interference
interference
eng
de
es
it
it
tr
 
px px px
I
I
I
I
I
I
 

px

impressum
contact
archive
facebook

 

px

 

pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 61. LONDON FILM FESTIVAL, BFI I DI GIOVANNI OTTONE I 2017

61.London Film Festival 2017:

Nuovi film da tutto il mondo

Miglior film “Lovess” di Andrey Zvyagintsev

 


DI GIOVANNI OTTONE

"Lovess" Andrey Zvyagintsev

London Film Festival

px
px

La 61e edizione del “BFI London Film Festival (LFF)”, svoltasi dal 4 al 15 ottobre, è stata inaugurata da Breathe, opera  prima dell’affermato attore inglese cinquantenne Andy Serkis, è un suggestivo e convincente biopic basato sulla storia vera dei genitori di Jonathan Cavendish, il produttore del film. Rievoca una coinvolgente love story, romantica e drammatica, essenziale per innescare una coraggiosa traiettoria di determinazione e di resilienza nei confronti  di una grave malattia cronica invalidante. Un period film che propone anche una suggestiva ricostruzione d’epoca del mondo britannico, in termini storici e sociali, a partire dalla fine degli anni ’50. Nel 1957, durante una partita di cricket che si svolge nell’idilliaca campagna inglese, l’elegante ed estroverso Robin Cavendish (Andrew Garfield)  nota tra gli spettatori Diana (Claire Foy), attraente e sicura di sé. Il loro incontro determina un colpo di fulmine che  si traduce in un’appasionata relazione amorosa. Dopo il matrimonio la coppia, spinta da spirito di avventura, si stabilisce a Nairobi, in Kenya, dove Robin diventa commerciante di tè. Ma l’entusiasmo  dovuto alla gravidanza di Diana  viene bruscamente stroncato quando Robin, all’età di 28 anni, è vittima di un collasso improvviso e si ritrova  completamente paralizzato, a partire dal collo in giù, a causa di un infezione fulminante da virus della poliomielite. Salvato solo grazie alla ventilazione meccanica garantita da un respiratore automatico,  la prognosi dei medici è di  pochi mesi di vita. Peraltro, nonostante il parere contrario dei sanitari, i due coniugi scelgono di lasciare l’ospedale e di trasferirsi a casa in Inghilterra e  iniziano uno straordinario percorso di vita insieme al loro figliolo. Infatti, grazie all’aiuto dei due fratelli gemelli di Diana (entrambi interpretati da Tom Hollander) e di Teddy Hall (Hugh Bonneville), un professore dell’università di Oxford che costruisce un nuovo prototipo di sedia a rotelle con annesso respiratore, viene creato un ambiente  che consente a Robin maggiore comfort e mobilità. Nel corso di 36 anni, fino alla sua morte nel 1994, Robin, coadiuvato da Diana, riesce a viaggiare in Europa, impegnandosi contro la marginalizzazione dei disabili gravi attraverso la promozione dell’utilizzo di nuove tecnologie per aiutarli.  A partire dalla ricca articolazione emotiva della sceneggiatura di William Nicholson, Andy Serkis, noto per la fisicità delle sue performance interpretative (Gollum  nella saga The Lords of the Rings e Caesar  in War for the Planet of the Apes), opta per una narrazione vivace e briosa, ricca di spirito ottimista e di note di humour. Quindi, in larga parte,  si tiene lontano dal racconto didascalico, pittoresco ed esemplare, sviluppando invece un vigoroso studio di caratteri, ed evita quasi sempre i toni retorici, offrendo alcuni momenti emozionanti e sinceramente commoventi. Una scelta quasi agli antipodi rispetto a film che raccontano storie similari come ad esempio  The Teory of Everything (2014), di James Marsh. Da citare le ottime prove di recitazione di tutto il cast, in particolare  di Garfield,  credibile e  leggero, e di Foy, con registro naturalista, mentre, purtroppo stonano alcuni eccessi bizzarri della colonna sonora di Nitin Sawhney.

Il LFF è il più importante Festival cinematografico che si svolge in un’area metropolitana in Europa ed è da sempre rivolto al pubblico: quest’anno si è calcolata una audience di circa 180.000 presenze agli screenings che si sono susseguiti ogni giorno. Inoltre costituisce anche un notevole trampolino di lancio, a livello continentale, per la distribuzione commerciale di diversi film d’autore già presentati e/o premiati in altri importanti Festivals del 2017, tra cui Sundance, South by Southwest, Berlino, Cannes, Toronto e Venezia. Peraltro annovera pure la presenza di nuovi film, in particolare molte tra le opere prime di giovani autori, quest’anno bel 64, i documentari, ben 527, e di film d’autore molto rappresentativi delle comunità estere presenti nella metropoli, come la indiana, la cinese e quelle dei Paesi del Medio Oriente. Anche quest’anno il programma è stato ampio, avendo presentato ben 246 lungometraggi features films e 139 cortometraggi, prodotti da 82 Paesi. La qualificazione internazionale viene anche da altri dati rilevanti: 24 World Premières, 10 International Premières e 34 European Premières, nell’ambito dei lungometraggi. I film sono formalmente raggruppati in varie sezioni, con denominazioni curiose che si riferiscono, in qualche modo, alla tipologia e al genere: Galas; Love; Debate; Laugh; Thrill; Cult; Journey;Create; Family; Experimenta; Treasures.

Oltremodo significativa la presenza di 6 film italiani,  presentati nel corso dell’anno in altri Festival e collocati  nelle varie sezioni della rassegna londinese: Call  Me By Your Name, di Luca Guadagnino,  A Ciambra, di Jonas Carpignano,  L’equilibrio, di Vincenzo Marra, Sicilian Ghost  Story di Antonio Piazza, Fabio Grassadonia,  La tenerezza, di Gianni Amelio e Suspiria (1977), di Dario Argento, presentato nella sezione “Cult”.

Clare Stewart, Direttore Artistico al suo sesto mandato, ha confermato la struttura del Festival e quindi anche la scelta di 3 sezioni competitive. La “Official Competition” ha compreso 12 lungometraggi, alcuni dei quali già presentati ai Festival di Cannes, Venezia, Locarno e Toronto.

London Film Festival

"Loveless (Nelyubov)" Andrey Zvyagintsev

 

Loveless (Nelyubov), quinto lungometraggio del cinquantatreenne russo Andrey Zvyagintsev, ha ottenuto il Premio quale miglior film del concorso ufficiale. Ambientato a Mosca,  offre  una  eccellente e amarissima  disanima delle relazioni all’interno di una famiglia. Propone appunto la storia  privata di una crisi familiare che assume il significato di una meditazione laica più generale sulla condizione della cosiddetta nuova classe media. Un ritratto impietoso di personaggi emotivamente squallidi, totalmente egocentrici, frustrati, vigliacchi e perennemente ansiosi e insoddisfatti. Il matrimonio di Zhenya (Maryana Spivak) e Boris (Aleksey Rozin), entrambi appena quarantenni, si è esaurito e la coppia inizia le procedure per il divorzio. Nel frattempo litigano senza tregua  manifestando un acerrimo odio reciproco e cercano di vendere l’appartamento di comune proprietà. Entrambi sono impegnati a organizzare una nuova vita. Boris, impiegato in un'impresa commerciale, ha allacciato da tempo una relazione con Masha (Marina Vasileva), una giovane donna ora incinta, ma teme che il suo boss, cristiano tradizionalista, lo  licenzi se scopre la sua situazione familiare.

trailer Trailer

Zhenya dirige un salone di bellezza e frequenta il  quarantasettenne Anton (Andris Keiss), ricco imprenditore della ristretta élite protetta dal potere, affascinante e disposto a sposarla. Nessuno dei due è davvero interessato a prendersi seriamente cura  di Alyosha (Matvey Novikov), il figlio dodicenne, testimone sofferente delle loro dispute. Il ragazzino ascolta la madre mentre afferma di volerlo inviare in un collegio per essere più libera. Poi  Alyosha scompare e Zhenya tarda  48 ore per accorgersene. Trascorrono alcuni giorni e la polizia tergiversa.  Solo un'organizzazione di volontari, dedicata  al problema degli adolescenti scomparsi, e miracolosamente efficiente, aiuta attivamente nelle ricerche i genitori attoniti che, comunque, continuano a preoccuparsi soprattutto di loro stessi. Andrey Zvgyagintsev, con un background di formazione teatrale, dimostra, fin dal suo esordio, una inequivocabile propensione a rappresentare lucidamente la tragica decadenza dei rapporti umani nelle Repubbliche nate dalla scomposizione della precedente URSS, dopo il 1989. Propone un cinema realista in cui i drammi domestici e familiari si  inquadrano nelle contraddizioni  tra le classi sociali e, nel corso degli anni, con i suoi film, ha costruito metafore, via via sempre più forti e graffianti, sugli aspetti universali della vita. Li ricordiamo: The Return (2003), The Banishment (2007), Elena (2011) e Leviathan (2014). Nel caso di Loveless, Zvyagintsev ha dichiarato di aver scelto un tema di attualità in Russia, la sparizione quotidiana di migliaia di  persone. Il film sviluppa una narrazione  rigorosa e asettica,  priva di sensazionalismo. La messa in scena è essenziale, molto curata  e  contundente per i dettagli  relativi ad ambienti e personaggi. Zvyagintsev rappresenta individui intossicati dal loro egoismo senza volerli giudicare. Descrive l'illusione romantica, ipocrita e schizofrenica,  dei   due protagonisti che dichiarano il loro “amore” ai nuovi partner, ma che, in realtà sono costantemente  impegnati ad effettuare calcoli utilitaristici. Quindi sono incapaci di sentimenti  onesti e genuini e destinati a un futuro personale miserabile. E si muovono in una società  dove  il potere non garantisce i servizi pubblici di protezione e assistenza e dove dilaga la corruzione. Sullo sfondo di questo quadro  deprimente dei rapporti umani, al di là degli uffici high tech, delle boutiques di lusso e dei ristoranti esclusivi,  vi è un paesaggio invernale desolante: casermoni anonimi, boschi deserti, capannoni industriali e scuole abbandonate e in rovina dell'epoca di Breznev.

