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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 61. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID I DI GIOVANNI OTTONE E LUCIANA VELHO DE ALBUQUERQUE I 2016

SEMINCI di Valladolid 2016

Un Festival ricco di proposte di qualità

Espiga de Oro a La pazza gioia
Premio del Pubblico a El ciudadano ilustre

 

 

DI GIOVANNI OTTONE
E LUCIANA VELHO DE ALBUQUERQUE

"La pazza gioia", Paolo Virzi

Seminci di Valladolid

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La "61e Semana Internacional de Cine (SEMINCI) de Valladolid", svoltasi dal 22 al 29 ottobre, è il secondo Festival internazionale cinematografico più importante che si svolge annualmente in Spagna. Anche quest’anno ha confermato il suo usuale stile serio, ricercato, e al tempo stesso amichevole, e ha approntato un programma veramente ricco e interessante che ha rappresentato pienamente la sua storia e la sua tradizione che da sempre valorizzano il cinema d’autore soprattutto quando è rivolto a  un’audience matura. Quindi ha registrato un’ampia partecipazione di pubblico e di critici spagnoli e europei.

La "Sezione Ufficiale" competitiva, comprendente 19 lungometraggi, ha incluso, tra gli altri, alcuni film di qualità già presentati anteriormente quest'anno ai Festival di Berlino, Cannes, Locarno, Venezia e Toronto. Ha  presentato, tra gli altri, due nuovi film spagnoli.

Seminci di Valladolid

"Las furias" Miguel del Arco

 

Las furias, opera prima di Miguel del Arco, con un background di attore e di regista teatrale, ha inaugurato il Festival. È un dramma familiare a sfondo psicologico, costruito con una messa in scena prettamente teatrale e interpretato da un cast di noti attori spagnoli: tra gli altri citiamo José Sacristán, Mercedes Sampietro, Emma Suárez, Carmen Machi e Alberto San Juan. Al centro della vicenda, che si sviluppa durante una settimana in un microcosmo soffocante, vi è Marga, una ricca matriarca settantenne che nasconde alla famiglia la sua relazione lesbica con un’intellettuale più giovane e che si scontra con i suoi tre figli dopo aver annunciato loro che intende vendere la sua splendida villa situata sulla costa del Mediterraneo e che con il ricavato effettuerà un lungo e misterioso viaggio. Rinchiusi nella residenza per ripartirsi mobili e oggetti da conservare, i membri della famiglia allargata si confrontano in un intreccio di invidie, rancori occulti, segreti svelati, scene di isteriche contrapposizioni e tormentate relazioni intergenerazionali, viziate anche dalle problematiche psichiatriche di una  giovane nipote di Marga. 

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Nonostante le buone intenzioni del regista, che ha dichiarato di riferirsi alla tragedia greca, il film si dipana tra molti stereotipi, tentativi abortiti di suggestioni mitologiche e surreali, scivoloni farseschi che condizionano negativamente il clima drammatico e dialoghi estenuanti e pretenziosi.

La madre, terzo lungometraggio di Alberto Morais e opera conclusiva della sua trilogia dedicata ai temi alle relazioni tra soggetti deboli, marcate dall’abbandono e dal tentativo di ricomporre affetti contrastati, interrotti o perduti, è un dramma psicologico. Al centro del film vi è una tragica relazione madre – figlio. Miguel è un quattordicenne obbligato a  mentire continuamente e a vivere tra costrizioni, espedienti e  un’urgenza costante, a causa della totale inaffidabilità di sua madre, una quarantenne disoccupata, alcolizzata, irresponsabile ed emotivamente instabile. La donna si approfitta del figlio, costringendolo di fatto a mantenere entrambi con piccole truffe, furti al supermercato e la vendita in strada di fazzoletti di carta. Il ragazzo trascura la scuola, è oppresso dal peso di una responsabilità enorme per la sopravvivenza, dall’ansia a causa delle ricorrenti “cadute” della madre, a cui è legato da una relazione ossessiva, e dalla totale incertezza del futuro, anche perché rischia continuamente di essere sottoposto alla tutela dei servizi sociali. La donna dichiara di volerlo tenere con sé, ma, in realtà, la sua anaffettività e un egoismo primitivo la portano a non curarsi di lui.

