e clamorose incongruenze di toni e si lasciano scappare persino anacronistiche locuzioni del nostro tempo,  mentre gli inquisitori e i potenti si appellano troppo scolasticamente  alle sacre scritture e a principi dotti, con effetti di goffa seriosità.

Sibel, della turca Ça?la Zencirci e del francese Guillaume Giovanetti, coppia nella vita, ha ottenuto sia il Premio dei critici della Giuria della FIPRESCI, sia il Premio della Giuria Ecumenica. Ambientato in  un appartato villaggio montano tradizionale dell’Anatolia, racconta la storia di Sibel (Damla Sönmez), una venticinquenne bella e volitiva, figlia, protetta e amata, del sindaco, muta in seguito a un trauma subito in tenerissima età. La donna per comunicare ricorre a una modulazione di diversi fischi, uno strana forma di  linguaggio che tutti i valligiani locali sembrano conoscere. Grande lavoratrice nei campi, non indossa mai il tradizionale foulard, obbligatorio per le donne musulmane turche, e lotta disperatamente per ottenere il rispetto degli altri, dimostrando  indipendenza e coraggio. È quindi una figura selvaggia, che caccia da sola nella foresta, è influenzata da credenze e mitologie ancestrali e fronteggia persino un uomo minaccioso e ferito, un fuggitivo che si nasconde nella selva perché è renitente alla leva militare. Sibel lo aiuta e, una notte, corrisponde le sue attenzioni. Ma poi l’uomo scompare. La protagonista è rappresentata in perenne concitazione: un’eroina alla Zulawski che diventa icona di un poco credibile percorso di riscatto femminista. Infatti, dopo essere stata osteggiata e persino aggredita dalle altre donne del villaggio che la consideravano persona ostile e pericolosa, nel finale Sibel diventa oggetto di un’inverosimile solidarietà da parte  di quelle stesse donne che l’avevano esclusa e offesa. È un film molto contraddittorio perché si configura come un fairy tale inopinatamente marcato da logiche culturali progressiste occidentali, ma  è costruito come un dramma realista, senza essere credibile nella rappresentazione del contesto. Peraltro i due registi evitano accuratamente di ampliare l’ottica della vicenda,  omettendo di approfondire alcune contraddizioni reali della società turca attuale, che pure sottendono chiaramente alcuni nodi narrativi del film.

Yara, opera seconda dell’irakeno, formato e radicato in  Francia, Abbas Fahdel, racconta una pudica love story tra due giovani, intrecciando approccio documentaristico e minimalismo narrativo. La vicenda si svolge durante l’estate nella valle di Qadisha, nel Libano settentrionale, dove la popolazione cristiana maronita è ormai esigua dopo le perdite e le fughe degli anni della sanguinosa guerra civile. Si tratta di un luogo idilliaco con scoscese pendici verdeggianti, apparentemente privo di tensioni e pericoli. Il villaggio e gli antichi monasteri sono sul fondovalle: non vengono mai filmati, ma se ne  riferisce la presenza nelle conversazioni.  In una  piccola frazione a mezza costa vivono un paio di famiglie che si dedicano a piccole coltivazioni di sostentamento e all’allevamento delle capre. Yara (Michelle Wehbe),  diciassettenne e presumibilmente orfana, vive con la nonna anziana e taciturna: è  dolce e servizievole, ma è evidente che conosce il mondo  moderno e la città. La loro routine quotidiana, pacifica e quasi fiabesca, mostra un continuo ripetersi di  consuetudini, piccoli gesti, rituali domestici e interazione con gli animali, a cui si accompagnano gli incontri con i vicini e i pochi visitatori  che si inerpicano per i sentieri: un uomo con i suoi due figli piccoli che le rifornisce di viveri e utensili utili trasportati a dorso di un mulo  e una guida locale che utilizza la casa  delle due donne come punto di ristoro per turisti che, in realtà, non si vedono  affatto. Un giorno Yara conosce  Elias (Elias Freifer), un ventenne di bella presenza e molto educato che si è avventurato in quei luoghi. Un personaggio di cui non si viene a sapere praticamente nulla. Dopo il loro primo incontro Elias si ripresenta regolarmente e,  giorno dopo giorno, i due giovani iniziano a conoscersi e a simpatizzare, tra lunghe passeggiate nei boschi, visite a una chiesetta abbandonata e bagni in un piccolo specchio d’acqua ai piedi di una cascata. Ne nasce una storia d’amore molto casta e priva di slanci o complicazioni, che verrà  messa in crisi quando Elias comunica a Yara che deve emigrare in Australia  essendo obbligato a raggiungere suo padre che vive e lavora laggiù. Il giovane cerca di convincere Yara a partire con lui, ma la ragazza, nonostante il disappunto e un composto dolore, sceglie di non seguirlo e di continuare a vivere con la nonna. Abbas Fahdel, che ha rivelato di essere stato ispirato da Robert Bresson, ha realizzato un piccolo film che vuole raccontare una storia semplice, curandone personalmente e lodevolmente sceneggiatura, fotografia, impianto sonoro, regia, montaggio e produzione. Tuttavia l’impianto drammaturgico è asfittico e viziato da una evidente artificiosità dei due giovani personaggi che non sembrano in grande sintonia tra loro né appaiono affatto toccati dalla memoria delle tragedie del passato.  Inoltre  la narrazione oscilla tra un taglio documentaristico contemplativo che valorizza la natura, con vane velleità di cinéma vérité, e uno stiracchiato e noioso antimelodramma imitativo della dialettica sentimentale vuota e arzigogolata di Richard Linklater.  E ancora, la messa in scena rivela una sorprendente banalità dello sguardo data dai molti clichés nella composizione delle immagini e dalla ripetitività delle inquadrature del paesaggio, con particolare insistenza sulle alte pareti rocciose che delimitano la vallata.

