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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 62. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID I DI GIOVANNI OTTONE E LUCIANA VELHO DE ALBUQUERQUEI 2017

SEMINCI di Valladolid 2017

La vetrina del miglior cinema internazionale

Grande vincitore è The Nile Hilton Incident, Espiga de Oro al miglior film e doppio Premio, al miglior regista e al miglior sceneggiatore, per Tarik Saleh, svedese di origine egiziana, autore del film

DI GIOVANNI OTTONE
E LUCIANA VELHO DE ALBUQUERQUE

"Foxtrot", Samuel Maoz

Seminci di Valladolid

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La "62. Semana Internacional de Cine (SEMINCI) de Valladolid", svoltasi dal 21 al 28 ottobre, è il secondo Festival internazionale cinematografico più importante che si svolge annualmente in Spagna. Anche quest’anno ha confermato la sua capacità di attrazione per alcuni dei migliori film e autori a livello europeo e internazionale della presente stagione e al tempo stesso la sua efficiente organizzazione e il suo usuale stile serio, ricercato, e al tempo stesso amichevole. Il Direttore Javier Angulo e il comitato di selezione hanno costruito ancora una volta programma veramente ricco e interessante che ha rappresentato pienamente la storia e la tradizione di questo Festival che da sempre valorizzano il cinema d’autore soprattutto quando è rivolto a  un’audience matura.  E anche quest’anno la SEMINCI ha registrato un’ampia partecipazione di pubblico e di critici spagnoli ed europei.

Seminci di Valladolid

"Sage Femme" Martin Provost

 

Il film di chiusura del Festival è stato uno dei più interessanti e riusciti film francesi della stagione, Sage femme, di Martin Provost: un’opera che propone un doppio ritratto femminile, giocato sulla contrapposizione dei corpi e dei caratteri. È una commedia drammatica intrigante e molto riuscita, in cui quotidianità ed eccezionalità si fondono per accompagnare il destino dei personaggi. Racconta la storia del nuovo incontro tra due donne forti  il cui legame risiede nella memoria di un passato interrotto. Claire (Catherine Frot) è un’ostetrica quasi cinquantenne che lavora con coscienza e totale e antica dedizione in un piccolo ospedale pubblico nella banlieu parigina. Una donna  del tutto autosufficiente e responsabile, che ha cresciuto da sola il figlio ventenne Simon (Quentin Dolmaire) che  studia Medicina. Un giorno riceve una telefonata inattesa, e non proprio gradita, da Béatrice, (Catherine Deneuve), la donna che nei lontani anni ’70 fu l’amante di suo padre, campione di nuoto scomparso prematuramente.  

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La stessa  che Claire, allora adolescente, aveva mal sopportato e che si era eclissata abbandonando suo padre. Nonostante tutto accetta di incontrarla, ma la diffidenza sembra prevalere. Béatrice, nonostante l’età, conserva un grande fascino e una sfrontata vitalità. È una bohémienne di lusso senza pentimenti, che ha frequentato il bel modo di Biarritz e di Montecarlo sotto le mentite spoglie di una contessa di origine polacca e che mantiene tutte le fisime e i difetti dei grandi borghesi, pur vivendo alla giornata. Non cerca compassione, ma solidarietà, essendo malata di un tumore al cervello. Claire esita, ma poi ne intuisce la malcelata fragilità, e il suo spirito umanitario prevale. Si occupa di quella donna frivola, stravagante, egocentrica, spesso inopportuna e insopportabile. Organizza per lei visite ed esami e  la convince a sottoporsi al delicato intervento neurochirurgico che la può salvare. Béatrice conduce una vita impossibile, sottoponendosi al piacere e allo stress delle bische clandestine del vecchio quartiere di Barbès dove trascorre i pomeriggi a giocare a carte insieme a personaggi equivoci, tra alcol e sigarette, debiti e colpi di fortuna. Claire accetta persino di ospitarla nel suo modesto alloggetto e di introdurla nel suo piccolo mondo in cui si è affacciato Paul (Olivier Gourmet), un camionista gentile che, dopo tanti anni, è riuscito a darle una nuova opportunità sentimentale. Poco a poco tra le due donne si stabilisce una comunicazione ai limiti della complicità.  Martin Provost conferma la sua squisita capacità di descrivere la psicologia femminile, come già nei suoi film precedenti: Le ventre de Juliette (2003), Séraphine (2008), Où va la nuit (2011) e Violette (2013). Costruisce  un intreccio convincente, che alterna irresistibili spunti ironici e genuina scansione drammatica. La mescolanza di toni, priva di forzature retoriche, la perfetta definizione dei personaggi e direzione degli attori e la dinamica fluidità narrativa, intrisa di sottile malinconia, ricordano la capacità di raccontare “le cose della vita” del suo connazionale Claude Sautet, grande regista attivo dagli anni ’60 agli anni ’90. Le due magnifiche interpreti manifestano un’intesa straordinaria, ma senza dubbio è Catherine Deneuve quella che sostiene il film, dimostrando ancora un a volta un carisma e una leggerezza eccezionali, in un ruolo molto rischioso.