 

Seminci di Valladolid

"La madre" Alberto Morais

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Quindi lo invia in un paese vicino, obbligandolo a chiedere ospitalità a Bogdan, un cinquantenne romeno, suo ex amante che lei ha truffato e abbandonato, che vive con Andrei, il  figlio ventenne rancoroso e ostile. I due accolgono Miguel e lo fanno assumere nella segheria dove lavorano, ma  si fanno consegnare il suo salario di apprendista non in regola e lo obbligano a effettuare le pulizie di casa.  Quando, dopo poche settimane, le contraddizioni esplodono,  il ragazzo litiga aspramente con Bogdan e con Andrei e poi torna nell’alloggio che condivideva con la madre, ma scopre di essere stato definitivamente abbandonato da lei. Nonostante un interessante approccio realista e naturalista, senza eccessi verbosi o sensazionalisti, Morais non riesce a strutturare una convincente tensione drammatica anche a causa di una caratterizzazione carente  e scontata dei personaggi. Ne consegue che il film si perde in un andirivieni patetico e una serie di clichés prevedibili, derivanti da una regia piatta e poco ispirata, incerta tra intensità forzosa e tentazioni pedagogiche.

Seminci di Valladolid

"La pazza gioia" Paolo Virzi

 

La Espiga de Oro al miglior film lungometraggio è stata attribuita a La pazza gioia, dodicesimo film del regista italiano cinquantenne Paolo Virzì, già presentato al Festival di Cannes di quest’anno nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs”. Allo stesso film è stato assegnato anche il Premio  alla miglior attrice, conferito ex aequo alle due interpreti protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, consorte di Virzì. Si tratta di una commedia “drammatica” dedicata al disagio mentale. Ma è soprattutto un doppio ritratto femminile e si sviluppa come un road movie sulle strade della Toscana. La vicenda si svolge in una comunità psichiatrica terapeutica sita in una villa in campagna da dove fuggono due  trentenni diversissime, ma magicamente solidali: Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi, molto convincente, come sempre nei ruoli comici), una ricca borghese, maniacale e invadente, che il marito ha fatto interdire, e Donatella (Micaela Ramazzotti,  molto impostata e fasulla), una poveraccia depressa in cerca di affetto a cui è stata tolta la custodia del bambino di 8 anni dopo un tentativo di suicidio.

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Nonostante una messa in scena più curata e una maggior  precisione nella scansione dei tempi drammatici rispetto ai suoi film precedenti, Virzì riconferma la proposta di un “cinema popolare” che strumentalizza la vis comica, felice solo a tratti a causa della propensione al bozzetto macchiettistico, per sostanziare una forte e ambigua finalità didascalica.  Il suo teatrino in cui operatori  sanitari e malati mentali sono felici e collaborativi è abbastanza inverosimile, chimerico e poco graffiante.

La Espiga de Plata è stata assegnata a El ciudadano ilustre, quarto lungometraggio di finzione della coppia di registi argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat. Allo stesso film, già vincitore della Coppa Volpi al miglior attore alla recente Mostra Biennale di Venezia, consegnata al suo interprete protagonista Oscar Martínez, sono stati anche attribuiti il Premio alla miglior sceneggiatura,  di cui è autore  Andrés Duprat, e il Premio del Pubblico. Il protagonista di questa commedia nera, che mescola abilmente reminiscenze di Kafka e di Borges, fine satira antropologica,  un amaro sottotesto esistenziale e politico, acuto taglio documentarista, originale vis comica e straordinario ritmo narrativo, è Daniel Mantovani (Oscar Martínez, eccellente nel modulare stati d’animo e contraddizioni), un affermato scrittore argentino, famosissimo dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Proprio nel corso del prologo il personaggio che, mutatis mutandis, sembra ispirato ad altri notissimi scrittori sudamericani,  trapiantati in  Europa e ormai star internazionali, quali Paulo Coelho e Mario Vargas Llosa, rivela la sua indole.