Genèse, del canadese, del Québec, Philippe Lesage, seconda opera di derivazione autobiografica dopo il più interessante Les Démons (2015), è un racconto di formazione. Descrive con apparente freschezza e con qualche efficace momento poetico, purtroppo  schiacciato da prevalenti toni prosaici, l’educazione sentimentale e sessuale di due sedicenni, fratello e sorella, appartenenti alla classe media più privilegiata. Guillaume (Théodore Pellerin), è  innamorato del suo migliore amico Nicolas (Jules Roy Sicotte), mentre Charlotte (Noée Abita) si imbarca in relazioni con uomini  stupidi o codardi, fino a quando semiubriaca, è vittima di uno stupro. Lesage racconta disagi psicologici, delusioni, sconfitte e complicato recupero dopo la disperazione, ma il film è squilibrato, disordinato, abbastanza prevedibile e pretenzioso, incerto tra nitida rappresentazione di disarmanti contraddizioni, velleità poetiche e tentazioni sensazionaliste.

Glaubenberg, dello svizzero Thomas Imbach, racconta la storia della passione incestuosa di un’adolescente nei confronti del fratello che si trasforma  in un greve e impacciato melodramma. Il contesto è quello di una tranquilla famiglia borghese che vive in Svizzera, in un cantone di lingua tedesca. La sedicenne Lena (Zsofia Körös) è innamorata del fratello  diciannovenne Noah (Francis Benjamin Meier), il quale, resosi conto della situazione, non la incoraggia affatto. Poi Noah, studente di archeologia, si reca in Turchia per partecipare a una spedizione di scavi nel sito di Afrodisia. Lena non si rassegna, si strugge, è tormentata da incubi erotici e non resiste alla lontananza e all’indifferenza del fratello che, tornato a casa durante le vacanze natalizie, la evita e poi nelle settimane successive non le invia più notizie. Assistiamo a una sequela di episodi paradossali in cui la passione maniacale della protagonista la porta a scontrarsi con  crescente ostilità con amici e conoscenti.  Quindi la ragazza si  avventura in un improbabile viaggio in Turchia, ma a Izmir riesce solo a rintracciare la ex fidanzata turca di Noah, che invece è sparito. Poi, rientrata a casa, lo cerca ostinatamente al passo del Glaubenberg, luogo a loro caro. L’escalation  narrativa è grossolana, con punte grottesche, fino a un finale enfatico e del tutto incongruo. Thomas Imbach propone un ritratto familiare troppo di maniera e un personaggio femminile del tutto unidimensionale, antipatico, isterico e poco credibile. L’approccio passa da un iniziale sguardo antiretorico e dai toni della romcom adolescenziale a una precipitazione psicodrammatica concitata che, in qualche modo, rammenta gli eccessi di Fatal Attraction (1987), di Adrian Lyne, ma senza osare  una vera radicalità, fino  alla bislacca risoluzione con venature fantastiche.