La "Sezione Ufficiale" competitiva, comprendente 18 lungometraggi, ha incluso, tra gli altri, alcuni film di qualità già presentati anteriormente quest'anno ai Festival di Berlino, Cannes, Venezia, Rotterdam e Sundance Film Festival.

La Espiga de Oro al miglior film lungometraggio è stata attribuita a The Nile Hilton Incident, terzo lungometraggio del quarantacinquenne svedese, di origini egiziane, Tarik Saleh,  che ha ricevuto anche il Premio Per la migliore regia e il Premio per la migliore sceneggiatura. È un eccellente e avvincente  crime drama.  Un noir ispirato parzialmente a un  fatto reale, l’assassinio, nel 2008, della cantante libanese trentenne Suzanne Tamim. Ambientato a Il Cairo nel 2011, nei giorni di gennaio precedenti le massicce manifestazioni popolari che condussero alle dimissioni e all’arresto del Presidente Hosni Mubarak, interrompendo il suo regime trentennale, ormai putrefatto, il film propone il ritratto crudo,  incisivo, e del tutto verosimile di una società paranoica, permeata da una corruzione endemica e sistemica, in ambito politico, economico e personale. Un mondo che presenta impressionanti risvolti di ipocrisia, discriminazione, violazione di diritti civili e della legge e protezione della ”élite economico - finanziaria”, da parte degli apparati dello stato, e una  metropoli sfasciata e stremata,  sull’orlo di una caotica esplosione.

 

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"The Nile Hilton Incident" Tarik Saleh

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Il protagonista è l’ufficiale di polizia quarantenne Noredin Mustafa (Fares Fares), un ambiguo antieroe, abituato a intascare tangenti e mazzette come tutti  i suoi colleghi e ad agire secondo le direttive, ma professionalmente preparato e abile, nonostante il suo scetticismo e cinismo e la dolorosa solitudine dopo il divorzio dalla moglie. Incaricato di indagare il brutale assassinio di Lalena, una giovane cantante ritrovata sgozzata in una camera del lussuoso Nile Hilton Hotel, Noredin inizialmente pensa di trovarsi di fronte a un  crimine semplice da risolvere, in un  ambiente in cui si mescolano dubbie performances artistiche e prostituzione. Tuttavia, di fronte alla richiesta del suo superiore, nonché zio, Kamal (Yasser Ali Maher), di  chiudere il caso dichiarando il suicidio della vittima, il detective non desiste e scopre un intreccio squallido e misterioso. Da un lato emerge la relazione segreta che legava Lalena a Shafiq (Ahmad Selim), un quarantenne sprezzante, proprietario dell’hotel, ricco imprenditore immobiliare, membro del Parlamento e amico di Mubarak. Dall’altro vi è  Salwa (Mari Malek), una giovane  profuga sudanese senza documenti che svolge le pulizie nell’hotel e che, casualmente, ha intravisto il probabile assassino. E poi vi è l’affascinante Gina (Hania Amar), un’altra cantante amica di Lalena che porta il detective sulle tracce di Nagy (Hichem Yacoubi), il magnaccia che ha scattato foto compromettenti  per ricattare gli uomini ricchi e potenti con cui le due donne intrattenevano relazioni sessuali. Tarik Saleh segue passo passo le mosse di Noredin e degli altri personaggi, incluso il silenzioso e “invisibile” killer (Slimane Dazi), interponendo brani di notiziari radio e televisivi che raccontano l’imminente ondata di protesta. I colpi di scena, i doppiogiochisti e i morti ammazzati aumentano, mentre Noredin si trova in un vicolo cieco, tra pressioni, ostacoli e minacce sempre più gravi, ed è costretto a compiere atti temerari e disperati, ben conoscendo come il potere gestisce quegli affaires delicati per seppellire la verità. Fino all’intenso showdown finale che  prefigura perfettamente il destino  con poche speranze dell’Egitto di oggi. Nonostante sia stato obbligato a girare The Nile Hilton Incident a Casablanca, Tarik Salek evoca credibilmente Il Cairo, con la costante messa a fuoco della folla di  poveracci  e derelitti, degli edifici cadenti e della situazione snervante. La sua intelligente sceneggiatura mostra una perfetta conoscenza della cultura e del contesto egiziano e reinterpreta intelligentemente i canoni del genere, evitando la deriva del poliziesco procedurale convenzionale, la sterile analisi psicologica dei personaggi e le tentazioni didascaliche. Costruisce un’atmosfera dark e distopica, conturbante e ipnotica, con numerose sequenze notturne e accelerazioni febbrili, che ricorda film memorabili quali Chinatown (1974), di Roman Polanski, The Long Goodbye (1973), di Robert Altman e persino Blade Runner (1982), di Ridley Scott. La regia rende affascinante ogni singola scena, anche nei momenti brutali, mescolando stilizzazioni eleganti e accenti malinconici. Offre sia una notevole autenticità dei dettagli sia una combinazione efficacissima di piani di ripresa e di ombre e sfumature di colori bruciati, senza rinunciare a un ritmo vibrante e intensamente coinvolgente. In aggiunta  da segnalare l’ottimo casting in cui spicca Fares Fares, affermato attore libanese - svedese, che  interpreta efficacemente tutte le contraddizioni del protagonista, Noredin, un personaggio controverso la cui redenzione non è affatto scontata.