Segnaliamo inoltre alcuni nuovi film qualitativamente significativi, molti dei quali provenienti dal Festival di Toronto e presentati in anteprima mondiale nelle sezioni “Galas”, “Official Competition” e “First Feature Competition”.

Call Me By Your Name, quinto lungometraggio di Luca Guadagnino, è un  calligrafico ed estetizzante coming-of-age film che celebra una love story omosessuale. Un’opera che fonde paesaggio padano estivo idilliaco, atmosfere da amarcord, intellettualismo borghese e naturalismo dei corpi. Il regista, anche autore della sceneggiatura, insieme a James Ivory (scelto verosimilmente per nobilitare il manierismo del film) e a Walter Fasano, adatta l’omonimo romanzo, pubblicato nel 2007, dello scrittore statunitense André Aciman, un racconto di formazione che narra una struggente  love story, durante l’estate del 1988, sullo sfondo della riviera ligure, tra un diciassettenne e un ventiquattrenne. Tuttavia, pur conservandone l’epoca, anche se l’anno diventa il 1983, e la temporalità estiva, in agosto, ne modifica l’ambientazione, collocandola in un contesto padano,  nella bassa Lombardia, nella rigogliosa campagna attorno a Crema, con escursioni anche nella provincia di Bergamo e sul lago di Garda.

 

London Film Festival

"Call Me By Your Name" Luca Guadagnino

Trailer

trailer

Guadagnino sceglie quindi abilmente un paesaggio molto suggestivo, gradevole e ben identificabile, tra borghi incantevoli, ricchi di tradizioni contadine, campi di mais, filari di pioppi, rogge e fossi. E con tutto il sottofondo della natura: il frinire delle cicale,  i  cinguetti degli uccelli e muggiti e movimenti delle mandrie bovine. Infatti  si sofferma più volte sui giovani protagonisti, prima amici e poi innamorati, che compiono lunghe escursioni in bicicletta e che si avventurano a scoprire i bar, le sagre di paese e le festicciole notturne. In qualche modo  cerca di  emulare la genuinità e la spontaneità popolare degli scenari del cinema di Ermanno Olmi e di Franco Piavoli, ma compie invece una caratterizzazione estetica furbesca, essendo assolutamente all’opposto della dialettica uomo - paesaggio dei due grandi registi lombardi. Dunque si tratta di un’operazione formalista, funzionale a stabilire una dialettica straniante tra i ”bonari” e “ruspanti” contadini della bassa padana (descritti con i toni vagamente folkloristici e grotteschi che il regista riserva  di solito ai popolani presenti nei suoi film) e l’ambiente intellettuale e borghese alvo della storia. Comunque è un paesaggio che si presta perfettamente a mettere in scena la fisicità  e la libertà dei corpi e dei sensi nell’afa estiva, sotto il sole cocente o dopo il refrigerio dei bagni nei ruscelli. Suggestioni e richiami di facile presa per il pubblico (e la critica) internazionale, che può gradire molto un film parlato in inglese  con qualche spezzone di dialogo in francese  e un po’ di italiano e di dialetto lombardo - padano, che  i borghesi veri “devono per forza conoscere e amare”. È anche evidente che Guadagnino insegue l’ispirazione, il modello estetico e i fantasmi del cinema di Bernardo Bertolucci, in particolare il suo film Io ballo da sola (1996), ambientato in un’altra bellissima campagna, quella toscana. La vicenda si svolge in una magnifica villa di campagna plurisecolare, location che fa pensare a un altro film di Bertolucci, La strategia del ragno (1970). È la  residenza estiva dei Perlman, una famiglia abbiente, della buona borghesia di origine ebrea, composta dal padre americano (Michael Stuhlbarg), professore cinquantenne di larghe vedute,  esperto di arte  greco - romana e archeologo, dalla madre francese Annella (Amira Casar), traduttrice e perfetta padrona di casa, e dal figlio unico diciassettenne Elio (Timothée Chalamet). Quet’ultimo è un giovane magro e con un viso dolce e espressivo, poliglotta, intellettualmente maturo e sofisticato, precoce, ma ancora inesperto in materia di sentimenti.  Elio trascorre le giornate leggendo e  trascrivendo e suonando al pianoforte brani di musica classica e avverte i primi segni della sessualità nascente, tra  autoerotismo onanista e un piccolo flirt con Marzia (Esther Garrel), un’amica appena ventenne  di buona famiglia. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), un brillante e affascinante ricercatore americano ventiquattrenne invitato dal padre di Elio per completare il suo dottorato e per aiutarlo nelle perlustrazioni sul fondo del lago di Garda alla ricerca di statue romane, stravolge il clima casalingo. E provoca reazioni e turbamenti nel ragazzo, incaricato dai genitori di fare da guida all’ospite nell’esplorazione dei dintorni. In effetti Oliver è molto bello, statuario, casual come molti suoi connazionali e cosciente del suo fascino che conquista tutti, uomini e donne, in quell’ambiente dedito ad apprezzare la bellezza artistica e i piaceri della cultura e della vita. Guadagnino descrive con molta delicatezza, ma anche con eccessiva superficialità e facilità, lo sviluppo progressivo della  interazione tra i due, nel corso delle settimane. Un rapporto che evolve da una gradevole frequentazione a un’amicizia, attraverso la scoperta di affinità oltre la differenza generazionale, fino a un lento processo di reciproca seduzione e alla nascita del desiderio erotico Poi si passa dai primi contatti fisici al pieno sviluppo di una relazione sessuale, accompagnata da un legame sentimentale in cui chiaramente il più indifeso è Elio. Guadagnino mette in scena la scoperta dei corpi e della sessualità con  apparente massima spontaneità: dopo il primo timido bacio Elio non si fa problemi a fare petting e Oliver reagisce divertito. E da quel momento la passione dei sensi si sviluppa apertamente, tra masturbazioni, feticismo, cameratismo spinto,  sesso esplicito e abbondanti fluidi corporali, senza omissioni e senza allusioni morbose, con riferimenti a posture artistiche, ma mai con immagini hard.  Tuttavia quando infine Oliver torna in New Jersey, Elio entra in crisi, quantunque, senza uno show down drammatico che sarebbe in contrasto con il tono generale di  artificiosa naturalezza a cui è improntato il film. E a questo punto  avviene il peggior  epilogo possibile, studiato appositamente per commuovere, ma anche per soddisfare un’esigenza di moderna political correctness, ma, viceversa, oggettivamente grottesco. Da un lato i genitori di Elio, specie la madre che ha capito tutto, si mostrano molto comprensivi, e il padre intrattiene il figlio con un dotto discorso su come superare la fase dell’amore omosessuale. Dall’altro, alcuni mesi dopo, in inverno, Oliver telefona a Elio annunciandogli che sta per sposare una nuova fidanzata. In quel momento l’espressione del ragazzo denota la presa di coscienza che quell’avventura è  diventata un bellissimo e malinconico ricordo. Non vi è stata ne vi sarà alcuna svolta esistenziale “rivoluzionaria”: Elio è ormai pronto a intraprendere il cammino di una “luminosa”  traiettoria esistenziale e sociale, seguendo l’esempio di suo padre e le tradizioni familiari. Indubbiamente Guadagnino si è sforzato di superare i vistosi e fallimentari limiti dei suoi due film precedenti: Io sono l’amore (2009), la saga di una ricca famiglia appartenente all’alta borghesia industriale milanese, che si sviluppa come un  melodramma, mimando la tragedia greca classica ed emulando l’estetismo di Luchino Visconti, ma cadendo nel grottesco per mancanza di distanza e di misura; A bigger spash (2015), una storia di passioni involute e contorte, desideri incerti e mai sopiti, attrazioni inconfessate, provocazioni, gelosie, menzogne e vigliaccheria esistenziale, configurata come un melodramma molto pasticciato e sgangherato, che, nell’epilogo bozzettistico, scivola inesorabilmente nel ridicolo assoluto della pantomima. Call Me By Your Name potrebbe quindi sembrare il film più maturo e riuscito di Luca Guadagnino, nonostante la prolissità, ma purtroppo ripropone molti dei difetti del suo cinema. La messa in scena è apparentemente elegante e raffinata, essendo coadiuvata da un production design meticoloso. Tuttavia, a parte il già commentato strumentale  uso del paesaggio, i diffusi riferimenti alle mode, alla cultura, alla musica e alla politica dell’epoca denotano più superficialità che sostanza. Nonostante la ricerca di buoni equilibri estetici, la gestione degli spazi e delle inquadrature appare spesso disordinata e occasionale, con  risultati alterni. Ne deriva che il film non è audace e neppure morboso perché il suo approccio alla vita risulta inconsistente. Quindi non sono sufficienti nemmeno gli elaborati movimenti di macchina e la diversificazione delle inquadrature e dei piani di ripresa, per suscitare vera emozione nello spettatore.  A ciò si aggiunge la fastidiosa sentenziosità di molti dialoghi.