Wintermärchen (A Winter’s Tale), del tedesco Jan Bonny, è un dramma  volgarissimo che racconta le imprese omicide di un trio di neonazisti e fanatici razzisti, presentati come nevrotici ossessivi, ai limiti della psicosi maniacale. Da qualche parte in Germania inizia la scia di morte che accompagna le peregrinazioni impazzite di Tommi (Thomas Schubert), Bekka (Ricarda Seifried) e Maik (Jean-Luc Bubert). Sono tre trentenni autocostituitisi in una sgangherata banda, che pretende di agire in clandestinità e, durante l’inverno, si aggira tra caseggiati popolari anonimi, cercando  immigrati qualunque (bersagli dalla pelle scura) da colpire e sopprimere “per ripulire la Germania dalla contaminazione portata da individui non tedeschi puri”. Febbrili e stravolti, vivono in squallidi e sozzi alloggi di fortuna,  tra alcool, pasticche eccitanti, musica heavy metal a tutto volume, gelosie e scenate generate dalla violenza che investe anche le  tristi performance sessuali orgiastiche che sperimentano tra loro.  E quando escono  in auto, armati con le pistole, ammazzano lavoratori e impiegati di supermercati e piccole imprese commerciali o semplici passanti con una violenza efferata, sadica e  assurda. Un’escalation parossistica, greve e pornografica, nell’animo e nello sguardo, fino ad un finale scontato e assurdo al tempo stesso. Jan Bonny propone un film oscenamente sensazionalista, con una narrazione sgangherata, una messa in scena raffazzonata e una recitazione del tutto sopra le righe. Un’opera indecente, lugubre e grottesca che non  può essere considerata né riesce ad essere nemmeno didascalica, perché spettacolarizza, senza alcuna presa di distanza e con malcelato compiacimento, la turpitudine che, si presume, vorrebbe presentare  come esempio  di xenofobia criminale estrema da condannare.

