"Il MedFilmFestival, il pù antico Festival internazionale che si svolge a Roma e unioca rassegna cinematografica italiana dedicata al cinema dei Paesi del Mediteraneo e dell’Europa, con incursioni anche nel Medio Oriente e nel Maghreb, nasce nel 1995 in occasione del Centenario del Cinema e della Dichiarazione di Barcellona. Il Festival esprime una mission ben definita: opera per la promozione del dialogo interculturale e la cooperazione commerciale tra l’Europa ed i paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente, attraverso il cinema di qualità e gli audiovisivi, finestre aperte sul mondo per riconoscere e apprezzare la diversità come un valore e la cultura come volano per l’economia. I suoi obiettivi promozionali, che influenzano la selezione dei film proposti sono i seguenti: la tutela dei diritti umani e il dialogo interculturale; l’educazione e la formazione dei giovani in ambito socio-culturale; la lotta al razzismo e alla xenofobia; la promozione e la diffusione della cultura europea e mediterranea. Si tratta di una vetrina che presenta un’ampia varietà di proposte e di generi e che si caratterizza per la presenza di molti autori giovani e di opere caratterizzate da forme narrative e soluzioni estetiche innovative. L’edizione di quest’anno, si è svolta dal 4 al 12 novembre, presso il Cinema Savoy, storica multisala romana che ha ospitato tutte le proiezioni e presso il Museo MACRO, dove si sono svolte presentazioni di libri, letture e conversazioni. Il programma ha compreso circa 90 film, tra lungometraggi, cortometraggi e documentari, di cui 60 anteprime, per la maggior parte nazionali, ma anche europee e internazionali. Si è articolato in varie sezioni. Il Concorso Ufficiale “Premio Amore e Psiche” ha compreso 7 lungometraggi e 2 mediometraggi, provenienti da Egitto, Tunisia, Algeria, Francia, Italia, Giordania e Iran. Il Concorso Internazionale Documentari “Premio Open Eyes” ha presentato 10 documentari provenienti da Algeria, Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Libano, Israele, Palestina e Iram. Oltre a un ampio Concorso Internazionale cortometraggi “Premio Methesis” e a una sezione denominata “Le Perle: Alla scoperta del Nuovo Cinema Italiano” che ha raccolto 19 film tra lungometraggi, mediometraggi e corti, realizzati da giovani autori , ma anche due omaggi a due affermati registi dalla carriera consolidata (Gianni Amelio e Amir Naderi) il Festival ha presentato due interessantissime vetrine - panorama: la prima dedicata al Nuovo Cinema Tunisino, comprendente 3 lungometraggio, 1 documentario e 6 cortometraggi, la seconda dedicata al Nuovo Cinema Iraniano, comprendente 6 lungometraggi, 1 documentario e 7 cortometraggi.
Il MedFilm Festival ha anche presentato, con grande rilievo, i tre lungometraggi finalisti del “Premio Lux” sostenuto dal Parlamento Europeo, di cui quest’anno ricorre il decimo anniversario. Una scelta che si deve alla perfetta sintonia tra le finalità del Premio e la mission del Festival stesso. Considerata l’importanza dell’evento e il successo di pubblico ottenuto, riteniamo opportuno recensirli.
"À peine j’ouvre les yeux", Leyla Bouzid |
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À peine j’ouvre les yeux, opera prima della tunisina, appena trentenne, Leyla Bouzid, è un coming-of-age film molto credibile, onesto e maturo. Bouzid non solo caratterizza senza stereotipi i personaggi e le loro relazioni, a livello familiare e sentimentale, ma li inquadra anche perfettamente nel contesto sociale e politico della Tunisia nell’estate del 2010, alla vigilia della cosiddetta “Rivoluzione dei Ciclamini”, il ciclo di proteste, manifestazioni e sommosse popolari che rovesciò il regime poliziesco dittatoriale del Presidente dittatore Zine El-Abidine Ben Ali e il suo corrotto clan di potere, aprendo la strada al ritorno della democrazia. La protagonista è Farah (Baya Medhaffer), una diciottenne solare, impulsiva e libera. Appartiene al piccolo ceto medio e vive a Tunisi con sua madre Hayet (Ghalia Benali) che è praticamente separata dal marito il quale lavora come tecnico in un impianto industriale fuori città. La giovane, che eccelle negli studi, si è appena diplomata e la sua iscrizione alla Facoltà di Medicina è stata accettata, con grande soddisfazione da parte dei suoi genitori.