 

Seminci di Valladolid

"La madre" Alberto Morais

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Al momento del conferimento del Nobel, Mantovani mostra tutto il suo sarcasmo e il suo narcisismo, affermando che il riconoscimento lo lusinga, ma al tempo stesso certifica la morte della sua creatività artistica, anche perché deciso da “accademici,  specialisti e reali di Svezia”, personaggi di cui sottintende il suo scarso apprezzamento. Cinque anni dopo, quasi sessantenne, scapolo e senza figli, lucido, ma scettico e misantropo, Daniel vivein una splendida villa high tech isolata, nei dintorni di Barcellona, sfruttando i vantaggi della fama, ma ormai vittima di un blocco creativo. Si affida pienamente alle cure di Nuria (Nora Navas), un’efficiente e  intelligente segretaria che gestisce i suoi molteplici impegni: promozione dei libri, inviti a conferenze e lezioni, ritiro di premi letterari, comparsate, eventi a cui  quasi sempre si nega, e persino richieste di aiuto. Tutti i suoi romanzi  evocano, tra ricordi, suggestioni e invenzioni, la vita di Salas, il paesino nelle Pampas, situato a circa 700 chilometri dalla capitale argentina, in cui è cresciuto e dove non è mai più tornato dopo essersene andato appena ventenne. Un giorno riceve inaspettatamente l’invito dell’amministrazione locale di Salas  che intende ospitarlo per una settimana per celebrarlo con incontri e letture e per conferirgli il più alto riconoscimento: la medaglia  al Cittadino Illustre. Il viaggio prefigura un ritorno trionfale al luogo natale, un’occasione per incontrare di nuovo vecchi conoscenti e amici, gli amori e i paesaggi della sua giovinezza, ma soprattutto un  ritorno al cuore stesso della sua scrittura  e alla fonte della sua ispirazione. Stimolato e intrigato da questo invito, Mantovani accetta, sorprendendo Nuria e ponendo come unica condizione che quella visita non sia propagandata e comunicata alla stampa. Dopo un rocambolesco trasferimento, a bordo di una vecchia auto, dall’aeroporto internazionale di Buenos Aires, giunge a Salas e viene sistemato in un modesto alberghetto. Ricevuto dal sindaco (Manuel Vicente), un personaggio pittoresco e presuntuoso, gli viene prospettato un intenso programma di eventi: dalla presidenza di un premio di pittura organizzato dal circolo artistico a un ciclo di conferenze e  conversazioni con i cittadini, a un’intervista alla radio, alla sfilata trionfale sul camion dei pompieri affiancato dalla reginetta di bellezza, fino al clou del conferimento dell’onorificenza e dell’inaugurazione di un suo busto scolpito da uno scultore locale. Inizialmente tutti sembrano mostrargli considerazione, essendo orgogliosi di ospitare una tal personaggio così celebre: alcuni  si dicono  certi di essersi riconosciuti in uno o nell’altro dei personaggi dei suoi libri, altri lo invitano insistentemente a pranzo e un tizio pretende un aiuto economico per comprare una carrozzella elettrica al figlio disabile. Infine una  ventenne spregiudicata e intraprendente, che si proclama fedele lettrice dei suoi libri, si introduce nella sua camera e lo convince a far l’amore con lei. Daniel si mostra paziente, cerca di superare la sua propensione all’understatement e si sforza di accogliere senza fastidio le manifestazioni di becera familiarità, calandosi in quel microcosmo e ottemperando puntualmente al programma prestabilito. Ma ben presto si rende conto che in realtà la maggioranza dei suoi concittadini lo considera un estraneo che disturba i rituali e gli equilibri del paese e che molti, dopo