Un discorso a parte dobbiamo infine riservare a La Flor, opera seconda monstre dell’argentino Mariano Llinás, della durata complessiva di 13 ore e 28 minuti (3 tranches, rispettivamente di 206, 342 e 320 minuti, comprese le pause), già premiata al BAFICI di Buenos Aires lo scorso aprile, “evento” annunciato, e gran vanto, del Festival di Locarno 2018. Prima di  articolare la critica del film occorre una premessa per comprendere meglio la genesi di quello che è stato un grande bluff, capace comunque di irretire un discreto numero di critici, specie italiani, e soprattutto trentenni e quarantenni, che hanno inneggiato al regista definendolo “abilissimo creatore di storie” o “campione del racconto popolare che crede ostinatamente nel potere illusorio del cinema”. È infatti necessario spiegare chi è Llinás (attivo  dalla fine degli anni ’90) e definire le caratteristiche di una nuova tendenza pseudo sperimentale del cinema argentino indipendente d’autore, emersa nel corso dell’ultimo decennio, che vede in lui l’esponente più  carismatico o, secondo alcuni, più istrionico. In sintesi il fenomeno decolla a partire dal 2007, quando i ventenni e trentenni Mariano Llinás, Alejo Moguillansky e Laura Citarella, colleghi e soci della compagnia di produzione e distribuzione “El Pampero Cine”, e pochi altri (ad esempio Matías Piñeiro e Santiago Mitre, autori che, per altro, hanno dimostrato ben  superiore raffinatezza nello sguardo, nella scrittura e nella messa in scena) iniziano a realizzare  film che mettono in scena storie complicate, con plurime trame e sottotrame, una sorta di nuovi feuilletons cinematografici, strutturati con un meccanismo tipo scatole cinesi e con un complesso intreccio di personaggi che vivono una falsa drammaticità. Opere con una chiara impostazione teatrale e dialoghi criptici e spesso paradossali. In sostanza caratterizzate da un profilo narrativo coinvolgente e irritante al tempo stesso, a causa dell’evidente esercizio affabulatorio estetizzante, ricco di riferimenti culturali e/o letterari, spesso raffazzonati o imprecisi, ma finalmente vuoto e strumentale perché volto a sovrastare il pubblico con un profluvio furbesco di circostanze astruse, a metà strada tra commedia e dramma, thriller e horror. Un cinema per nulla nuovo, anzi, in qualche modo retrogrado, basato sulla parola e / o sulla metafora, sul pittoresco e sul surrealismo ridanciano o sorprendente, che si riallaccia, con modalità formali ed estetiche diverse, alle tipiche peliculas costumbristas, argentine e latinoamericane,  realizzate dalle generazioni precedenti di autori, attivi  durante gli anni ’80  e i primi anni ’90.  Si tratta comunque di una tendenza minoritaria, che non è una scuola, né un movimento con un manifesto programmatico, ma piuttosto un modo di fare cinema élitario,  pretenzioso e molto appariscente e, a nostro giudizio, cinico e deleterio. Una concezione e una pratica che si contrappongono frontalmente a tutte  le  espressioni e le novità del cosiddetto “nuovo cinema argentino”, emerso a partire dalla metà degli anni ’90, all’insegna di un “nuovo realismo”, impegnato a superare i limiti tra documentario e finzione e a rappresentare le situazioni di emergenza e di disagio della vita, vale a dire lo “stato delle cose”, senza tentare di spiegarlo,  mediante un uso originale dei dialoghi e dei silenzi, di scelte tecniche ed estetiche e di attori non professionisti, oppure all’insegna di una rilettura non realista di diversi generi.