London Film Festival

"The Shape of Water " Guillermo del Toro

 

The Shape of Water, del messicano, radicato negli USA, Guillermo del Toro, è un’eccellente favola  che fonde la radicalità giocosa di un B-movie sui mostri, le atmosfere noir di una spy story, i fantasmi della Guerra Fredda che, durante gli anni ’50 e ’60 hanno messo a rischio la democrazia negli USA, e  la magia poetica di un melodramma d’antan che sconfina nel musical. Si tratta di una versione del tutto libera e moderna della classica storia  “La Bella e la Bestia”, che la genialità di del Toro svincola dal messaggio buonista e riempie di significati nuovi, anche erotici, sublimando  tutto ciò che dovrebbe essere sporco e mostruoso. La storia è ambientata a Baltimora, città puritana e razzista nel 1962. Elisa  (Sally Hawkins) è una trentenne sensibile e solitaria: priva dell’uso della parola ed intrappolata in una grigia routine, senza ambizioni e aspettative, è addetta alle pulizie in una base -laboratorio governativa  dove scienziati e militari effettuano esprimenti segreti. Un giorno riceve l’incarico di pulire, insieme  all’amica Zelda (Octavia Spencer), una sezione blindata, con accesso superselezionato.

trailer Trailer

La donna scopre che in una larga vasca è tenuto prigioniero incatenato un essere acquatico mostruoso: una creatura squamosa dall’aspetto gigantesco e umanoide. Per nulla impaurita, ma affascinata, Eliza riesce a stabilire un contatto  amichevole con questo essere. La creatura è stata  scoperta in un fiume in Amazzonia  e gli americani la stanno studiando come cavia e progettano anche di inviarla nello spazio. Dopo qualche giorno, per sottrarre il suo nuovo amico mostruoso alle angherie del perfido agente Strickland (Michael Shannon) e agli esperimenti che potrebbero ucciderlo, Elisa riesce a trafugarlo dalla base e lo porta nel suo appartamento, nascondendolo nella vasca del bagno. Da quel momento sono inseparabili, anche perché fanno continuamente l’amore. Guillermo del Toro riesce a mescolare fantastico, fantasy, fantascienza, horror e rievocazione d’epoca con chiaro significato politico,  e ottiene un pastiche sfavillante, con perfetta scansione narrativa e drammatica, sorprendendo e incantando anche lo spettatore più difficile. In The Shape of Water ripropone, con uguale maestria, molti aspetti dell’universo fantastico già presenti nel suo precedente El laberinto del fauno (2006),  un  fantasy - thriller - horror ambientato nel 1944, nella Spagna franchista. L’immaginario  del regista è fertilissimo e stravolge canoni e regole dei generi, con straordinaria potenza visiva, ma non deborda in una stanca deriva baroccheggiante  ed  evita l’eccesso di suggestioni perché  mostra un buon controllo della  materia e un ottimo ritmo. Lo schema narrativo assembla ingredienti e soggetti ben noti, il mostro, il Male, la favola, l’illusione e il sogno, ma li  assembla in un ideale shaker e li rivitalizza. Ne nasce una geniale invenzione: una fragile eroina e un amore impossibile, passionale e anche carnale. Elisa è una femme fatale insospettabile,  il paladino di una resistenza epica e struggente alle forze del Male.

L’amant double del francese François Ozon è un dramma - thriller  erotico che disseziona l’ambivalenza della sessualità. Un film teso, cupo e sarcastico, sensuale e inquietante, ma anche divertente. Ozon adatta liberamente il romanzo "Lives of the Twins" (1987), di Joyce Carol Oates. Al centro  della complessa vicenda vi è una donna, come in  molti altri suoi film (Sous le sable, del 2000, 8 femmes, del 2002, Swimming Pool, del 2003 e Jeune et jolie, del 2013) che privilegiano personaggi femminili  sfaccettati e determinati. Chloé (Marine Vacth)  è una venticinquenne fragile, depressa e frigida, che fin dall’adolescenza soffre a causa di ricorrenti forti dolori addominali. Avendo escluso patologie organiche, i medici le consigliano di tentare la psicoterapia comportamentale. Si affida quindi a Paul (Jérémie Renier, qui in un doppio ruolo), uno psichiatra trentenne affascinante ed enigmatico. Tra i due nasce un sottile gioco di reciprocità e Chloé si innamora del terapeuta che alla fine non nasconde  di corrisponderle. Dopo qualche mese vanno a vivere insieme. Tuttavia  ben presto la donna  sospetta che Paul le nasconda un lato oscuro e sorprendente della sua vita.

 

London Film Festival

"L’amant double" François Ozon

Trailer

trailer

Ne nasce un confronto ad alta tensione erotica che conduce a un intreccio ansiogeno tra realtà e sogni e a un vortice di provocazioni. Il fascino dei film di François Ozon risiede nella compresenza di contenuti forti come il desiderio, la morte, l’assassinio, il trauma psicologico e il lutto, ma anche di questioni più comuni della vita ordinaria come il cibo, la famiglia e i bambini. Il suo cinema ruota intorno ad alcuni temi privilegiati e ricorrenti: l’ambiguità, l’ambivalenza e le complicazioni della sessualità negli adulti e negli adolescenti; le relazioni o le non relazioni tra membri reali o immaginari della famiglia e quindi la sovversione delle norme familiari e sociali. L’amant double  racconta l’itinerario interiore  di Chloé che  affronta una escalation controversa nell’affermare i suoi desideri e nel liberare la sessualità di fronte a un amante che appare sdoppiato in due individui opposti. Ozon mostra un’autorialità che si rinnova brillantemente, confermando di essere “l’enfant terrible” del cinema francese contemporaneo. Porta alle estreme conseguenze alcuni suoi topoi: il fascino nei confronti dell'artificio e della teatralità; la relazione dominatore - dominato anche con un rovesciamento di ruoli; il feticismo, le figure fantasmatiche e l'immaginario sado-masochistico; la narrazione a ritroso; la sperimentazione formale con l’irruzione di  modificazioni di genere inaspettate, di destabilizzazioni visive e di digressioni emotive o sonore che funzionano anche come fattori di congiunzione. In ogni caso è noto che la  presenza di  elementi di genere, segnatamente horror, mediata o meno dal fantasy, dal musical e dal melodramma, marca la cesura  della convenzione narrativa nei suoi film. L'amant double conferma quindi la sua poetica, ma la innova anche radicalmente,  introducendo l'incubo del doppio che è in ognuno di noi. Inoltre risulta evidente l’intelligente manipolazione della storia, con spunti provocatori, iperbolici e, in qualche caso, geniali e la satira nei confronti della psicoanalisi, delle frustrazioni nella coppia nucleare e delle perversioni sessuali dei borghesi. Ozon stesso ha ammesso le referenze a Hitchcock, a De Palma e a Dead Ringers (Inseparabili) (1988) di Cronenberg. Possiamo aggiungere che nel film si notano le citazioni di Chabrol, di Buñuel, di Polanski, di Verhoven e di Fassbinder e molte  suggestioni letterarie riferibili  a opere del Marchese de Sade e di Georges Bataille. Ma il tutto è mediato da un ritmo narrativo progressivamente incalzante, con eccessi grotteschi e toni sarcastici, che destrutturano il genere. Da segnalare il felice sodalizio  tra Ozon e il direttore della fotografia Manu Dacosse che ha prodotto una costruzione visiva studiatissima ed emozionante con immagini cesellate e sezionate chirurgicamente.

London Film Festival

"Blade of the Immortal (Mugen No jûnin)" Takashi Miike

 

Blade of the Immortal (Mugen No jûnin), del prolifico giapponese Takashi Miike,  propone una saga rutilante e malinconica che sovverte il dramma epico classico di samurai, pur conservandone, con grande eleganza, tratti estetici e ambientazione. È un racconto leggendario di immortalità subita, codici di onore infranti, vendetta e amore crepuscolare. È basato sulla famosa serie di manga curata da Hiroaki Samura. Nell'epoca dello Shogunato, Manji (Takuya Kimura), un samurai trentenne di alto rango,  dopo una feroce battaglia, è  vittima del beffardo sortilegio di una strega per cui la morte per lui diventa impossibile perché le sue ferite mortali si reintegrano sempre. Convertito in giustiziere dovrà uccidere 1000 uomini per ritrovare la sua anima e per poter infine concludere la sua tormentata esistenza. 50 anni dopo, essendo rimasto fisicamente inalterato e giovane, ma perseguitato dal ricordo della morte di sua sorella, Manji incontra Rin (Hana Sugisaki), una  ragazza che cerca la vendetta.Il suo obiettivo è una setta di spietati spadaccini, guidata dal sadico e impietoso Anotsu Sôta Fukushi), che ha sterminato la sua famiglia e tutti i componenti della scuola di samurai gestita da suo padre.

trailer Trailer

Manji promette di aiutarla. Takashi Miike,  giunto a dirigere il suo centesimo film, realizza un  nuovo jidaigeki, riuscito e ritmato, struggente e sarcastico. La sua attualizzazione, con tinte grottesche, fantasiose e horror, di un’epoca fondamentale della storia giapponese costituisce una rappresentazione atipica e amara della sofferenza umana, con la centralità del concetto del corpo, di quello dell’impossibilità di morire e della coazione a ripetere. Miike orchestra innumerevoli e spettacolari duelli con tutti i tipi di lame, con un tripudio di sangue e mutilazioni. Da segnalare anche la meravigliosa fotografia di Nabuyasu Kita, collaboratore di Miike anche nel precedente Ichimei (2011), altro magnifico jidaigeki,  il prezioso e creativo set decoration di Hiroshi Kiwanami e l’ottima colonna sonora di Kôji Endô.

Wonderstruck, dell’americano Todd Haynes, è un racconto di formazione centrato sui temi della ricerca di identità e della memoria e al tempo stesso è un viaggio fiabesco che guarda alle origini del cinema e al passaggio tra il muto e il sonoro. Un’opera esteticamente e scenograficamente molto curata, con immagini pregnanti che esaltano il doppio registro d’epoca, anni ’20 e anni ’70 del secolo scorso, ma molto didascalica e ripetitiva, luccicante e “strabiliante”, ma senza una vera anima. Si tratta dell’adattamento dell’omonimo romanzo - feuilleton dello scrittore statunitense Brian Selznick, pubblicato nel 2011,  il quale ha curato anche la sceneggiatura del film. Il film si muove appunto su due diversi piani temporali e narrativi, il primo negli anni  ’20 e il secondo nei primi anni ’70,  l’uno naturalmente girato in bianco e nero come un silent movie,  l’altro a colori. Peraltro i due contesti si intrecciano continuamente attraverso un fastidioso ed esasperante montaggio alternato che, anziché creare raccordi ed esaltare la forza affabulatoria e la caratura drammatica della storia, la depotenzia irrimediabilmente, imprigionando i personaggi. I protagonisti sono due preadolescenti, entrambi disperatamente infelici.