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"Jeune Femme" Lèonor Serraille

 

A Laetitia Dosch è stata attribuito il Premio alla miglior attrice ex aequo per il suo ruolo di protagonista in Jeune Femme, opera prima della francese Lèonor Serraille.  Propone il ritratto concitato, verboso e del tutto artificioso di una trentunenne che si aggira nelle strade di Parigi, apparentemente incurante degli altri, ma pronta ad assediarli e a sfruttare a proprio vantaggio  la loro disponibilità. Nel corso del repentino incipit Paula (Laetitia Dosch), di ritorno a Parigi dopo una lunga assenza, tenta di insediarsi in un appartamento dove aveva vissuto con il suo ex fidanzato, che ne è il proprietario. Tuttavia non si rassegna e torna più volte a perseguitarlo finché la polizia la obbliga a desistere. In breve si apprende che non sa dove alloggiare, ha perso il lavoro, non ha soldi ed è reduce dal funerale della madre. Con l’unica compagnia del suo gatto, che trasporta sottobraccio, percorre senza meta  i quartieri della città, sbraita,  ripete la sua sofferenza, dichiara di odiare Parigi e la Francia e importuna gli sconosciuti con siparietti eccentrici e penosi.

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La prima notte si paga una stanza in un alberghetto, poi trova sistemazioni di fortuna. Chiede favori a personaggi improbabili, si offre come babysitter e si improvvisa commessa in un negozio di biancheria intima femminile, ma viene nuovamente cacciata a causa della sua non affidabilità. Un giorno sospetta di essere incinta e da  quel momento ne attende tranquillamente la conferma. Léonor Serraille costruisce un irritante e presuntuoso esercizio di stile. Sembra sposare pienamente la “nuova” moda di certi cenacoli intellettuali e della critica cinematografica francese che predicano il superamento del naturalismo attraverso una vigorosa  rottura stilistica, con esasperazione dei toni a livello di messa in scena e di interpretazione. La narrazione apparentemente leggera e vagamente schizofrenica, ma in realtà del tutto studiata, procede con toni nervosi ed eccitati, tallonando la protagonista, costantemente isterica e apparentemente vittimista, ma, alla prova dei fatti, egoista e parassitaria. Tra incontri fortuiti, piccole truffe e inganni, aggressioni verbali e fisiche, litigi furiosi e autocoscienza velleitaria, questo diario di giorni persi si avvita su sé stesso. E la frettolosa non conclusione, che  lascia intravedere una poco credibile nuova coscienza di sé da parte della protagonista, ormai rasserenata, non è tanto spiazzante, quanto rivelatrice della fragilità e della pretenziosità di tutto l’espediente narrativo. Quindi il  film  appare  per di più del tutto disonesto nei confronti dello spettatore che viene provocato e manipolato, senza garantirgli alcun vero coinvolgimento. Per non parlare della qualità artigianale delle inquadrature, dell’uso compulsivo e inefficace della telecamera a mano e della fastidiosa colonna sonora che alterna brani post punk e musica elettronica. Solo la fantasiosa malafede di certi critici ha potuto sproloquiare  circa uno spirito alla Truffaut che animerebbe Lèonor Serraille, mentre altri hanno inneggiato al personaggio della protagonista e alla multiforme attrice che lo interpreta quali icone del nuovo femminismo.

Anche ad Agnieszka Mandat è stata attribuito il Premio alla miglior attrice ex aequo per il suo ruolo di protagonista in Pokot (Spoor), della veterana polacca Agnieszka Holland. Si tratta di un thriller con la pretesa di essere anche una parabola morale e politica. Ambientato in una zona rurale bordeggiata da foreste  naturali con molti animali selvatici, è una specie di eco-thriller  a sfondo politico e ”militante”. Janina Duszejko (Agnieszka Mandat) è un’anziana ex maestra in pensione, che vive sola in una casa isolata ai limiti di una grande foresta. È una moderna “Miss Marple” che sembra investigare su una inspiegabile e oscura catena di delitti che si sono succeduti nella zona negli ultimi mesi. Tuttavia, al termine di un intreccio non privo di aspetti poco credibili, si viene a scoprire che, al contrario, è proprio lei la “fanatica” animalista che è diventata un’implacabile assassina, giustiziere di corrotti e di loschi personaggi che catturano e seviziano gli animali a scopo di lucro e / o per puro sadismo. Purtroppo la bislacca rivisitazione del genere e l’intento didascalico, oltre alla messa in scena risultano del tutto mediocri e annegano in una deriva grottesca  imbarazzante.