La Flor è appunto la quintessenza di questa tendenza narrativa ed estetica: un’opera mastodontica e suppostamente “atipica”, presentata come risposta di contestazione, ma sullo stesso terreno e con logiche simili, alla nuova serialità televisiva d’autore clamorosamente rinnovatasi a livello mondiale nell’ultimo decennio,  coinvolgendo anche notissimi e stimati autori cinematografici. Un film che mostra  un’evidente contiguità e una coerente e ostinata continuità,  nelle intenzioni e nella forma, con   l’opera di esordio di Llinás, Historias extraordinarias (2008), della durata di 274 minuti. Quel film comprende tre storie principali  riguardanti tre personaggi maschili, denominati X, H e Z, suddivise in 18 episodi, con decine di personaggi e location (alcune scene girate perfino in Mozambico) e l’onnipresente e invadente racconto in off di raccordi e notizie da parte di tre narratori (Daniel Hendler, Juan Minujín e Véronica Llinás), in un’accavallarsi di avventure paradossali, misteri intricati, racconti mitici e infinite digressioni e climax, riflessioni filosofiche e morali e trucchi di regia, mescolando citazioni e imitazioni pedisseque di vari film del passato, soprattutto noir e thriller. La Flor ha richiesto a Llinás e alla sua troupe dieci anni di lavoro e si svolge in location in  America Latina, Europa e Asia (varie località in Argentina, Londra, Berlino, Parigi, Budapest, Sofia, Nicaragua, Colombia, Cile, Libano, Mongolia, Sud Corea e Russia). Oltre alle quattro attrici protagoniste (Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Valeria Correa e Laura Paredes), appartenenti al gruppo teatrale Piel de Lava, centro motore e ragione finalistica del film, che interpretano, volta per volta, personaggi diversi e caratterialmente e moralmente opposti, comprende decine di personaggi ed è parlato in varie lingue, spagnolo, inglese, francese, italiano, tedesco, russo e frammenti di altri idiomi. Il titolo  del film, “Il Fiore”, secondo una spiegazione molto capziosa dell’autore, sarebbe riferito alla struttura narrativa suddivisa in capitoli che ne comprende quattro disgiunti, disposti come una sorta di corolla di petali, rispettivamente il primo, il secondo, il terzo e il quinto,  uno di raccordo, il quarto, che  sarebbe il pistillo, mentre il sesto e ultimo,  conclusione ideale di tutto il progetto, rappresenterebbe il gambo del fiore. In effetti all’inizio del film lo stesso Llinás si presenta  in scena e spiega l’articolazione dello stesso in sei parti, ognuna delle quali riconducibile a uno o più generi diversi. La prima ricorda i B-movies americani degli anni  ’40, essendo una specie di horror, una storia di demoni e fantasmi con protagoniste  alcune coraggiose archeologhe  alle prese con la classica maledizione della mummia precolombiana. La seconda, forse la meglio riuscita, è un melodramma, e quasi un musical, in cui due cantanti melodiche rivali si contendono lo stesso uomo, tra passione e rivalità professionale e amorosa. Imita  certi  film di Pedro Almodóvar, ma purtroppo è complicato da una stramba deriva thriller che ricorda il cinema degli anni ’60. La terza (la più estesa con una durata di quasi 6 ore e non è chiara la motivazione di questo  peso preponderante nell’economia del film) è un arzigogolato e labirintico racconto di spionaggio, con grossolane scene action, ambientato negli anni ’80. Più bande contrapposte di donne spie al servizio di oscure organizzazioni, una delle quali in fuga dopo  aver sequestrato un personaggio che pare politicamente importante, si scontrano tra Europa e America Latina nel quadro di incomprensibili complotti internazionali. E, durante  lo sviluppo dell’intrigo, appesantito da un crescendo di salti temporali, si aprono sprazzi melodrammatici: gli episodi che raccontano la biografia delle quattro spie (le solite quattro attrici principali), con una grottesca rievocazione della guerra fredda e dei servizi segreti sovietici e dei Paesi del cosiddetto “mondo libero”. La quarta parte propone una specie di esperimento di metacinema.  Per ben un’ora si viene esasperati assistendo a un assurdo pseudo making of di un film incomprensibile, in cui un regista, pieno di sé, ma confuso e  incerto, si aggira qua e là, con una troupe scalcagnata per cercare di ottenere le migliori immagini di alberi di alto fusto, in epoca primaverile, suscitando le ire delle solite quattro attrici convocate per girare il film, considerate ormai nemiche dal regista e tiranneggiate  dalla produttrice.  Sembra di assistere a una  sorta di studiata e fasulla autoparodia dello stesso Llinás e della sua troupe nel backstage del film. Poi, all’improvviso, ecco giungere la deriva surreale e fantastico - demenziale: in ragione di una specie di sortilegio malefico, stregonesco o fantascientifico, la suddetta troupe si ritrova in un improbabile manicomio e il protagonista diventa un tal Gatto, improbabile investigatore dell’occulto chiamato a risolvere l’enigma. La quinta è una sorta di remake, muto e in bianco e nero (in assenza delle quattro attrici), di un classico del cinema francese, Une partie de campagne(1936), di Jean Renoir, il cui unico scopo pare essere quello di esaltare l’esibizionismo di Llinás, che vuole mostrare la sua valentia di sperimentatore artigianale di antiche tecniche ottiche e cinematografiche. La sesta e ultima parte è un racconto praticamente senza dialoghi, che simula un western, tratto da una presunta cronaca dei primi anni del ’900: alcune donne tenute prigioniere dagli indigeni amerindi in una zona desertica dell’Argentina, riescono a fuggire. Girato  con  un filtro distorsivo,  propone le immagini digitali delle solite quattro attrici sfumate ed evanescenti come quelle dei