 

London Film Festival

"Wonderstruck " Todd Haynes

Trailer

trailer

Nella  1927 Rose (Millicent Simmonds), una bambina sordomuta e introversa, cresciuta nel New Jersey in una ricca famiglia, ma trascurata da suo padre, fugge di casa, per recarsi a New York dove vuole incontrare il suo idolo, la star del teatro e del cinema muto Lillian Mayhew (Julianne Moore). In seguito emerge che la donna meravigliosa che  ossessiona la sua mente e il suo cuore è sua madre,  ma anche che è concentrata sulla propria carriera. Nel 1977 Ben (Oakes Fegley), un ragazzino che abita nel Minnesota, e che non ha mai conosciuto suo padre, diventa improvvisamente orfano quando sua madre muore in un incidente. Anche lui, dopo essere stato colpito da un fulmine  è diventato sordo, pur avendo mantenuto la capacità di parlare. Un giorno  trova un  biglietto, un indizio della possibile esistenza di quel padre assente di cui sente un grande bisogno, e si reca a New York per rintracciarlo. In  epoche così diverse i due bambini intraprendono percorsi e avventure che li  portano entrambi a Manhattan e si ritrovano in luoghi strani e misteriosi, tra scoperte, silenzi, rimpianti, meraviglia e speranza. Le due  vicende procedono parallelamente, ma  successivamente troveranno una congiunzione grazie a un evento eccezionale. Todd Haynes si cimenta con  lo stesso autore  che ha scritto  il romanzo  trasposto sullo schermo da Martin Scorsese, Hugo Cabret (2011), un film che dimostra ben altra creatività, empatia con il  protagonista ed emozionante sviluppo narrativo. Purtroppo Haynes, celebrato regista di  opere memorabili, quali ad esempio Velvet Goldmine  (1998), Far From Heaven (2002), I’m Not Here (2007) e Carol (2015), in cui ha spaziato tra i generi, dimostrando intelligenza registica e  originalità estetica, realizza un film ricchissimo in termini di immagini, composizioni figurative, luci, colori, ricostruzioni d’epoca, scenografie e apparati (i diorami dell’Americasn Museum of Natural History e l’incredibile plastico “The Panorama of the City of New York” del  Queens Museum), musiche, con canzoni notissime, e la magnifica fotografia di Edward Lachman, ma viziato da un eccessivo manierismo. Certamente non bisogna dimenticare che anche I’m Not Here, geniale in virtù di un originalissimo espediente narrativo, è un film multiforme e scintillante, fantasmatico, circolare e “sperimentale”, tra dettagli studiati, preziosismi e virtuosismi, costruito per sorprendere e stordire con una densità “anarchica” e ambigua di referenze e di storie, ma non riesce ad appassionare perché è troppo marcante la sua impostazione freddamente concettuale. Peraltro Wonderstruck è davvero poco riuscito, nonostante le apparenze. Probabilmente Haynes, essendosi reso conto della scarsa consistenza e originalità della storia, ha puntato tutto su una messa in scena inventiva. Tuttavia la debolezza della trama letteraria e l’architettura poco originale e ripetitiva della sceneggiatura minano grandemente il progetto. Quindi la moltiplicazione dei piani narrativi ed estetici, la complicazione dei livelli di lettura, realistici e onirici, abbozzati e meccanici, l’enfatizzazione baroccheggiante di gesti, sguardi, illusioni e incanti e l’overdose musicale invasiva e incessante compongono un quadro di invenzioni visive e immagini meravigliose, ma sterili, che nascondono un’incapacità di dare significato vero e profondità riflessiva ai motivi della storia. New York, con i suoi luoghi “straordinari” visti con gli occhi dei bambini protagonisti, i sogni, le scoperte e le riflessioni sul tempo, sugli affetti e sulla memoria, diventano semplici suggestioni  giustapposte  le une alle  altre in un  quadro poco vivace, sterile e affatto appassionante.

London Film Festival

"Happy End" Michael Haneke

 

Happy End, dell’austriaco, radicato in Francia, Michael Haneke, è un eccellente  dramma - thriller, molto noir e beffardo. Propone il ritratto di un microcosmo in preda a un cortocircuito degenerativo: una famiglia  dell’alta borghesia della provincia francese, imprenditori e possidenti, di pubbliche virtù, ma con molti vizi segreti nascosti sotto una patina di stucchevole ipocrisia. Individui cinici e paranoici, incapaci di uscire dalla coazione a ferirsi e a ferire gli altri e sempre più consapevoli dell’irrimediabilità del male. La vicenda si svolge nel nord della Francia, tra Lille e  la costa atlantica del Pas de Calais, zona di  benpensanti e conservatori alle prese con il fenomeno di migliaia di immigrati africani e mediorientali ammassati in campi non organizzati in attesa di cercare di arrivare in Gran Bretagna. La famiglia in questione vive in una grande villa, dove spesso riceve decine di invitati.  È composta dal patriarca ultraottantenne Georges Laurent (Jean-Louis Trintignan), dalla figlia cinquantenne Anne (Isabelle Huppert), dal figlio Thomas (Mathieu Kassovitz),  chirurgo,  dal figlio degenere di Anne, Pierre (Franz Rogowski) e da Anaïs (Laura Verlinden), la seconda moglie di Thomas, madre di un neonato.

trailer Trailer

I domestici sono una coppia fidata e impeccabile di maghrebina.  La famiglia  possiede un’azienda di costruzione di edifici e grandi opere. Il crollo in un cantiere, che provoca il grave ferimento di un operaio, e il tentativo maldestro di  mettere a tacere i suoi parenti, innescano conseguenze finanziarie e legali che rischiano di  ridurre al collasso l’attività. Quindi si tratta discretamente con alcune banche britanniche per ottenere finanziamenti, con la mediazione di Laurence Brafshaw (Toby Jones), un avvocato della City londinese, fidanzato di  Anne, la vera manager degli affari della famiglia.  Nel frattempo, dopo il suicidio della madre (ma le  circostanze del tragico fatto si riveleranno più complicate e sconcertanti), la figlia di primo letto di Thomas, Eve (Fantine Arduin), una tredicenne bella e inquietante, perversa e sostanzialmente anaffettiva, si trasferisce ad abitare nella magione. L’inserimento nella grande famiglia non è facile per lei, e si creano screzi  con la seconda moglie del padre e poi una situazione insostenibile quando scopre che il genitore mantiene  una relazione extraconiugale. In breve Eve diventa il testimone della disgregazione delle relazioni familiari che si esprime con alcuni episodi  sconvolgenti e altri agghiaccianti. Pierre, il figlio di Anne, destinato a ereditare l’azienda ma riluttante e poco responsabile, è il ribelle, il provocatore incoerente mal sopportato, che destabilizza ulteriormente la situazione. Alcuni video sui social ci mostrano  una donna non identificabile e piccoli atti di crudeltà. Una chat line, di cui ci vengono mostrati i testi ma non chi li sta scrivendo, ci  porta a conoscenza di una storia clandestina e sessualmente estrema. La tensione sottilmente nutrita dai misteri irrisolti e da un’aspettativa di svolte imprevedibili e devastanti cresce gradualmente fino al memorabile epilogo durante un ricevimento nella grande villa dove Pierre, alticcio e vociante, si presenta in compagnia di un gruppo di immigrati africani che ha invitato. Haneke costruisce un ulteriore tassello nella sua magnifica filmografia. Happy End è un dramma asciutto e sarcastico, disturbante e molto incisivo, che non scade mai nell’ordinario melodramma. Propone un ennesimo studio quasi entomologico di caratteri, gestito con la consueta distanza emotiva, estremamente attuale (mette in scena video ripresi dal cellulare, youtuber impazziti, karaoke assurdi, scambi infuocati di sms e di messaggi Facebook volgari o sessualmente molto espliciti.) e spiazzante perché costellato di momenti glaciali, calibrate provocazioni intellettuali e rebus che sfidano gli spettatori, senza ricattarli emotivamente o tradirli. Haneke descrive un microcosmo claustrofobico con rigoroso realismo, a partire da una sceneggiatura, di cui come sempre egli stesso è autore, attenta a molteplici dettagli. E soprattutto si autocita ampiamente, in particolare riprende moyivi, approcci e sguardi contenuti nei precedenti The White Ribbon (2009) e Amour (2012). La narrazione è solo apparentemente “classica”, ma certamente essenziale e ricca di fili che si intrecciano. Happy End è un film rigoroso, di grande intelligenza, dove ogni immagine è costruita con precisione chirurgica. I piani esatti e concisi catturano con sistematica geometria i movimenti dei personaggi, fornendo immagini costruite con accuratezza matematica. La fotografia di Christian Berger è molto modulata e valorizza la luce naturale. Ne emerge un cinema intenso e palesemente inquieto, come alcuni film di Polanski, grottesco come certe opere di Buñuel, ma privo di ogni tentazione moralistica o didascalica. Haneke conferma di essere un autore che  può andare oltre il cinismo per prospettare allo spettatore la condizione umana nella sua concreta  a molto scomoda verità.

Zama, quarto lungometraggio dell’argentina Lucrecia Martel, adatta l’omonimo romanzo di Antonio Di Benedetto (1956), un classico della letteratura argentina del XX secolo. Si tratta di un period film che, con molta presunzione e stucchevole cifra estetizzante, racconta un dramma esistenziale tetro e claustrofobico, presentandolo come archetipo del colonialismo spagnolo in Sud America, attraverso un’ottica di manipolazione e di falsificazione. La vicenda si svolge in una remota colonia spagnola in una regione subtropicale del Sud America, nel tardo XVIII secolo. Il presidio militare e la sede del governatorato  sono ubicati in un piccolo centro polveroso, con edifici decrepiti. Nobili, ufficiali, hidalgos, funzionari, lacché, avventurieri, coloni poveri e indigeni schiavizzati o “liberati”, e  ridotti a servi, vivono in una promiscuità ben poco decorosa, in ambienti angusti e sordidi, nonostante permangono privilegi e una qualche separatezza per chi è al vertice della gerarchia sociale. L’ormai cinquantenne Don Diego de Zama (Daniel Giménez Cacho) è un criollo, vale a dire è nato in America. Ma è un ufficiale che ha sempre mostrato fedeltà alla corona spagnola, non è corrotto e ha mostrato dignità e valore nel corso dei lunghi anni di servizio.