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Tuttavia, pur non pensando di contrastare le loro aspettative, Farah, nel frattempo, vuole sperimentare senza paura il nuovo nella vita e nell’amore e coltiva la sua passione: è la leading singer di una underground rock band che propone musica progressive fusa con ritmi antichi e testi chiaramente espliciti di denuncia politica e di critica sociale. Spinta da energia creativa, dall’ inclinazione alla ribellione contro il conservatorismo e dal desiderio di perseguire i propri desideri e coinvolta in una storia d’amore con il leader della band, il ventenne Borhène (Montassar Ayari), la protagonista deve fronteggiare la crescente repressione poliziesca. Arrestata e sottoposta a duri interrogatori con percosse e torture, si rende conto che nel gruppo musicale vi è un informatore della polizia. Quindi cerca di smascherarlo, ma la sua veemenza provoca una rottura con Borhène, incerto e impaurito. Sua madre Hayet, memore di personali amare esperienze di ribellione anticonformista che in gioventù avevano segnato il suo destino, tenta di proteggerla e per ottenere la fine della persecuzione si umilia fino ad incontrare il suo ex amante, sordido individuo appartenente ai servizi segreti. Leyla Bouzid propone una messa in scena priva di sperimentalismi, ma con ottima scansione drammatica e attenzione ai dettagli. Dirige al meglio un cast affiatato di ottimi attori ed evita le scene ad effetto, la deriva psicologista e retorici intenti didascalici. Riesce a rappresentare efficacemente, e con grande talento visivo, l’atmosfera dell’epoca, gli slanci, le delusioni e le contraddizioni di Farah e dei giovani protagonisti e il fallimento della generazione dei quarantenni e dei cinquantenni, quella di Hayet, vittima di compromessi impossibili, vigliaccheria e ipocrisia.
"La pazza gioia", Paolo Virzì |
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La pazza gioia, di Paolo Virzì, è una commedia “drammatica” dedicata al disagio mentale. Ma è soprattutto un doppio ritratto femminile e si sviluppa come un road movie sulle strade della Toscana. La vicenda si svolge in una comunità psichiatrica terapeutica sita in una villa in campagna da dove fuggono due trentenni diversissime, ma magicamente solidali: Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi, molto convincente, come sempre nei ruoli comici), una ricca borghese, maniacale e invadente, che il marito ha fatto interdire, e Donatella (Micaela Ramazzotti, molto impostata e fasulla), una poveraccia depressa in cerca di affetto a cui è stata tolta la custodia del bambino di 8 anni dopo un tentativo di suicidio. Nonostante una messa in scena più curata e una maggior precisione nella scansione dei tempi drammatici rispetto ai suoi film precedenti, Virzì riconferma la proposta di un “cinema popolare” che strumentalizza la vis comica, felice solo a tratti a causa della propensione al bozzetto macchiettistico, per sostanziare una forte e ambigua finalità didascalica. Il suo teatrino in cui operatori sanitari e malati mentali sono felici e collaborativi è abbastanza inverosimile, chimerico e poco graffiante.
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Toni Ederman, è, al contrario, una commediola più che mediocre, prolissa, noiosa e banale, con una regia piattamente realista e ripetitiva, viziata da stilemi televisivi. Un maldestro tentativo di raccontare l’intervento inconsueto e burlesco di un “amorevole” padre sessantenne tedesco, comunque molto antipatico e invadente, per “salvare” la figlia trentenne, manager di un’impresa addetta alle ristrutturazioni aziendali, workaholic e infelice. Una storia bislacca che si risolve in una parata bozzettistica di situazioni e gags in cui si manifesta una comicità fasulla, inefficace e / o scontatissima. E poi si svolge in gran parte in Romania, ma, alla faccia del ricercato realismo, nel film quel Paese quasi non c’è, perché predomina una sfilata di uffici high tech, hotel e ristoranti di lusso, dove avvengono le confuse trame industriali e finanziarie.