 

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"Pokot (Spoor), " Agnieszka Holland

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"Human Flow" Ai Weiwei

 

Inoltre una Menzione Speciale è stata assegnata a Human Flow, dell’artista e regista cinese Ai Weiwei (ora residente a Berlino). Si tratta di un documentario - kolossal, della durata di ben 140’, dedicato al fenomeno delle grandi migrazioni del XXI secolo, che, secondo le didascalie, riguarda 65 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case per sfuggire alla carestia, ai cambiamenti climatici e alle guerre. Girato con  larghi mezzi e con una grande troupe nel corso di un anno, attraversando 23 Paesi, tra cui Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico, Turchia…. e  recandosi in tutti i luoghi più  illustrati dai media, propone un insieme disomogeneo di immagini più o meno da shock, brandelli di storie individuali, interviste e informazioni e moltissime didascalie esplicative con dati e testi giuridici e letterari. Il film non  solo rivela un approccio ambiguo, frammentario e incerto, che configura uno pseudo reportage superficiale e privo di vere analisi ed estetismi di dubbio gusto, ma mostra anche il presenzialismo e il narcisismo del regista. Infatti Weiwei filma sé stesso più volte, mentre sta scherzando,  fa il turista a Petra, cucina salcicce o fa i selfie e si comporta da rock star di fronte a poveracci che lo vedono per la prima volta. In sostanza è un’insopportabile operazione autopromozionale.

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Samuel Citazioni critiche di rilievo devono essere attribuite ad altri tre film della “Sezione Ufficiale” che mostrano spunti interessanti e una significativa qualità autoriale.

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"Hikari (Radiance) " Naomi Kawase

 

Hikari (Radiance), della giapponese Naomi Kawase, è un melodramma “poetico” che si confronta con il tema della disabilità fisica. Un film inizialmente ben caratterizzato in senso sentimentale e umanistico, che, tuttavia, viene ben presto depotenziato  a causa di uno  sviluppo narrativo artificioso, molto studiato e teoricamente determinato. La ventenne Misako (Ayame Misaki) ama descrivere gli oggetti, i sentimenti e il mondo che la circonda. In lei è presente un’intima penosa sofferenza causata dall’assenza di suo padre, probabilmente deceduto. Lavora presso un’istituzione che si occupa dei ciechi con le mansioni di audio-narratrice che racconta i film a chi non è in grado di vederli con i propri occhi.   È una persona molto responsabile e dedicata. Un giorno,  dopo una proiezione, conosce il quarantenne Masaya Nakamori (Masatoshi Nagaye), un celebre fotografo la cui vista si sta deteriorando in modo irreparabile. I due iniziano a frequentarsi e scoprono affinità. Poco a poco nasce un’attrazione reciproca, nutrita da sentimenti forti, tra un uomo che sta perdendo la luce e una donna che la ricerca.

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Sono due persone debilitate e menomate, l’una nella psiche e  l’altro nel fisico. L’itinerario della loro relazione è accompagnato dal racconto incessante del film che dovrà essere proiettato al pubblico dei ciechi. Misako viene messa settimanalmente alla prova della sua capacità di vedere il film, e di raccontarlo in una maniera comprensibile ed esaustiva  a chi non può vederlo, da parte di un gruppo di lavoro,  a cui partecipa anche Masaya insieme ad altri ciechi. Ne nasce una tensione crescente per trovare punti di contatto e di concordia e giungere a una  partecipazione soddisfacente tra vedenti e ciechi. A partire dal suo esordio con Moe no suzaku (1997), Naomi Kawase propone, film dopo film, una riflessione apparentemente semplice, ma ricca di significati reconditi, su alcuni temi fondamentali: la vita e la morte, la simbiosi tra uomo e natura, la memoria di un luogo, il lutto, la memoria, la perdita e la riappropriazione di sé.  I suoi film prendono costantemente spunto da elementi autobiografici e da ricordi di gioventù. Purtroppo dopo  Hotaru (2000), un’opera complessa, ma affascinante, che esplora i conflitti tra le tradizioni e la complessità alienante della vita moderna, giocando sulle dicotomie dialettiche presenza - assenza, memoria del passato - smarrimento di fronte all’incertezza e all’imprevedibilità del futuro, il suo cinema ha subito una netta involuzione assumendo un carattere spiccatamente narcisista e manierista, pseudo poetico, pomposo e pretenzioso. Mogari no mori (The mourning forest) (2007), Hanezu no tsuki (Hanezu) (2011) e Futatsume no mado (Still the water) (2014), sono melodrammi impressionisti, ingannevolmente minimalisti, con un intreccio ricco di sottotesti ai limiti della farraginosità. Hikari sembra essere un compendio di tutto il cinema di Naomi Kawase, perché contiene gran parte dei temi tipici della sua poetica. In qualche modo si è indotti a considerarlo quasi una prosecuzione,  in un altro contesto, di Mogari no mori. Al centro del film vi è la questione della luce, un tema fondamentale e ricorrente per la Kawase  proprio perché direttamente collegato a un topos del suo cinema: l’ambientazione  nella natura incontaminata, in cui perdersi e ritrovarsi, a cui si contrappongono le passioni umane e il tortuoso itinerario di maturazione dei sentimenti, tra perdita, solitudine, nuovi aneliti e metafore esagerate. La narrazione si dispiega muovendosi  secondo direzioni singole, vale a dire individuali, e corali. Hikari conferma quindi, una volta di più, la deriva manierista e falsamente poetica della Kawase. Propone una ricerca di sé e dell’altro che è diventata artificiosa, essendo sempre meno espressiva ed emotiva e invece tutta mediata da una impostazione teorica e astratta,  fredda e autoreferenziale. Infatti in questo caso l’umanesimo si riduce alla celebrazione  della potenza riparatrice del cinema e della sua capacità di donare nuova forza alle relazioni umane. La messa in scena denota uno sguardo contemplativo, viziato da  pesanti formalismi. I dialoghi pacati, gli insistenti silenzi e le attese esaltano l’universo emozionale e percettivo dei personaggi. La regista conferma il suo stile peculiare con prevalenza di piani sequenza e di long shots. La macchina da presa a mano effettua lenti movimenti, stimolando lo spettatore all’osservazione dei piani che seguono lo spostamento dei corpi, senza cercare di trasmettere alcun sentimento.