 

London Film Festival

"Zama " Lucrecia Martel

Trailer

trailer

Tuttavia è ormai stremato e disilluso, anche perché subisce continuamente piccole umiliazioni da parte dei nobili e degli ufficiali  della colonia nati in Spagna. I suoi avversari, Ventura Prieto (Juan Minujín) e il capitano Hipólito Parrilla (Rafael Spregelburd) lo provocano continuamente e architettano trappole per farlo cadere in disgrazia.  Da tempo Don Diego attende di ricevere una lettera da parte del Re che autorizzi il suo trasferimento a Buenos Aires per ricongiungersi a sua moglie e ai figli. Ma passano le settimane e i mesi e da Madrid non arriva nessuna risposta. Forse le sue suppliche non sono nemmeno mai state scritte o inoltrate dal Governatore (Daniel Veronese), corrotto, permaloso e inaffidabile. La vita di Don Diego si consuma nell’attesa infinita e nella crescente consapevolezza dell’inganno, nonostante si mostri sempre più servile, mentre intorno a lui prosperano la corruzione e i conflitti di casta e si consumano soprusi, prepotenze e violenze. Solo gli indigeni amerindi, che pure vivono miseramente in povere capanne, vengono rappresentati incredibilmente, come individui silenziosi, passivi e indifferenti, ma visibilmente saggi e sprezzanti nei confronti di quei dominatori rozzi e debosciati. Un giorno Don Diego riceve l’invito a recarsi a casa della matura nobildonna Luciana Piñares de Luenga (Lola Dueñas), sensualissima e potente. Durante la lunga ed estenuante frequentazione  della nobildonna, che ha promesso di intercedere per lui, il protagonista viene sedotto e diviene ostaggio di quest’ultima, che, peraltro, non gli si concede mai e che alla fine lo tradisce, facendosi beffe di lui. Da quel momento Don Diego precipita in un vortice di paranoia e di lussuria, perdendo  la sua rispettabilità, tra illusioni, menzogne e miraggi.   Nel frattempo è anche perseguitato dal fantasma minaccioso di un bandito che non è riuscito ad arrestare: il perfido e spietato Vicuña Porto (Matheus Nachtergaele) che guida una banda di sadici rinnegati, spagnoli e meticci. Sono passati alcuni anni e don Diego, seppure esausto e malato, accetta l’ordine, impartito dal nuovo Governatore, di effettuare un’ultima rischiosa spedizione nelle regioni interne per catturare il bandito: spera ancora che, in caso di successo, gli venga accordato  l’agognato trasferimento, ma è destinato a fallire. Lucrecia Martel è una regista che ha dimostrato molto talento con il suo film di esordio, La Ciénaga (2001), che propone come centro narrativo le contraddizioni di due famiglie del ceto medio nella provincia settentrionale argentina  di Salta. Un’opera molto personale, sorprendente per radicalità e incisività e visivamente pregevole. L’atmosfera del film è claustrofobica, malata e morbosa. Vi è l’angoscia della solitudine, della fragilità della vita e della coscienza della decadenza e della morte. Vi è inoltre molta fisicità nella descrizione dei corpi disfatti degli adulti e di quelli feriti  dei bambini e nelle situazioni di desiderio represso o di sessualità inappagata. I personaggi si confrontano a partire da conflitti e sentimenti non risolti ed espressi con disagio, sofferenza, fatalismo, rabbia e reazioni nevrotiche, generando nello spettatore la sensazione di una tragedia imminente. E sullo sfondo  si osserva una natura minacciosa e opprimente e  si notano anche i conflitti sociali e razziali. Peraltro già con il suo secondo film, La niña santa (2004), Martel ha dimostrato  un regresso perché si tratta di un’opera molto elegante formalmente, al limite del manierismo, ma pasticciata e asfittica. La mescolanza di morale e senso di colpa cattolici, pruriti sessuali adolescenziali e ipocrisie degli adulti si risolve in una carenza di vera tensione drammatica e di profondità psicologica dei personaggi e risulta velleitaria e noiosa. Il successivo La mujer sin cabeza (2008),  ha segnato la netta involuzione della Martel, ormai approdata ad un narcisismo narrativo sterile, con deriva verso il fantastico, attraverso metafore banali ed enfatiche. L’esile trama narrativa  propone il ritratto di una quarantenne borghese che sembra presentare una disconnessione con la realtà a seguito di uno strano incidente stradale. Il film  si sostanzia in un chiacchiericcio inutile, tra personaggi vagamente surreali, fino al finale onirico e poco comprensibile che sembra annullare la falsa tensione costruita su un “negato” senso di colpa della protagonista. In sostanza è un pasticciaccio che vorrebbe coniugare, con una maldestra dimostrazione di estetica moderna, gli eccessi visionari di David Lynch, il genere thriller e la realtà ambientale della provincia di Salta. Zama ripropone formalmente molti aspetti della poetica cinematografica della Martel: la fascinazione per i corpi sfibrati o sofferenti, la fisicità morbosa,  il tormento psicologico, la lussuria tormentata, i conflitti morali, la relazione padrone - servo e la relazione con  la natura e il paesaggio, in questo caso incontaminato e opprimente al tempo stesso. Peraltro la involuzione della regista prosegue e si accentua, solo nascosta dalla ricercatezza formale  estetica e visiva, in un film d’epoca che ben si presta a questo scopo. La narrazione procede disgregata e tortuosa, appesantita da troppi episodi che si accavallano, ellissi, fuori campo e digressioni allucinate,  con una lentezza esasperante e pervasa da una persistente atmosfera morbosa di immobilismo, progressiva disgregazione, sconfitta e morte. La scansione drammatica è ondivaga, tra teatro dell’assurdo, bozzettismo e un’angoscia esistenziale mal definita e troppo impostata, e prevale una falsa tensione in cui abbondano divagazioni oniriche e fantastiche e dubbie metafore. La caratterizzazione psicologica dei personaggi, in primis l’antieroe Don Diego, è incerta e confusa. La messa in scena è caratterizzata da  una moltiplicazione di piani sequenza, da intensi tableaux vivants pittorici e da una ricorrente tendenza a inquadrare solo parti o porzioni dei corpi. Purtroppo non sono sufficienti la scenografia accattivante di Julio Suárez e i fantasiosi e curiosi costumi curati da Romina Azzigotti, improntati a una ricercata “estetica della sciatteria”, il complesso lavoro di inquadrature e la composizione di articolati piani visivi, nonché la pregevole fotografia di Rui Poças e la ricercata elaborazione sonora a cura di Guido Berenblum per riscattare un film confuso e  pretenzioso. Zama risulta quindi ben lontano dai due film “storici” di Albert Serra, Historia de la meva mort (2013) e La mort de Louis XIV (2016), opere che, al contrario, mostrano una rara e occulta profondità filosofica,  mettono intelligentemente alla berlina il “Secolo dei Lumi”, la religione e i riti, soprattutto quelli del potere e sono profanatorie, ma nascono da un approccio rigoroso, insistito e crudele, appena velato di patetismo, e, soprattutto evitano qualsiasi tentazione aneddotica o positivista o elegiaca nella rappresentazione del potere. Al contrario il film della Martel da un lato alterna e mescola i più svariati registri e prospetta soluzioni  drammatiche poco credibili, dall’altro propone una rilettura del colonialismo ideologica e moralistica,  fantasiosa, superficiale, grottesca e sostanzialmente falsa, in cui gli indigeni amerindi sono mitizzati e i colonizzatori spagnoli sono corrotti, stupidi e moralmente indegni e destinati al disfacimento. Un’operazione che ricorda un altro film, Joaquim (2016), del brasiliano  Marcelo Gomes, che racconta la storia di Joaquim José da Silva Xavier, denominato Tiradentes, un personaggio che mostra punti di contatto con Don Diego, ma con un destino diverso, ed appartiene allo stesso periodo storico, rappresentato attraverso una lettura ideologica del colonialismo (in questo caso quello portoghese in Brasile) ugualmente mistificante e grottesca.

London Film Festival

"120 battements par minute" Robin Campillo

 

120 battements par minute, terzo lungometraggio del francese Robin Campillo propone un viaggio nei primi anni ’90 e nelle battaglie portate avanti da Act Up – Paris. Si tratta di un gruppo di malati e sieropositivi da HIV impegnato a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della lotta all’Aids e della prevenzione, sottolineando le scarse politiche portate avanti dal governo, dal sistema di sanità pubblica e dalle case farmaceutiche. Campillo combina realismo simildocumentarista e melodramma struggente. È un’opera a tratti interessante ma squilibrata, più  efficace quando mette in risalto il collettivo che quando si perde dietro le storie personali  degli attivisti. Nel corso del film l’aspetto realmente politico va via via disperdendosi in rivoli narrativi prevedibili e semplicistici, per lasciar posto alla storia d’amore “classica” trai due protagonisti principali, Sean (Nahuel Pérez Biscayart) e Nathan (Arnaud Valois), tratteggiata con asciuttezza, e senza ricorrere a  fastidiosi climax emotivi.

trailer Trailer

Jeune Femme, opera prima della francese Lèonor Serraille, offre il ritratto concitato, verboso e del tutto artificioso di una trentunenne che si aggira nelle strade di Parigi, apparentemente incurante degli altri, ma pronta ad assediarli e a sfruttare a proprio vantaggio  la loro disponibilità. Nel corso del repentino incipit Paula (Laetitia Dosch, in un’interpretazione costantemente stereotipata e sopra le righe), di ritorno a Parigi dopo una lunga assenza, tenta di insediarsi in un appartamento dove aveva vissuto con il suo ex fidanzato, che ne è il proprietario. Tuttavia non si rassegna e torna più volte a perseguitarlo finché la polizia la obbliga a desistere. In breve si apprende che non sa dove alloggiare, ha perso il lavoro, non ha soldi ed è reduce dal funerale della madre. Con l’unica compagnia del suo gatto, che trasporta sottobraccio, percorre senza meta  i quartieri della città, sbraita,  ripete la sua sofferenza, dichiara di odiare Parigi e la Francia e importuna gli sconosciuti con siparietti eccentrici e penosi. La prima notte si paga una stanza in un alberghetto, poi trova sistemazioni di fortuna.