averlo conosciuto, gli sono ostili e lo disprezzano perché  lo invidiano e gli rimproverano di essersene andato. In particolare  un personaggio caricaturale, Florencio Romero (Marcelo D’Andrea),  che si considera un’artista, lo perseguita perché non ha premiato il suo quadro e giunge a interrompere violentemente i suoi incontri con il pubblico rinfacciandogli di aver descritto Salas nei suoi libri in modo disonorevole, speculando su meschinità e piccineria di un ambiente ottuso e provinciale. Poi incontra Antonio (Dady Brieva), un vecchio compagno di scuola che è diventato un ricco maggiorente e ha sposato Irene (Andrea Frigerio), fidanzata giovanile di Daniel che lui aveva abbandonato quando  era partito da Salas. La donna, tuttora insegnante con dedizione al suo lavoro, sembra essere una delle poche persone “normali”  esistenti a Salas, ma è succube del marito, viscido e volgare sotto una coltre di rispettabilità. Quest’ultimo si mostra amichevole e sembra voler difendere Daniel dagli importuni, ma ha conservato una forte gelosia e, poco a poco, rivela il suo astio e la sua indole fascistoide, diventando una minaccia mortale per lo scrittore. Il contrasto è insanabile: da un lato vi sono i pregiudizi localisti, la negazione dei tanti segni di ritardo e fallimento economico e sociale e l’ostracismo violento verso chi manifesta un punto di vista esterno e critico, dall’altro  si colloca lo spirito cosmopolita di Daniel, peraltro non privo di colpe nello sfruttare cinicamente l’occasione per scrivere un nuovo libro, una volta scampato il pericolo e tornato in Spagna. Mariano Cohn e Gastón Duprat confezionano una farsa rutilante, spietata e surreale,  con sapienti spunti feroci che rasentano l’assurdo e persino l’horror, ma hanno un sapore verosimile.  Propongono una galleria di personaggi al tempo stesso teneri e inquietanti (frutto di un casting di interpreti indovinatissimo) e, a partire da una scrittura brillante e ben articolata, costruiscono un mosaico di situazioni grottesche e paradigmatiche, spesso imprevedibili, condite da dialoghi strepitosi con fine ironia e battute mordaci, in un crescendo drammatico di controversie, sempre più oscuro. Il gusto per la trovata esilarante, per lo sbeffeggiamento continuo di ambienti e personaggi sono il filo conduttore del film, che tuttavia va ben oltre il puro registro comico e il semplice meccanismo di accumulo di bozzetti. Cohn e Duprat  riescono a d evidenziare pienamente il miserabile caleidoscopio del nazionalismo sciovinista e del populismo argentino, alimentato dal cancro peronista, senza cadere mai nella deriva didascalica. Attraverso dettagli e intuizioni fulminanti illustrano un universo che si nutre di orgoglio fideistico, becero e cieco, per le glorie patriottiche, gli eroi nazional-popolari indiscutibili: Perón, Evita, Maradona, la Regina d’Olanda, Messi e Papa Francesco. E poi, naturalmente,  coltivano anche la metafora, ovvero il riferimento alla ferita aperta nell’orgoglio nazionale di un Paese che vanta grandi scrittori e continua a subire l’onta insanabile per il mancato conferimento di un Nobel per la letteratura, negato persino a Borges. Infine, al tempo stesso,  offrono anche  un ritratto sagace e disincantato delle contraddizioni di un intellettuale  che supera la delusione ideale e, nonostante il disagio e il pericolo vissuto, continua a sfruttare in modo parassitario, ma legittimo, secondo  i dettami storici della creazione artistica, le proprie radici, con cinismo, protervia e,  pure, con qualche ripensamento.