fantasmi. Inoltre vi è un prolungato finale, 40 minuti accompagnati dal lento scorrere dei titoli di coda, girato sul set e nel backstage dell’ultima storia, con un lunghissimo piano sequenza capovolto (altra esibizione “virtuosistica” e vanesia di Llinás), in cui la troupe smonta le attrezzature e le quattro attrici, due delle quali (Laura Paredes e Valeria Correa) visibilmente incinte (evenienza reale), si  salutano e si separano in uno pseudo open ending. Quattro storie, complicate da una ridda di sottotrame ed episodi derivati da approfondimenti sul passato di personaggi principali o secondari, si sviluppano con un inizio, ma non presentano un logico punto d’arrivo o una fine. Ciascuna interruzione prelude all’inizio di una nuova storia, in un  altro contesto e con  diverso genere o un mix di generi, caratterizzazioni e atmosfere. Una al contrario segue un’evoluzione con un chiaro inizio e una fine certa, mentre l’ultima, priva di una premessa, è di fatto un lungo finale che conclude l’intero film. La Flor vuole configurarsi come un’opera originalissima, ma, esaminandola nell’insieme e scansionandola nei dettagli, si tratta invece di una pretenziosissima operazione pseudo sperimentale di rifacimento del cinema del passato (con  citazioni dei film di Fritz Lang, Hitchcock,  Roger Corman, Jean-Pierre Melville, Hugo Santiago, Tarantino, del ciclo di James Bond e di molti altri): una collettanea disordinata di racconti, episodi e passaggi narrativi stravaganti, con continue intersezioni di generi diversi, citati e “reinterpretati”, salti logici e temporali, citazioni letterarie affastellate incongruamente (da Borges a Le Carré a Casanova, ecc.) e notizie storiche e politiche arbitrarie e mistificate, che sembrano prese da Wikipedia. Lo stile è ondivago, ostentatamente e volutamente “artigianale”, con incredibili errori tecnici e virtuosismi a buon mercato (il recupero della stenoscopia), banali movimenti di macchina e trucchi di cinepresa ed “effetti speciali” grossolani. Il risultato è una spiccata discontinuità, che produce  poco divertimento, al di là di facili scene umoristiche ed esagerazioni prosaiche, scarsissimi momenti di emozione e molte ore di noia e irritazione quando narrazione e immagini girano più clamorosamente a vuoto. È del tutto evidente che al regista non importa nulla delle sue storie e che non ha nulla da raccontare, al di là della volontà di ostentare la sua predilezione per il thriller, la commedia nera, il mistery e l’horror. La sua unica intenzione è quella di sorprendere il pubblico, cercando disperatamente di agganciarlo in un meccanismo che potrebbe forse affascinare e in parte divertire, se il gioco, sarcastico o suppostamente surreale o neoromantico d’accatto, con dialoghi stereotipati o convenzionalmente grotteschi, non fosse strabordante e, al tempo stesso, di corto respiro e non si avvitasse molto spesso in una spirale  tediosa e lambiccata. Lo spettatore viene sballottato e stordito, ricattato emotivamente, illuso, depistato e deluso continuamente, non in virtù di una prova di grande cinema che esalta lo strapotere dell’immaginario e le potenzialità del racconto e gioca con il tempo e nemmeno perché il film  possa essere considerato un’antologia rimarchevole di possibilità espressive, ma per esaltare l’ego del regista che, cinicamente, vuole accreditare non una poetica, ma soprattutto una  postura intellettuale e un “nuovo” modo di fare cinema e vuole nascondere i suoi limiti tecnici. E ciò risulta evidente dalla studiata ricorrente inserzione nel film di  elementi che accreditino lo stesso Llinás come un inventore puro e ludico, libero concettualmente da ogni schiavitù nei confronti della coerenza e del significato del racconto, fedele all’etica del low budget e dell’indipendenza e dedicato a un collettivo di collaboratori - amici, attrici, attori e tecnici, con cui discute o si diverte. Ci riferiamo alla comparsa  del regista nell’incipit del film, alla fastidiosa e invadente presenza con voce off dello stesso Mariano Llinás e di sua sorella Verónica che commentano continuamente azioni ed episodi, istruendo e confondendo lo spettatore,  all’aberrante e sballato “prologo” di un’ora nella quarta storia, allo stucchevole finale del film e alle dichiarazioni poco credibili secondo cui, durante il rodaggio di La Flor, lui  avrebbe cercato spesso come proseguire, modificando, insieme alla troupe, intuizioni, idee e sceneggiatura. D’altronde Llinás stesso, ha citato, come esempio guida per intendere il clima in cui è stato girato La Flor, un precedente film a cui ha collaborato come co-sceneggiatore e attore, El escarabajo de oro (2014),  del suo sodale Alejo Moguillansky.  Si tratta di un lavoro, infarcito di vacue citazioni politiche e intellettuali, dove si finge di raccontare il making of di un film finanziato da un Festival di cinema danese e commissionato allo stesso Moguillansky: una storia assurda che contiene cento altre storie, e anche un fastidioso e velleitario chiacchiericcio anticolonialista  da parte di buontemponi, amici e colleghi del regista. Tutto ciò è perfettamente comprensibile quando si leggono o si ascoltano le dichiarazioni megalomani, narcisistiche e provocatorie, rese da Llinás che ha affermato, con enorme presunzione, di essere il vero rifondatore del cinema, sfoggiando una cultura cinefila bulimica e disordinata, disprezzando Steven Spielberg e gran parte dei cineasti attuali e citando a sproposito Rossellini. Per non parlare delle molte affermazioni sentenziose presenti  in LaFlore nelle interviste rilasciate da Llinás, da cui emerge una rozza ideologia anticapitalista, antiglobalista, velleitariamente inneggiante all’autogestione e comunque succube del peronismo.