 

London Film Festival

"Jeune Femme" Lèonor Serraille

Trailer

trailer

Chiede favori a personaggi improbabili, si offre come babysitter e si improvvisa commessa in un negozio di biancheria intima femminile, ma viene nuovamente cacciata a causa della sua non affidabilità. Un giorno sospetta di essere incinta e da  quel momento ne attende tranquillamente la conferma. Léonor Serraille costruisce un irritante e presuntuoso esercizio di stile. Sembra sposare pienamente la “nuova” moda di certi cenacoli intellettuali e della critica cinematografica francese che predicano il superamento del naturalismo attraverso una vigorosa  rottura stilistica, con esasperazione dei toni a livello di messa in scena e di interpretazione. La narrazione apparentemente leggera e vagamente schizofrenica, ma in realtà del tutto studiata, procede con toni nervosi ed eccitati, tallonando la protagonista, costantemente isterica e apparentemente vittimista, ma, alla prova dei fatti, egoista e parassitaria. Tra incontri fortuiti, piccole truffe e inganni, aggressioni verbali e fisiche, litigi furiosi e autocoscienza velleitaria, questo diario di giorni persi si avvita su sé stesso. E la frettolosa non conclusione, che  lascia intravedere una poco credibile nuova coscienza di sé da parte della protagonista, ormai rasserenata, non è tanto spiazzante, quanto rivelatrice della fragilità e della pretenziosità di tutto l’espediente narrativo. Quindi il  film  appare  per di più del tutto disonesto nei confronti dello spettatore che viene provocato e manipolato, senza garantirgli alcun vero coinvolgimento. Per non parlare della qualità artigianale delle inquadrature, dell’uso compulsivo e inefficace della telecamera a mano e della fastidiosa colonna sonora che alterna brani post punk e musica elettronica. Solo la fantasiosa malafede di certi critici ha potuto sproloquiare  circa uno spirito alla Truffaut che animerebbe Lèonor Serraille, mentre altri hanno inneggiato al personaggio della protagonista e alla multiforme attrice che lo interpreta quali icone del nuovo femminismo.

Commentiamo quindi altri interessanti film d’autore, più o meno riusciti, presenti nelle sezioni tematiche non competitive.

London Film Festival

"Beauty and the Dogs (Aala kaf ifrit) " Kaouther Ben Hania

 

Beauty and the Dogs (Aala kaf ifrit), opera seconda della tunisina Kaouther Ben Hania, è un dramma con forti connotazioni di critica sociale, ispirato da fatti reali.  È l’adattamento  del pamphlet cronachistico autobiografico “Coupable d’avoir été violé “ (2013) di Meriem Ben Mohamed, scritto con la collaborazione di Ava Djamsidi. Racconta la terribile odissea di una ventenne piccolo borghese, violentata da due poliziotti, che ha deciso di denunciarli. Un incubo che si  condensa in una notte di settembre del 2012, a La Marsa, una zona balneare residenziale non lontana da Tunisi, tra Rawâd e Cartagine. Quella sera Mariam (Mariam Al Ferjani) partecipa a  una festa danzante organizzata da un gruppo di studenti in un ristorante e conosce il trentenne Youssef (Ghanem Zrelli). I due simpatizzano e si soffermano in auto impegnati in tenere effusioni. Sorpresi da una pattuglia di poliziotti, mentre l’uomo viene allontanato, Mariam viene ripetutamente violentata. Ma allo spettatore viene mostrato solo il prima, il party, e il dopo, quando Mariam racconta il tragico. E, nel corso della notte, gli eventi verranno più volte commentati, fraintesi e manipolati nella loro descrizione.

trailer Trailer

Nonostante lo shock, la protagonista si reca, insieme a Youssef, in una clinica privata e in seguito in un ospedale pubblico e chiede di essere visitata per ottenere un certificato che documenti la violenza subita. Ma viene sballottata da uno specialista all’altro e, con la scusa di vari inghippi burocratici, non ottiene nulla. Poi,  convinta dal compagno, entra con lui in un commissariato di polizia.  Gli agenti di turno iniziano a mettere in dubbio la sua testimonianza e poi minacciano di  incriminarla perché indossa vestiti considerati offensivi per il pudore, la morale, la religione e la legge e la avvertono che avviseranno suo padre. Solo una donna poliziotto sembra crederle, ma, dopo varie lungaggini, alla fine non raccoglie la sua denuncia. Poi, ad un certo momento, Mariam riconosce l’auto dei suoi violentatori perché vi scorge all’interno la borsa che pensava di aver smarrito. Urlando cerca di ottenere giustizia, ma la cricca dei poliziotti fa fronte comune con i rei, che hanno persino filmato lo stupro con un cellulare, e, tra minacce e blandizie, gli agenti cercnoa di  non ottemperare alle procedure necessarie. Kaouther Ben Hania suddivide la narrazione in nove capitoli, ognuno dei quali è filmato con un unico piano sequenza. Tuttavia, nonostante il tentativo di un efficace registro documentaristico, con uso della stedycam che tallona i personaggi, la messa in scena è piuttosto grossolana. Prevalgono i toni concitati, le ripetizioni, gli stereotipi e una recitazione naturalistica abbastanza mediocre. Ne risulta che si incrina la forza di un film necessario, sia per illustrare la condizione femminile in Tunisia, sia  per raccontare un apparato di polizia che continua ad agire con odiosi abusi e persecuzioni come nell’epoca di Ben Ali, grazie alla accondiscendenza del partito islamico “moderato” Ennahda (Movimento della Rinascita) giunto al potere dopo la fine della la rivoluzione che ha posto fine alla dittatura.

A Ciambra, opera seconda dell’italo-americano Jonas Carpignano, racconta una storia drammatica di formazione, impregnata di genuino realismo antropologico. È ambientata in Calabria nel territorio difficile della costa tirrenica, tra Gioia Tauro e Rosarno, in cui convivono italiani e immigrati e rifugiati africani e dove la ‘ndrangheta condiziona pesantemente la vita quotidiana. Il titolo del film viene dalla  denominazione di una comunità di rom di Gioia Tauro. Il protagonista è Pio (Pio Amato, che interpreta sé stesso) un quattordicenne di etnia rom che vuole crescere in fretta, bruciando le tappe: beve alcolici, fuma e si muove con destrezza compiendo truffe, scippi, furti con scasso e sequestri di auto, restituite solo dopo aver ottenuto “un riscatto” in denaro. Ribelle alle regole e alla legalità, audace, cinico e ingenuo al tempo stesso, segue le orme del fratello maggiore Cosimo che  gli insegna i trucchi del mestiere.

 

London Film Festival

"A Ciambra, opera seconda dell’italo-americano " Jonas Carpignano

Trailer

trailer

Quando quest’ultimo viene arrestato, Pio si impegna per dimostrare alla famiglia, al padre Rocco, alla madre Iolanda, al vecchio nonno e  ai numerosi fratelli, sorelle, cugini e nipoti, che lui è in grado di prenderne il posto e di procurare il denaro necessario per vivere. Traffica con gli africani che sono i ricettatori delle merci che ruba e che lo accolgono con simpatia nel loro ambito: una svolta narrativa davvero troppo forzata e al limite dell’inverosimile. Tuttavia il peso del  ruolo e contingenze nuove e decisive obbligano Pio a compiere una scelta sofferta e lacerante, che sancisce la sua resa morale e il conformismo rispetto a regole ataviche della sua comunità. Carpignano, che vive proprio nel territorio dove ha girato il suo film, mostra un  interessante approccio documentaristico, con uno sguardo attento a una quotidianità in cui convivono vitalismo e rassegnazione e un continuo pedinamento del suo protagonista, presente in quasi tutte le scene, e  provvede un variegato apporto degli idiomi delle varie comunità coinvolte nel film. Ma poi, come già nella sua precedente opera di esordio, Mediterranea (2015), si rifugia negli stereotipi e  indulge in lungaggini e detours. Non riesce a gestire in modo del tutto convincente, né narrativamente, né esteticamente, la precipitazione drammatica della saga familiare che finisce per perdere progressivamente secchezza, vigore e credibilità. In effetti, purtroppo, si  assiste a una deriva confusa in cui convivono dilemmi morali, artificiose ed eccessive parentesi immaginarie e oniriche, cadute sensazionaliste e troppi finali affastellati, sulla traccia negativa degli ultimi film dei fratelli Dardenne e di Audiard. Anche a livello stilistico si notano aspetti negativi di una presa diretta, a tratti davvero esibizionistica: l’uso compulsivo e smodato della camera a mano, con inquadrature schiacciate sul protagonista troppo spesso inefficaci; la colonna sonora con ridondanti e mal gestite intrusioni di brani neo melodici, rap e folk; un montaggio approssimativo e grossolano, curato da Affonso Gonsalves.  Peccato perché i protagonisti, tutti non attori, sono abbastanza credibili e sono  ritratti con sincera empatia.

London Film Festival

"April’s Daughter " Michel Franco

 

April’s Daughter (Las hijas de Abril), quinto lungometraggio del messicano Michel Franco, è un melodramma  centrato sulla relazione ambigua e distruttiva fra una madre e sua figlia, in un quadro di desideri e sentimenti ossessivi e morbosi. La vicenda riguarda individui della classe media messicana, quantunque la loro perdita di status, da loro stessi minimizzata o negata, sia appena accennata. La diciassettenne Valeria (Ana Valeria Becerril) vive con la sorella maggiore Clara (Joanna Larequi) a Puerto Vallarta, una cittadina  che si affaccia sul Pacifico, nella regione centrale del Messico. È rimasta incinta e si trova in difficoltà anche perché il suo boyfriend, il  quasi coetaneo Mateo (Enrique Arrizon), si dimostra piuttosto immaturo e  incapace di affrontare le nuove responsabilità. Nonostante abbia bisogno di sostegno e aiuto finanziario, ha deciso di non comunicare la notizia a Abril (Emma Suárez), sua madre che non vede da tempo e che considera inaffidabile. Ma sua sorella Clara, infastidita dalla situazione e preoccupata dal fatto che il suo stipendio di impiegata sia insufficiente per  le ovvie contingenze future, avvisa la madre.