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"Foxtrot" Samuel Maoz

 

Foxtrot,  opera seconda dell’israeliano Samuel  Maoz, è un apologo drammatico, costruito come un teorema in cui si mescolano affetti familiari, lutto, nevrosi esistenziale e scarto generazionale. Un’opera fortemente etica, ma antiretorica, che riguarda la necessità - ineluttabilità dell’espiazione dopo la colpa, volontaria o involontaria che sia.  Una coppia della buona borghesia di Tel Aviv, Michael Feldmann (Lior Ashkenazi), architetto di successo, e la moglie Daphna (Sarah Adler), riceve una notizia ferale: il loro figlio Jonathan (Yonatan Shiray) è morto durante il servizio militare. La donna  sviene e poi cade in uno stato di  grave  deliquio, mentre Michael è lacerato da una disperazione infinita e da una rabbia crescente. E cominciano a sospettare che le cose non siano andate come gli hanno raccontato. Perché i messi militari non vogliono rivelare dove e come Jonathan è deceduto? E perché vogliono inumarlo senza permettere ai familiari di vedere il corpo? La realtà non è quella che sembra.  Poi la scena si sposta nel deserto, in un checkpoint militare su una strada nel nulla dove non passa quasi nessuno.  Qui Jonathan  svolge il suo servizio militare. Fino a un evento che frantuma tutti gli equilibri e che  si riverbera sui genitori e sulla famiglia di Jonathan.

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Samuel Maoz ha esordito con Lebanon (2009), un film che si basa sulla storia vera dell’esperienza dello stesso regista, coscritto a vent’anni e combattente sul fronte della Prima Guerra del Libano nel giugno 1982. Un’opera che  propone una lucidissima storia di perdita dell’innocenza di alcuni giovani (e di una nazione fino ad allora sempre vittoriosa nella guerra contro le minacce di annientamento da parte degli arabi), tracciandone un ritratto visceralmente umano. L’elemento drammaturgico principale del film è la condizione di fissità forzata dei protagonisti,   colti nella relazione di reciproca dipendenza tra pulsione interna della sopravvivenza e vissuto esterno della paura. Con Foxtrot Maoz prosegue la sua riflessione sull’impatto della mobilitazione militare permanente, e del conflitto mai risolto con gli arabi, sulle coscienze dei giovani e sugli equilibri nelle famiglie in Israele. Il film presenta un’elaborata architettura narrativa con una ripartizione in tre atti più un epilogo in cui tutto si riconnette e trova una spiegazione. La scansione drammatica è molto originale e sapiente e connotata da un mix di toni drammatici e di humour acido e paradossale spesso efficace. Tuttavia la messa in scena appare viziata da un eccesso di sperimentalismo virtuosistico.

Gabriel e a montanha, opera seconda del brasiliano Fellipe Barbosa, è un doloroso dramma esistenziale. Racconta l’ultima tratta, in Africa, del viaggio di formazione intorno al mondo compiuto da un giovane diplomato, prima di entrare in una prestigiosa Università americana a Los Angeles, tra entusiasmo naif, idealismo contraddittorio e arroganza.  Ricostruisce, attraverso la finzione, una storia vera, quanto è avvenuto nel corso degli ultimi due mesi della vita di Gabriel Buchmann, un ventenne della classe media di Rio de Janeiro, morto da solo, per esaurimento fisico, su una montagna del Malawi, nel 2009. Gabriel (João Pedro Zappa) viaggia, sempre di corsa, per due mesi, attraverso Kenia, Tanzania, Zanzibar e Zambia, illudendosi di non essere un turista perché si veste come i Masai  e  sceglie di condividere la vita ordinaria del popolo,  essendo ospitato nelle casupole di “amici” africani che incontra in strada. Ma, nel periodo in cui lo raggiunge la fidanzata (Carline Abras), si paga un safari fotografico. Durante quei giorni i due giovani si  intrattengono in discussioni e dissertazioni tra loro che ripropongono dogmi ideologici terzomondisti e no global. Fellipe Barbosa rievoca sinceramente il suo amico, tra finzione e interviste agli africani che lo hanno incrociato, ma  propone troppi clichés poco verosimili e sposa acriticamente, senza alcuna distanza, la confusa ideologia dei borghesi “progressisti” brasiliani.