Segnaliamo ancora due  lungometraggi della sezione “Cineasti del Presente”, sezione dedicata a opere prime e seconde. Hatzila (The Dive), dell’israeliano Yona Rozenkier, è un magnifico dramma ambientato, durante la seconda guerra in Libano intrapresa da Israele, in un kibbutz semiabbandonato dove si ritrovano tre fratelli, tra i venti e i quaranta anni, convenuti per il funerale dell’anziano padre autoritario. Ne nasce una lacerante dinamica di confronto in una comunità in crisi e in un Paese in cui l’esistenza è marcata, con dolorose conseguenze dall’impossibilità a sottrarsi alle armi e alla guerra per poter sopravvivere. Likemeback, di Leonardo Guerra, racconta la drammatica crisi dell’amicizia tra tre diciottenni durante la vacanza estiva dopo la maturità, su una barca a vela con skipper noleggiata per un tour fra le isole della Dalmazia, tra dipendenza ossessiva dai cellulari e dai social, immaturità e vuoto esistenziale. Si tratta di un ritratto molto attuale e amaro, ma senza alcun distacco, costruito sui corpi esposti e su dialoghi inesistenti e in un tempo sospeso, con distorsioni di percezione e desiderio.

E infine due film della sezione “Fuori Concorso”. L’eterna rappresentazione nostalgica, idealizzata e romantica del Sessantotto, in Ora e sempre riprendiamoci la vita di Silvano Agosti, un documentario di montaggio di footage dedicato al ruolo del movimento studentesco nel decennio 1968 - 1978, con varie interviste ai leaders, segnatamente Franco Piperno e Mario Capanna, tra rivendicazioni antiautoritarie e lotte per nuovi diritti e poteri: un ritratto unilaterale e privo di riletture critiche. Emozionante e suggestivo, Sembra mio figlio di Costanza Quatriglio, racconta, con equilibrio e toni poetici, la storia di un giovane della minoranza Hazara, scappato dall’Afghanistan in Europa quando era bambino, per riunirsi con il fratello maggiore, e disconosciuto dalla famiglia: costruito con naturalezza, tra verità e melodramma, combinando visioni opposte ma complementari, tra i componenti della famiglia rouge

 

px

px

71. FESTIVAL INT. DEL FILM DI LOCARNO

info

01 - 11 / 08 / 2018

Locarno film festival

Locarno film festival

 

link
locarno
px
Home Festival Reviews Film Reviews Festival Pearls Short Reviews Interviews Portraits Essays Archives Impressum Contact
    Film Directors Festival Pearls Short Directors           Newsletter
    Film Original Titles Festival Pearl Short Film Original Titles           FaceBook
    Film English Titles Festival Pearl Short Film English Titles           Blog
                   
                   
Interference - 18, rue Budé - 75004 Paris - France - Tel : +33 (0) 1 40 46 92 25 - +33 (0) 6 84 40 84 38 -