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"Mãe só há uma" Anna Muylaert

 

Alla brasiliana Anna Muylaert è stato attribuito il Premio alla miglior regia per il suo  quinto lungometraggio, Mãe só há uma, presentato a febbraio nella sezione Panorama della Berlinale. Allo stesso film è stato anche concesso il Premio al miglior attore, conferito all’interprete protagonista Naomi Nero. Si tratta di un dramma esistenziale, ispirato da fatti reali avvenuti in Brasile circa vent’anni fa. Un’opera che sviluppa una tematica molto attuale: l’identità di un figlio che, durante l’adolescenza, scopre traumaticamente che i suoi genitori biologici sono diversi da coloro con cui è cresciuto e ha abitato fino ad allora e che è costretto dalla legge a scegliere una “nuova” famiglia. Il protagonista è il diciassettenne Pierre (l’esordiente Naomi Nero), un ragazzo pieno di energia che suona in una band rock, fuma gli spinelli e mostra apertamente un’identità esuberante, ma ambigua, perché fa sesso con le ragazze, ma ama anche travestirsi in segreto con abiti femminili e truccarsi.  Cresciuto in una famiglia piccolo borghese, vive a São Paulo in un quartiere popolare insieme alla madre vedova Arcay (Dani Nefussi), che lavora fuori casa tutto il giorno e lo tratta con grande affetto, senza mai rimproverarlo, e alla sorella minore Jaqueline (Lais Dias).

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Un giorno, all’improvviso,  la polizia, con gran spiegamento di forze, irrompe nella casa e arresta Arcay con l’accusa di aver sottratto Pierre dalla culla in ospedale, poco dopo la sua nascita.  Il successivo test del DNA conferma che  Pierre non è il figlio di quella donna e determina che i servizi sociali lo assegnino ad una famiglia della classe media benestante, dove viene accolto con commozione dai genitori biologici, Gloria (interpretata dalla stessa Nefussi) e Matheus (Matheus Nachtergaele), che hanno cercato per anni il loro figlio perduto, che chiamano Felipe, senza mai rassegnarsi. Il giovane si trova  repentinamente ad abitare in una villetta in un quartiere residenziale, diverso e molto lontano dalla sua antica abitazione, e ad avere un nuovo nome, una nuova famiglia, molto più tradizionale e benpensante, un fratello minore, Joca (Daniel Botelho) di cui fino ad allora aveva ignorato l’esistenza, ed è obbligato a cambiare scuola e a frequentare altri ragazzi che non conosce. I “nuovi” genitori” riservano a Pierre / Felipe ogni attenzione e gli  offrono tutto ciò che desidera, dai vestiti alla moda ai gadget informatici di ultima generazione. Anche Joca si impegna per farlo sentire a suo agio. Il giovane protagonista si sforza di essere gentile e di adattarsi ai gusti conformistici dei familiari, ma ben presto rivela la sua vera natura, rifiutando i valori borghesi che gli vengono proposti. Comunque non appare particolarmente disperato, nonostante non perda occasione per  riaffermare il suo affetto nei confronti di Arcay, perché è completamente assorbito dalla problematica della sua identità sessuale. Sono invece Gloria e Matheus quelli che devono compiere ardue scelte, rendendosi conto amaramente che il legame di sangue non comporta affatto una comunanza di stili di vita e di obiettivi identitari. Ma alla fine prevale la tolleranza reciproca. Muylaert conferma il suo interesse per il tema della maternità e si rivolge al grande pubblico, con un mix agrodolce di toni, piuttosto squilibrato e viziato da un intento didascalico, quasi militante, che compromette la freschezza narrativa, frutto di un ritmo veloce e vivace e di un ricco caleidoscopio di scene forti e di scelte estetiche efficaci. Purtroppo non riesce a ripetere la buona prova  del suo precedente Que horas ela volta? (2015). In effetti in quell’opera, più genuinamente autoriale, riuscita e coerente, ha proposto, pur in versione sottilmente parodistica, una genuina  rappresentazione, ricca di dettagli autentici, dei rapporti sociali tra ”servi” e “padroni”, retaggio secolare tuttora presente nella società brasiliana. Inoltre, adattando intelligentemente motivi presenti nelle telenovelas brasiliane, ha dimostrato un senso umoristico peculiare, vagamente surreale, e una capacità di critica sociale priva di impronte moraliste. Al contrario in questo film Muylaert (essendo anche autore della sceneggiatura) costruisce i personaggi, a partire da una marcata scelta ideologica di campo che, in nome di una convinta e dichiarata valorizzazione del politically correct, dei diritti della comunità LGBT e della compresenza in ogni individuo di un lato maschile e di uno femminile, la porta a scelte drammaturgiche forzate e poco verosimili, soprattutto in una società come quella brasiliana, che, anche a livello della metropoli di São Paulo, resta profondamente machista e violenta. In sostanza, è proprio dai dettagli che emerge la debolezza del film, che perde l’opportunità di essere un melodramma incisivo, comprendente un ritratto sociale intelligente e mordace, per diventare progressivamente un mediocre fairy tale, viziato da stucchevoli clichés e da una naturalezza artificiosa. Alla fine emerge il racconto esemplare di un adolescente dalla sessualità controversa che finisce per imporre agevolmente la sua identità in famiglia e fuori casa e che può passeggiare  tranquillamente per le strade della città travestito da donna in un happy end clamorosamente falso e fuorviante.