 

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"Gabriel e a montanha " Fellipe Barbosa

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La sezione competitiva "Punto de Encuentro" ha proposto 14 lungometraggi, tutti opere prime e seconde, molti dei quali in anteprima europea.

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"Aala kaf ifrit (Beauty and the Dogs) " Kaouther Ben Hania

 

Commentiamo Aala kaf ifrit (Beauty and the Dogs), opera seconda della tunisina Kaouther Ben Hania, che ha ottenuto Il Premio de la Juventud, del Jurado Joven. È un dramma con forti connotazioni di critica sociale, ispirato da fatti reali.  È l’adattamento  del pamphlet cronachistico autobiografico “Coupable d’avoir été violé “ (2013) di Meriem Ben Mohamed, scritto con la collaborazione di Ava Djamsidi. Racconta la terribile odissea di una ventenne piccolo borghese, violentata da due poliziotti, che ha deciso di denunciarli. Un incubo che si  condensa in una notte di settembre del 2012, a La Marsa, una zona balneare residenziale non lontana da Tunisi, tra Rawâd e Cartagine. Quella sera Mariam (Mariam Al Ferjani) partecipa a  una festa danzante organizzata da un gruppo di studenti in un ristorante e conosce il trentenne Youssef (Ghanem Zrelli). I due simpatizzano e si soffermano in auto impegnati in tenere effusioni. Sorpresi da una pattuglia di poliziotti, mentre l’uomo viene allontanato, Mariam viene ripetutamente violentata. Ma allo spettatore viene mostrato solo il prima, il party, e il dopo, quando Mariam racconta il tragico. E, nel corso della notte, gli eventi verranno più volte commentati, fraintesi e manipolati nella loro descrizione.

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Nonostante lo shock, la protagonista si reca, insieme a Youssef, in una clinica privata e in seguito in un ospedale pubblico e chiede di essere visitata per ottenere un certificato che documenti la violenza subita. Ma viene sballottata da uno specialista all’altro e, con la scusa di vari inghippi burocratici, non ottiene nulla. Poi,  convinta dal compagno, entra con lui in un commissariato di polizia.  Gli agenti di turno iniziano a mettere in dubbio la sua testimonianza e poi minacciano di  incriminarla perché indossa vestiti considerati offensivi per il pudore, la morale, la religione e la legge e la avvertono che avviseranno suo padre. Solo una donna poliziotto sembra crederle, ma, dopo varie lungaggini, alla fine non raccoglie la sua denuncia. Poi, ad un certo momento, Mariam riconosce l’auto dei suoi violentatori perché vi scorge all’interno la borsa che pensava di aver smarrito. Urlando cerca di ottenere giustizia, ma la cricca dei poliziotti fa fronte comune con i rei, che hanno persino filmato lo stupro con un cellulare, e, tra minacce e blandizie, gli agenti cercnoa di  non ottemperare alle procedure necessarie. Kaouther Ben Hania suddivide la narrazione in nove capitoli, ognuno dei quali è filmato con un unico piano sequenza. Tuttavia, nonostante il tentativo di un efficace registro documentaristico, con uso della stedycam che tallona i personaggi, la messa in scena è piuttosto grossolana. Prevalgono i toni concitati, le ripetizioni, gli stereotipi e una recitazione naturalistica abbastanza mediocre. Ne risulta che si incrina la forza di un film necessario, sia per illustrare la condizione femminile in Tunisia, sia  per raccontare un apparato di polizia che continua ad agire con odiosi abusi e persecuzioni come nell’epoca di Ben Ali, grazie alla accondiscendenza del partito islamico “moderato” Ennahda (Movimento della Rinascita) giunto al potere dopo la fine della la rivoluzione che ha posto fine alla dittatura.

Infine offriamo una recensione della grande Retrospettiva dedicata alla cinematografia contemporanea del Paese ospite della SEMINCI di quest’anno: l’Islanda. Il ciclo intitolato “Focus sull’Islanda (1995 - 2016)”, effettuato in collaborazione con l’Icelandic Film Centre” ha compreso 17 lungometraggi,  realizzati da autori delle ultime due generazioni.