trailer Trailer

Abril, una donna divorziata, ancora attraente, nonostante sia alle soglie dei 50 anni, accorre prontamente. Si dimostra comprensiva e disponibile e, poco a poco, prende in mano la gestione della vita di Valeria. Si intuisce subito che già nel passato vi sono state tensioni tra le due donne, ma la situazione precipita dopo che  Valeria ha partorito suo figlio. Abril, che pare nascondere una condizione di psiconevrosi ossessiva, stabilisce una  rapporto particolare con Mateo, giungendo infine a sedurlo e a coinvolgerlo in una relazione clandestina, trasformandolo nel suo amante. Quindi, avendo praticamente plagiato il giovane, per  interrompere il suo legame con Valeria, la donna costringe  quest’ultima a firmare una richiesta di adozione del neonato. Quando infine  la figlia si rende conto della coercizione subita e  vuole recedere  per non perdere il bambino, Abril cerca di sottrarglielo con la forza. Fino al tragico show down finale. Il tema ricorrente nel cinema di Michel Franco è quello delle relazioni contrastate all’interno della famiglia, che configurano evoluzioni disgreganti, altamente drammatiche e in alcuni casi persino con tinte horror. In  particolare la sua opera seconda Después de Lucía (2012), è appunto un dramma familiare centrato  sulla relazione tra un padre vedovo e la figlia diciassettenne sottoposta a un mobbing psicologico e sessuale da parte di compagni di classe, di famiglie benestanti, presuntuosi, volgari e inaffidabili. In questo film Franco ha costruito con cura una tensione vivissima, privilegiando però un’ottica di osservazione documentarista, largamente priva di intenti di manipolazione dello spettatore per stimolare “emozioni forti” ed evitando sia lo psicologismo di maniera, sia la condanna moralista. Peraltro già il successivo Chronic (2015), cronaca  della quotidianità di un infermiere addetto alle cure domiciliari di malati terminali con finale banalmente tragico, è un’opera sconcertante e detestabile proprio per una messa in scena asettica che offre un’immagine narcisistica della morte. April’s Daughter è un film molto pretenzioso e sensazionalista, viziato da uno psicologismo deleterio. Si tratta sostanzialmente del ritratto di una femme fatale, lucidamente cinica ed egoista, che finisce per scalzare completamente la dialettica familiare, in quanto gli altri personaggi diventano progressivamente inconsistenti. Senza dubbio Franco, già a partire dalla scrittura del film, si propone una narrazione che accumula momenti e situazioni forti e svolte ad effetto, mentre i personaggi sono evidentemente e intrinsecamente apatici e / o antipatici. Tuttavia i picchi di tensione e i capovolgimenti sono così numerosi e intricati che tendono ad annullarsi e comunque depotenziano lo sviluppo drammatico della storia. C’è il rapporto tra la madre e la figlia, in cui la donna matura sembra voler rubare la giovinezza a quella più giovane per riviverla, la posizione spiazzante delle due sorelle, il ruolo del fidanzato di Valeria, una nascita e l’irresponsabilità di tutti di fronte al neonato. Franco giustappone tutti questi temi e ne accenna altri, senza approfondirli o sfruttarli, mostrando una logica da sofisticata telenovela. La messa in scena, che privilegia piani sequenza prolungati e inquadrature dei personaggi quasi sempre da  una certa distanza, anche negli huis clos claustrofobici, con complessi giochi di messa a fuoco, conferma una deriva di  esibizionismo autocompiaciuto.

Sicilian Ghost Story, opera seconda di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, è una favola nera, ispirata da un fatto vero, un terrificante delitto della mafia. Il 23 novembre 1993, il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso pentito Santino Di Matteo, fu rapito dalla fazione dei corleonesi di Cosa Nostra, comandata da Giovanni Brusca, con lo scopo di  bloccare la collaborazione delatoria dell’uomo con la magistratura. Ma Santino non  interruppe  le sue confessioni e Giuseppe  venne tenuto prigioniero dalla mafia, essendo sottoposto a una dura detenzione per 779 giorni. Poi venne strangolato e il suo corpo fu dissolto nell’acido. Per raccontarne la storia, Grassadonia e Piazza hanno scelto un espediente narrativo: l’adozione di un personaggio fittizio, l’adolescente Luna, preso in prestito dal racconto intitolato “Un cavaliere bianco”,  compreso nel  libro “Non saremo confusi pere sempre” (2011), di Marco Mancassola, in cui realtà e fantasia si mescolano per rileggere fatti famosi e drammatici della cronaca italiana. La vicenda viene quindi ambientata in un paese siciliano ai margini di un grande bosco e Luna (Julia Jedlikovska) ne diventa la protagonista. È una compagna di scuola di Giuseppe (Gaetano Fernandez) e ne è profondamente innamorata. 

 

London Film Festival

"Sicilian Ghost Story" Fabio Grassadonia, Antonio Piazza

Trailer

trailer

I due tredicenni si sono dichiarati da pochi giorni e hanno iniziato a frequentarsi come fidanzatini quando un pomeriggio, all’improvviso, Giuseppe scompare misteriosamente senza lasciare alcuna spiegazione. Luna  scorge l’auto che lo porta via e non si dà più pace. Da quel momento si ribella alla diffusa omertà e ai tentativi dei suoi genitori di ridurla al silenzio. Inizia una campagna di denuncia in classe, ma i compagni la deridono e gli insegnanti reprimono le sue rimostranze. Quindi giunge persino a introdursi nella casa di Giuseppe, ma  non ottiene alcuna  solidarietà o risposta dalla madre del ragazzino chiusa in un cupo dolore. Nel frattempo, spinta dal bisogno interiore di trovare Giuseppe, riesce a “comunicare” irrazionalmente con  lui, sognando  che sia prigioniero in una casa nel bosco, e  immagina l’estremo dolore che lui prova e la barbarie a cui viene sottoposto. Nelle sue visioni il suo amato giace in un  mondo oscuro, tra nebbie e presenze inafferrabili, e la via di accesso per ritrovarlo passa attraverso  un lago sotterraneo in cui ci si deve tuffare. Il film ribadisce continuamente che si tratta di una storia di fantasmi e di un amore indistruttibile. La trama  si infittisce e si disperde, affastellando fatti, suggestioni e visioni e ripetendo più e più volte scene e posture estetiche.  Tra  reiterazioni e grossolane provocazioni visive si suggeriscono vari finali, fino a suggellare un epilogo ambiguo e pseudo consolatorio. L’idea iniziale di Grassadonia e Piazza è indubbiamente stimolante e affascinante, ma, purtroppo, viene quasi completamente vanificata. I difetti principali del film risiedono nella scrittura deficitaria  e nelle incongruenze narrative  che portano a gestire malamente l’opposizione tra reale e fantastico e  che depotenziano la deriva onirica  per approdare a un esito  didascalico di corto respiro. Pur essendo noto che i due registi amano mescolare i generi e le citazioni cinefile (come è avvenuto in Salvo, il loro film di esordio del 2013, non privo di difetti, ma senz’altro più riuscito rispetto a quest’ultimo), in Sicilian Ghost Story il tentativo di affiancare dramma adolescenziale goticheggiante e barocco, ritratto  educativo al femminile e film di mafia, appare confuso e contraddittorio. Sia  a livello narrativo, con dialoghi mediocri, ma anche a livello estetico, laddove prevale spesso un virtuosismo formalista di movimenti di macchina fine a sé stessi e si viene a sprecare l’ausilio della fotografia di qualità di Luca Bigazzi.

London Film Festival

"Good Time" Benny e Josh Safdi

 

Good Time, dei fratelli americani  Benny e Josh Safdie, è un poliziesco urbano sporco, concitato e allucinato, contaminato da un amaro dramma esistenziale intriso di disadattamento sociale e nichilismo. Tutto concentrato in meno di 24 ore, in una corsa febbrile e convulsa per far sopravvivere l’indissolubilità del legame di sangue e non per garantirsi un futuro che è scomparso da tempo. Un film che rielabora e rilancia un tipico topos americano: la figura del loser. E al tempo stesso cita e “copia” a piene mani  il cinema radicale dei registi della cosiddetta New Hollywood degli anni ’70 e dei primi anni ’80, con astuzia e  perizia, ma senza grande originalità. L’incipit del film è velocissimo, vigoroso e spiazzante: una rapina finita male e i due autori del colpo irrimediabilmente separati. L’azione si svolge nei bassifondi di una New York lisergica e desolata, la città di oggi che peraltro ricorda strettamente quella degradata di una quarantina di anni fa, tra drugstores, casermoni anonimi, parcheggi, junkies,  ladruncoli, prostitute e poliziotti insoddisfatti e truci. Sono due fratelli legatissimi, pronti a tutto perché alieni a ogni forma di responsabilità, ma anche di pessimismo.

trailer Trailer

Connie (Robert Pattison, particolarmente credibile ed efficace nel ruolo del non eroe schizzato) è un quasi trentenne alla deriva, con precedenti per reati vati, dedito all’uso di ogni tipo di sostanze psicotrope, specie eccitanti, senza  lavoro e senza soldi, con una famiglia a pezzi, eccetto la nonna che ormai lo tiene a distanza. L’unico che lo ama profondamente, essendone totalmente ricambiato è il fratello minore Nick (Benny Safdie, uno dei due registi), un  corpulento ventenne ingenuo, affetto da ritardo mentale e forse da lieve autismo. Connie vuole offrirgli le migliori cure e una sistemazione decente per toglierlo dalla strada e dalle topaie dove sono costretti ad abitare. Quindi organizza una rapina ad una piccola banca, che dovrebbe essere facile e se lo trascina dietro. Ma i due, eccitati e impacciati oltre misura, compiono un errore banale. Connie riesce a fuggire, mentre  il fratello minore viene catturato dalla polizia, massacrato di botte e ricoverato in un ospedale, essendo sorvegliato a vista. Connie non si dà pace e inizia una  corsa contro il tempo per  riunirsi con Nick ad ogni costo. Nel corso di una notte di lucida follia si muove senza un piano, ma sorretto da intuizioni e rischiosissimi azzardi, in una girandola frenetica di, peregrinazioni, equivoci e scambi di persona. Dapprima sequestra uno sconosciuto, preso a caso in una grottesca imboscata, lo costringe a tornare al suo appartamento e lo sevizia per estorcergli i dollari necessari a pagare la cauzione  per far tornare libero Nick. Ma ottiene solo una piccola somma insufficiente e per di più tutto  combina un tragico disastro. Quindi si trova invischiato in ogni genere di guai ed è costretto a una fuga  mozzafiato che lo vede anche protagonista acrobatico di un pazzesco gioco in cui è il topo inseguito dai gatti all’interno di un  luna park. Una lunga immersione nel baratro, piena di suspense adrenalinica, unica vera sequenza memorabile del film, quantunque citazione rivisitata da The Warriors (1979), di Walter Hill. A questo punto Connie decide  di attuare   la mossa più rocambolesca e disperata: far evadere Nick dall’ospedale e fuggire insieme in Virginia. Ovviamente, dopo una serie di ben orchestrate situazioni al limite, avviene il sanguinosa epilogo, durissimo, senza speranza e struggente.  Benny e Josh Safdie sono due giovani registi indipendenti che si sono fatti le ossa (specie il trentenne Josh, già autore in 15 anni di cortometraggi, documentari e di un paio di gustosi lungometraggi mumblecores presentati alla Quinzaine) nell’ambiente underground newyorkese, ben lontani da un certo cinema auto compiaciuto, che non prende rischi, di Hollywood e dintorni. Dopo  il loro  primo film diretto insieme, Heavens Knows What (2014), un piccolo melodramma di drop outs, dimostrano ancora una volta la vitalità del cinema indipendente della East Coast, quello di Kevin Smith, Richard Kelly, Sean Baker, Craig Zobel, Andrew Dosunmu e molti altri. Realizzano un’opera indubbiamente significativi perché dimostrano di saper coniugare un immaginario nutrito da avida cinefilia e una perfetta conoscenza dei canoni del genere con una genuina sensibilità per l’osservazione antropologica e il ritratto sociale, rielaborati secondo suggestioni del cinéma vérité.  La messa in scena energica, stilizzata e visivamente fantasmagorica è del tutto matura e riesce a modulare perfettamente l’intreccio di registri, esistenziale, melodrammatico e noir, con accenti action e persino horror. Benny e Josh Safdie evitano detours inutili e le trappole dello psicologismo e della retorica didascalica e mostrano una speciale empatia con i loro due protagonisti. Il vero grande problema di Good Time è che il film è una riedizione (non il remake, ma lo stesso film in termini di tipologia  socio -  antropologica e  “culturale” e  di qualità e contesto della storia) aggiornata alla nostra epoca, ma rivestita di affascinante impronta nostalgica, di un capolavoro inarrivabile: Dog Day Afternoon (1975), di Sidney Lumet. In aggiunta vi sono le tante citazioni e i”furti” da opere precedenti, dal famoso After Hours (1985) di Martin Scorsese ai film di Michael Mann, di Robert Zemeckis e di molti altri filmmakers americani di b-movies degli anni ’70 e ’80.