Il regista egiziano Mohamed Diab, che ha scritto, con il fratello Khaled, e diretto la sua opera seconda, Eshtebak (Clash), già presentata alla “Quinzaine des Réalisateurs” del Festival di Cannes di quest’anno, ha conquistato il Premio “Pilar Mirò” al miglior nuovo regista. Allo stesso film è andato anche Il Premio alla miglior fotografia, curata da Ahmad Gabr. Diab propone un dramma claustrofobico, incalzante, duro ed efficacissimo. È ambientato nell'estate del 2013 a Il Cairo,  la capitale dell’Egitto, quando, dopo la destituzione del Presidente Mohamed Morsi, leader del partito dei "Fratelli Musulmani", milioni di persone manifestano a favore o contro gli islamisti. Racconta una giornata durante le massicce proteste e i gravi disordini tra opposte fazioni. Tutto il film è girato all'interno di un furgone della polizia in cui sono rinchiusi manifestanti arrestati, islamisti e loro avversari, di diversa condizione sociale, e descrive il destino di una ventina di uomini e donne che si avvita in una tragica spirale.

 

Seminci di Valladolid

"Eshtebak" Mohamed Diab

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Seminci di Valladolid

"Les Innocentes" Anne Fontaine

 

Commentiamo Il Premio della Giuria dei critici della FIPRESCI è andato a Les innocentes (Agnus Dei), della regista francese Anne Fontaine. Si tratta di un dramma d’epoca, un film caratterizzato da una narrazione classica semplice e progressivamente cumulativa, ma molto efficace e, a tratti, genuinamente emozionante. Ispirato da fatti reali, è ambientato  in un villaggio di campagna della Polonia nel dicembre 1945. La Seconda Guerra Mondiale è terminata da pochi mesi, ma, durante il duro inverno nordico, la condizione dei sopravvissuti, compresi gruppi di bambini laceri, affamati e cresciuti precocemente, tra piccoli traffici e risse, è oltremodo penosa e disperata. In un  avamposto sanitario gestito dall’esercito francese, acquartierato in un vecchio edificio, vengono operati e curati soldati feriti e mutilati ed ex prigionieri dei lager nazisti. La ventenne Mathilde (Lou de Laâge) è una studentessa di Medicina parigina inquadrata come infermiera della Croce Rossa. Proveniente da una famiglia comunista e professionalmente capace, si impegna senza risparmio, con dedizione laica e lucida razionalità.