Come noto l’Islanda è un Paese che conserva scenari naturali di rara suggestione e bellezza (montagne e ghiacciai, coste amene, vulcani, geyser, ecc.). Similmente  a quanto avvenne altri Paesi Nordici nel corso della seconda metà del secolo scorso  vi si consolidò un sistema basato sul compromesso tra forti politiche statali di tutela dei diritti civili e di protezione sociale, che si sono sostanziate in efficienti sistemi di servizi pubblici (il cosiddetto “welfare state”), e la gestione capitalistica moderna dell’economia, basata sul libero mercato .Quindi, dagli anni ’90, queste cosiddette “società del benessere”, hanno subito varie modificazioni e, in quei sistemi, si sono manifestate diverse contraddizioni. Comunque nell’ultimo trentennio l’Islanda ha vissuto una radicale modernizzazione. Poi,  nel 2008,  dopo alcuni anni in cui si era affermata una robusta svolta neoliberista nella gestione dello stato e dell’economia, l’Islanda ha subito una gravissima crisi economico - finanziaria, ritrovandosi ai limiti della bancarotta. Tuttavia nel corso degli ultimi anni il Paese ha recuperato pienamente sviluppo economico e relativo benessere e attualmente il turismo rappresenta il 39,2% del PIL.  Quindi non sorprende che nell’ultimo ventennio  l’Islanda  abbia attirato grandi produzioni internazionali di film di genere, statunitensi e non, sia perché offre scenari naturali incontaminati, sia perché rende disponibili eccellenti infrastrutture ed équipes tecniche locali, sia perché garantisce un favorevole sistema di rimborso fiscale, pari al 14%, delle spese effettuate per le riprese di un film girato in loco. Ne ricordiamo alcune: la notissima serie televisiva Game of Thrones, iniziata nel 2011, e i lungometraggi Lara Croft: Tomb Raider (2001), Die Another Day (2002), Batman Begins (2005), Flags of Our Fathers (2006), Thor: The Dark World (2013) e Oblivion (2013).

Rispetto allo sviluppo del cinema In Islanda, occorre considerare che solo nel 1979, fu creato lo “Icelandic Film Fund”, fondo statale per la sovvenzione della produzione cinematografica islandese. Tuttavia fino a pochi anni fa non è esistita una scuola cinematografica nazionale. Quindi molti tra i giovani registi che sono emersi  nel decennio dal 2000 al 2009 si sono formati all’estero, specie in Danimarca. Successivamente, nel 2003, lo “Icelandic Film Fund” è stato sostituito dallo “Icelandic Film Centre” con lo scopo di razionalizzare e di rendere più efficace il programma di aiuti statali. La nuova organizzazione dispone ormai di un budget significativo da destinare alla produzione. Tuttavia, pur considerando che la produzione di film nazionali è limitata, i fondi risultano spesso insufficienti e quindi i produttori locali sono costretti a rivolgersi generalmente ad imprese straniere, coinvolgendole nel ruolo di coproduttori o devono partecipare ai bandi concorsuali dei Programmi Comunitari MEDIA ed Eurimages. Le statistiche del mercato denotano una frequentazione relativamente alta delle sale cinematografiche da parte di un pubblico che è molto giovane (il 40% della popolazione ha meno di 24 anni e gli abitanti del Paese sono concentrati per il 60% nella capitale Reykjavik). La produzione e la distribuzione cinematografica   nell’ultima decada è stata in media  tra 12 e 15 lungometraggi all’anno,  con un market share per il cinema nazionale che, nello stesso periodo,  si è collocato mediamente tra il  10% eil 15%

Il cinema islandese contemporaneo, dell’ultimo ventennio, è costituito da una generazione di autori trentenni e quarantenni, con l’aggiunta di Fridrik Thor Fridriksson e di Hilmar Oddson, già attivi negli anni ’80. Attualmente sono tre i registi più noti e significativi: Baltasar Kormákur, ormai stabilmente attivo anche a Hollywood (ha realizzato A little trip to Heaven  nel 2005, Inhale, nel 2010, Contraband, nel 2012, 2 Guns nel 2013 e Everest, nel 2015)  Dagur Kári (anch’egli già approdato negli USA dove ha realizzato The Good Heart nel 2009) e Ragnar Bragason. Questi registi si sono cimentati con vari generi, ma hanno in comune la volontà di narrare storie di personaggi che si trovano a metà strada tra la tradizione e la modernità. Da un lato vi sono il rapporto con la natura, l’isolamento, le antiche saghe e il sentimento nazionale, a volte autocompiaciuto. Dall’altro, il rock and roll, le influenze della cultura popolare statunitense (importata dai militari americani della base aerea di Keflavnik, installata negli anni ’50) e le problematiche della vita urbana nella capitale, tra cui le ristrettezze economiche di alcune categorie sociali e l’alcolismo e la frustrazione sessuale delle giovani generazioni. In sostanza registrano e descrivono i cambiamenti di un Paese che si è radicalmente modificato negli ultimi vent’anni.

Alcuni film si sviluppano come road - movies, inserendo originali percorsi esistenziali in un contesto naturale aspro e spettacolare, poetico e mitologico. Vi sono poi molti drammi e commedie drammatiche che si misurano con le faticose ricerche di nuove identità, con le problematiche della vita ordinaria e con le relazioni tra genitori e figli. In  numerosi film vengono mostrate, con lucida radicalità, relazioni interpersonali e familiari, spingendo i confronti fino alla violenza ed a conseguenze estreme di annichilimento o di catarsi liberatoria rispetto a qualsiasi controllo. Viene ricercata la supposta verità degli esseri umani  e vengono evidenziate le contraddizioni del progresso ed i suoi costi umani. Infine molti autori si cimentano volentieri con il genere thriller. Noir,  polizieschi e thriller di varia tipologia accomunano i registi dell’Islanda  delle ultime generazioni a quelli di Svezia e Norvegia: tutti traggono spunto dalla letteratura di genere, in cui, nell’ultimo trentennio, gli autori dei Paesi Nordici sono ormai diventati popolari maestri, con romanzi  di qualità divenuti bestseller a livello mondiale. Questi film situando l’azione in contesti originali e credibili e combinano sapientemente una rilettura di ingredienti tradizionali del genere e una rappresentazione senza veli delle distorsioni e delle perversioni che caratterizzano la crisi del modello di organizzazione sociale dei Paesi Nordici. Proponiamo quindi il commento critico di alcuni dei film più significativi della Retrospettiva.