L’equilibrio, sesto lungometraggio di finzione di Vincenzo Marra, è un dramma esistenziale con forte valenza sociale e politica. Don Giuseppe (Mimmo Borrelli), un sacerdote campano quarantenne già missionario in Africa, è il parroco di un quartiere di Roma. Accortosi che  la consuetudine e la simpatia per una operatrice umanitaria del centro di accoglienza prospiciente la parrocchia possono mettere a rischio la sua fede, chiede al vescovo della sua piccola diocesi (Paolo Sassanelli) di essere trasferito in un comune della sua terra d’origine. In breve la sua petizione viene accolta e approda in un piccolo  comune della provincia di Napoli. Qui Don Giuseppe  deve assumere l’incarico di parroco di un quartiere popolare, ricoperto fino ad allora da Don Antonio (Roberto Del Gaudio),  personaggio apparentemente molto autorevole, apprezzato e benvoluto da tutti i fedeli per la sua eloquenza e perché combatte una battaglia aperta contro il  deposito e l’interramento illegale di rifiuti tossici, una piaga di quella zona. Don Antonio, dopo aver retto la parrocchia per quindici anni, verrà trasferito a Roma per meriti acquisiti e prima di partire, porta a conoscenza Don Giuseppe circa la difficile realtà sociale del quartiere, dove le case sono disastrate, i servizi carenti e vi sono molti disoccupati, anziani poveri e tossicodipendenti.  

 

London Film Festival

"L’equilibrio" Vincenzo Marra

Trailer

trailer

Tuttavia, fin dai primi giorni nel suo nuovo incarico, Don Giuseppe  percepisce l'ostilità di suor Antonietta (Autilia Ranieri), già fidata collaboratrice di Don Antonio e responsabile di gran parte delle attività svolte in parrocchia, la quale non apprezza affatto l’attivismo del nuovo  prete che, cercando di aiutare i suoi parrocchiani più a disagio, si impegna a indagare le cause di molte ingiustizie che gli vengono palesate e ad aiutare con ogni mezzo chi le sta subendo. Poco a poco Don Giuseppe scopre la vera realtà: il quartiere è sotto scacco  a causa della presenza e delle attività della camorra che domina grazie alla diffusa omertà e alle collusioni che coinvolgono persino la polizia del posto. Nonostante  la coscienza dei rischi che corre, soprattutto quando cerca di far redimere un giovane spacciatore di droga, il protagonista evita di sottrarsi alle conseguenze delle proprie azioni  anche dopo aver ricevuto gravi minacce e aver subito un pestaggio selvaggio, attuato da due sgherri dei capobastone. Non desiste e si mostra determinato, tenace e coraggioso, non accettando alcun compromesso e  quindi arrivando a turbare l’equilibrio malsano tra l’arroganza incontrastata della criminalità e l’accettazione  rassegnata  e passiva della situazione da parte della comunità che la subisce. In breve  deve decidere se lasciarsi coinvolgere dai problemi che affliggono i parrocchiani o "farsi i fatti propri", come lo invitano a fare coloro che collaborano a vari livelli con la malavita locale e persino Don Antonio, il quale,  tornato per una breve visita, lo redarguisce aspramente accusandolo di agire perché accecato dall’orgoglio. Ma Don Giuseppe capisce che lo stesso Don Antonio ha operato sempre senza scontrarsi con i boss camorristici o favorendoli. Tra l’altro conosce Assunta (Francesca Zazzera), una giovane donna che nasconde un doloroso segreto: la sua bambina è vittima degli abusi sessuali di un padre violento che è uno dei delinquenti usati e protetti  dalla camorra. Nonostante il proprio impegno, Don Giuseppe si trova a  venire isolato non solo dai parrocchiani spaventati dalle conseguenze esiziali della sua  iniziativa giustizialista, ma alla fine  viene  anche redarguito, e sostanzialmente sconfessato dai vertici della Curia vaticana,  del tutto restii  a essere coinvolti in uno scontro con la camorra e deve andarsene. Vincenzo Marra propone un tema interessante e mostra un approccio diretto e abbastanza originale raccontando la parabola  della sconfitta eroica di un sacerdote campano chiamato ad affrontare da solo una battaglia contro la criminalità. Un uomo animato da genuino spirito umanitario e cristiano e anche  da motivazioni di coerenza e di riscatto personale, che apprende a confrontarsi con soprusi di ogni genere e con problematiche tragiche,  miserabili e pericolose, pur con dubbi, incertezze e tentazioni. Da un lato si deve riconoscere al regista, anche autore della sceneggiatura, di aver limitato fortemente gli accenti retorici e didascalici, grazie a una scrittura ben articolata e a una precisa conoscenza della problematica sociale e politica, fattori che accrescono la credibilità della storia. Dall’altro lato si nota un’incerta caratterizzazione psicologica del protagonista e del suo “percorso cristologico” e l’accumulazione di motivi secondari tratteggiati troppo superficialmente (la figura dell’operatrice innamorata di Don Giuseppe, il personaggio di Suor Antonietta e quelli di altri parrocchiani), che squilibrano parzialmente la scansione narrativa e drammatica del film, depotenziandone  in parte l’impatto emotivo sull’audience. Inoltre la messa in scena, che pure è significativa perché il film è girato fondendo 90 piani sequenza ed evita accuratamente gli accenti sensazionalisti, appare in  alcuni momenti troppo semplicistica. In effetti sconta un approccio certamente forte e incisivo, ma in parte controverso, tra realismo documentaristico non sempre puntuale ed efficace, alcuni  stilemi prosaici e denuncia troppo preoccupata di seguire un percorso noto e scontato, con qualche eccesso di politically correctness.  E ancora, si deve rilevare una direzione del cast, in cui sono presenti molti attori non professionali, che in parte  lascia spazio agli stereotipi e  un’interpretazione di Mimmo Borrelli in chiaroscuro.

London Film Festival

"My Generation" David Batty

 

My Generation, del britannico David Batty, presentato e commentato da Michael Caine, in forma smagliante e molto dedicato, propone un ricchissimo  ritratto d’epoca. Il tema è quello dell’impatto della working class nella rivoluzione culturale, nel costume, nelle arti, nel cinema, nella moda, nel design e nella società britannica durante gli anni ’60. Caine, nato anche lui in una famiglia  della lower class, commenta in modo appassionato e arguto l’emergere di molti giovani talenti con origini proletarie in un contesto sociale fino ad allora dominato dalla upper class borghese e da un asfissiante conservatorismo perbenista. Nel corso di una lunga carrellata di footage e interviste vengono presentati artisti e personaggi iconici: Marianne Faithful, Paul McCartney, Twiggy, Mary Quant, David Bailey e molti altri. Fatti e atmosfere della “swinging London” vengono rievocati con un ritmo narrativo vivace sulle note di band entrate nella storia, di cui si ricordano le origini: The Beatles, The Rolling Stones, The Kinks e The Who.

trailer Trailer

Lo stesso  Caine racconta diffusamente aneddoti ed episodi dell’inizio della propria carriera, introducendo anche notizie e riflessioni sul cinema britannico dell’epoca caratterizzato da un nuovo boom, con registi quali Ken Russell e Joseph Losey e attori quali Vanessa Redgrave, David Hemmings e Dirk Bogarde e il travolgente fenomeno della serie di film  di spionaggio con protagonista l’agente 007. Sono i ricordi indelebili di un’epoca irripetibile ricostruita attraverso un itinerario essenziale, coinvolgente ed emozionante rouge

 

 

px

px

61. LONDON FILM FESTIVAL, BFI

info

4 - 15 / 10 / 2017

BFI London Film Festival

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

BFI London Film Festival 2015

link

bfi
px
Home Festival Reviews Film Reviews Festival Pearls Short Reviews Interviews Portraits Essays Archives Impressum Contact
    Film Directors Festival Pearls Short Directors           Newsletter
    Film Original Titles Festival Pearl Short Film Original Titles           FaceBook
    Film English Titles Festival Pearl Short Film English Titles           Blog
                   
                   
Interference - 18, rue Budé - 75004 Paris - France - Tel : +33 (0) 1 40 46 92 25 - +33 (0) 6 84 40 84 38 -