Proponiamo quindi la critica di Varoonegi (Inversion), quarto lungometraggio del quarantenne iraniano Behnam Behzadi, gran vincitore del Festival di quest’anno. In effetti quest’opera ha ottenuto sia Il Premio “Amore e Psiche”, quale miglior film del Concorso Ufficiale per i lungometraggi e mediometraggi, attribuito dalla Giuria Ufficialesia due Premi collaterali, quello della Giuria Piuculture e quello della Giuria Studenti composta da studenti di varie Facoltà di 5 Università con sede a Roma, le più importanti. È la prima volta, in 22 anni della storia del Festival, che lo stesso film è stato giudicato il migliore da tutte le Giurie, e quindi da esperti e da cinefili di varia estrazione ed età. Si tratta di un dramma familiare lucido e articolato, che evidenzia la sottomissione richiesta alle donne sole in Iran, anche in un contesto di classe media borghese.
La trentenne Niloofar (Sahar Dowlatshahi, veramente eccellente nella modulazione degli stati d’animo), attraente e dinamica, dolce, ma determinata, gestisce da anni, con competenza, massima dedizione e profitto, il laboratorio tessile di famiglia, ereditato dopo la morte di suo padre, dove lavorano una ventina di operaie. Essendo nubile, vive con la madre ultrasettantenne (Shirin Yazdanbakhsh), che soffre a causa di un serio enfisema polmonare. Farhad (Ali Mosaffa), il fratello maggiore, autoritario, sempre nervoso e soggetto ad crisi di rabbia, commerciante di abbigliamento fortemente indebitato, e Homa (Roya Javidnia) la sorella maggiore, fredda, moralista e meschina, insieme al cognato, piuttosto viscido, sono abituati a considerarla disposta a ogni sacrificio perché, secondo loro, lei non deve badare ad una propria famiglia. Un giorno la donna anziana, a causa del grave inquinamento atmosferico presente costantemente a Teheran (il titolo del film si riferisce all’inversione termica, fenomeno climatico che aggrava la polluzione dell’aria), si aggrava e viene ricoverata in rianimazione per una grave insufficienza respiratoria. |
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"Inversion" Behnam Behzadi
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Quando si riprende i medici consigliano perentoriamente che la paziente abbandoni la città. A quel punto i familiari richiedono a Niloofar di trasferirsi con lei in provincia, nel nord, considerando questa decisione inappellabile. Mostrano di non curarsi del fatto che questa decisione comporterebbe alla donna di rinunciare al suo lavoro. Oltre tutto Farhad ne approfitterebbe per vendere il laboratorio e ottenere il denaro necessario a pagare i suoi creditori giunti a minacciarlo. Quindi, per accentuare la pressione su Niloofar, l’uomo prende possesso del laboratorio e ne sigilla l’entrata con un lucchetto, causando grave sconcerto tra le operaie e umiliando pubblicamente la sorella. A complicare le cose vi è poi la circostanza che, da qualche tempo, la protagonista ha iniziato una cauta relazione con un ingegnere edile quarantenne (Ali Reza Aghakhani), uomo gentile e suo antico innamorato, tornato in Iran dopo diversi anni trascorsi all'estero. Ma quest’ultimo, che è divorziato, non ha avuto il coraggio di comunicarle che da alcuni mesi suo figlio adolescente è tornato a vivere con lui dopo che la ex moglie si è risposata. Behnam Behzadi descrive accuratamente carattere, scelte, comportamenti e azioni dei suoi personaggi, con una narrazione che gestisce i tempi drammatici con acume e con una messa in scena emozionante che valorizza pienamente un cast di magnifici attori ed è priva di qualsiasi deriva sensazionalista o didascalica. Propone il ritratto femminile credibile di una donna che, dopo un laborioso travaglio interiore, riesce a imporre, con sensibilità e intelligenza, la sua dignità e il suo potere decisionale autonomo, senza lacerare i legami familiari, in un ambiente caratterizzato da sottile ipocrisia e da un asfissiante machismo mascherato da naturale adesione alle tradizioni. Si notano i punti di contatto con il cinema di Asghar Farhadi. Infatti anche questo film, come le opere di Farhadi, soprattutto il Premio Oscar Nader and Simin, A Separation (2011), ma anche About Elly (2009), Fireworks Wednesday (2006) e il recente Forushande (The Salesman) (2016), mette a nudo, in modo raffinato, le convenzioni, le tradizioni, i conformismi e le costrizioni di una società, dominata dalla dittatura teocratica e uniformata agli unici espedienti che consentono di sopravvivere: le bugie e la doppia morale. Behzadi, come Farhadi non manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante una catarsi conclusiva. Quindi il film è realistico, ma, al tempo stesso, è metaforico perché, senza essere dichiaratamente politico |