101 Reykjavik (2000) opera prima di Baltasar Kormákur, in parte autobiografica, è un dramma esistenziale e familiare mordace e ingegnoso. Hlynur (Hilmir Snær Guðnason)  è un ventenne di  Reykjavik con una complicata vita familiare e sentimentale. Cerca lavoro senza molta convinzione, si perde nella navigazione su internet alla ricerca delle pagine erotiche, e, durante la notte, si sposta da un locale all’altro, tra abbondanti libagioni alcoliche e strani incontri. Tra l’altro la sua  esistenza di giovane poco responsabile e istintivamente egoista viene sconvolta quando sua madre Berglind (Hanna María Karlsdóttir) gli presenta la sua amante, la spagnola quarantenne Lola (Victoria Abril), maestra di flamenco. Poi Berglind si assenta per visitare alcuni parenti in Norvegia e una notte, quando tornano a casa ubriachi, Hlynur e Lola si ritrovano quasi incoscientemente a far l’amore. Ma poco tempo dopo Lola scopre di essere incinta. Kormákur si ispira probabilmente e vagamente al noto film di Federico Fellini La dolce vita, ma evita attentamente qualsiasi deriva filosofica e didascalica, promuovendo un ritratto comico intelligente, efficace, disincantato e vagamente malinconico. Il suo sguardo, sottilmente empatico nei confronti di Hlynur, sembra evocare una giovinezza strana, ma indimenticabile, ricordata con tenero rammarico.

 

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"101 Reykjavik " Baltasar Kormakur

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"Noi Albinoi " Dagur Kari

 

Noi Albinoi (2003), opera prima  di Dagur Kari, è un dramma che contiene una tragedia, ma è raccontato con venature di commedia e sottile ironia e si conclude con un epilogo all’insegna dell’ottimismo della volontà. È ambientato in un piccolo villaggio, di soli 957 abitanti, situato nel glaciale scenario della costa nord-occidentale dell’isola. Figlio di un tipo inaffidabile e alcolista, Nói (Tómas Lemarquis, davvero eccellente) è un giovane albino che abita con la nonna affettuosa e svitata e non va quasi mai a scuola. Nonostante i richiami all’ordine del preside e un’intelligenza non comune, il diciassettenne è roso da un senso oscuro di rivolta. Poiché lo squallido paese offre poco o nulla e il freddo alla lunga è insostenibile, il ragazzo finisce con il trascorrere ore in un suo rifugio segreto sotto il pavimento di casa a progettare un’impossibile evasione. Il sogno di fuga si fa più forte quando Nói si innamora della coetanea Iris Elín Hansdóttir), con cui vorrebbe partire per le assolate spiagge delle isole Hawai. Ignora che dietro l’angolo è in agguato un’immane catastrofe e che la sua vita cambierà in modo del tutto imprevedibile. Si tratta di un film pregevole, ben scritto e soprattutto efficace nel rappresentare una fragilità ed un’inesprimibile angoscia adolescenziale.

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Laldaljos (Cold Light) (2004), quinto lungometraggio di Hilmar Oddson, racconta le vicende di Grimur (Ingvar Eggert Sigurðsson), un quarantenne, prigioniero di sé stesso, che è obbligato a confrontarsi con il suo passato per superare la sua ipocondria. La qualità del film deriva dall’eccellente uso dell’ambiente paesaggistico per accompagnare l’itinerario psicologico del protagonista.

 

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"Laldaljos (Cold Light) " Hilmar Oddson

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"Country wedding" Valdis Oskarsdottir

 

Country wedding (2008), opera prima di Valdis Oskarsdottir, è una divertente commedia che segue le disavventure di una comitiva nuziale che si sposta da Reykjavik ad un’amena località rurale. Si può considerare  un road-movie con personaggi simili a quelli dei film più scatenati dei fratelli Kaurismäki.

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Hross í oss (Of horses and men) (2013), opera prima dell’attore e regista Benedikt Erlingsson, è una commedia molto divertente commedia.  Descrive con uno humour finissimo, tra distacco, understatement e farsa seriosa, le curiose abitudini di una comunità  situata in una zona periferica e selvaggia  dell’isola.  Gli abitanti hanno sviluppato una relazione “inconsueta” con i cavalli selvaggi che scorazzano nelle campagne rouge

 

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"Hross í oss (Of horses and men) " Benedikt Erlingsson

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62. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID

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21 - 28 / 10 / 2017

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