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Samuel (Vincent Macaigne),  l’ufficiale a cui è assegnata, è un chirurgo, di origine ebrea: un  quarantenne scettico, ma ugualmente impegnato, che la tratta con sentimenti di amicizia. Un giorno Mathilde  viene  avvicinata da  Suor Maria (Agata Buzek), che parla qualche parola di francese. La religiosa, inginocchiata nella neve, la supplica per ottenere un suo intervento urgente, dicendole che non può richiederlo ai polacchi. Condotta in un convento di clausura che dista pochi chilometri, l’infermiera si trova a dover visitare un’altra monaca che inaspettatamente risulta essere incinta, con il travaglio di parto ormai in corso. Con molto coraggio e perizia, Mathilde riesce a praticare un taglio cesareo e quindi a salvare la madre e il neonato. Informata del fatto che il convento è stato prima occupato dall’esercito tedesco di Hitler e poi dai soldati sovietici e che la maggior parte delle suore è stata violentata e sette sono rimaste incinte, l’infermiera inizia a visitare periodicamente il convento e ad assistere ad altri parti. Si trova quindi ad essere testimone dei tragici dilemmi morali delle religiose, rispetto alla castità tradita e alla fede, ai dubbi e al destino da assegnare ai nascituri, ma anche alla vergogna e alla paura di uno scandalo che sarebbe distruttivo per la credibilità della Chiesa. Quest’attività clandestina, che comporta la trasgressione delle consegne e i pericoli di aggressioni da parte dei soldati russi che pattugliano le strade, si deve affiancare agli estenuanti turni di lavoro in sala operatoria e nei reparti e continua durante settimane. Finché una notte, di fronte all’emergenza di un doppio parto in contemporanea, Mathilde è costretta a coinvolgere anche l’incredulo maggiore Samuel. Infine, quando qualche tempo dopo  il distaccamento sanitario francese viene trasferito in Germania, di fronte al rischio di grave persecuzione delle suore da parte della popolazione tradizionalista cattolica,  l’infermiera trova  una soluzione per proteggerle, aprendo la strada a un futuro di qualche speranza. Anne Fontaine evita sia i toni didascalici, il moralismo e la denuncia schematica, sia la trappola di  una contorta deriva psicologista, caratterizzando i personaggi con tatto, onestà e intelligenza nei dettagli, a partire da una sceneggiatura solida e ben stratificata, e puntando su una recitazione intensa, ma affatto prosaica, e su dialoghi per nulla declamatori e retorici. Ne deriva una dinamica drammatica  abbastanza credibile, solenne, ma non artificiosa, priva di sterile naturalismo e di intenti di manipolazione dell’audience.

Il Premio de La Juventud, del Jurado Joven è stato attribuito a Forushande (The Salesman),  del regista iraniano Asghar Farhadi,  già presentato al Festival di Cannes di quest’anno e, a nostro giudizio, il miglior film del Concorso della SEMINCI. Pur essendo un poco inferiore rispetto ai suoi film precedenti, soprattutto il Premio Oscar Nader and Simin, A Separation (2011), ma anche About Elly (2009) e Fireworks Wednesday (2006), la nuova opera di Farhadi conferma la sua capacità di inquadrare le contraddizioni culturali ed esistenziali presenti nel Paese. In effetti  mette a nudo, in modo raffinato, le convenzioni, le tradizioni, i conformismi e le costrizioni di una società, dominata dalla dittatura teocratica e uniformata dagli unici espedienti che consentono di sopravvivere: le bugie e la doppia morale. Il film si sviluppa come un thriller atipico, ma si sostanzia in un’accurata analisi dei comportamenti, assumendo un chiaro significato politico. A Teheran una coppia di intellettuali trentenni, Emad, insegnante,  e Rana, sono obbligati a trasferirsi in un appartamento provvisorio, messo a disposizione da un amico, perché hanno dovuto evacuare il loro a causa del rischio di crollo del palazzo. Nel frattempo i due sono anche impegnati attivamente come attori dilettanti in un noto dramma teatrale, “La morte di un commesso viaggiatore” del  drammaturgo americano Arthur Miller, in allestimento tra mille difficoltà, per contrasti artistici all’interno della troupe e per la difficoltà di superare le obiezioni della censura del governo. Poco a poco si apprende che la precedente inquilina del nuovo alloggio, che non si vede mai, era una donna sola con un bambino, frequentata da diversi uomini. Emad e Rana, nonostante la loro apertura mentale, si sentono a disagio  pensando a cosa  poteva essere avvenuto dove loro attualmente si sono stabiliti. Poi un giorno Rana, mentre attende il marito, sente suonare e lascia aperta la porta, recandosi poi in bagno per fare una doccia. Ma subito dopo viene aggredita da uno sconosciuto, che è probabilmente uno dei frequentatori della precedente inquilina, lo respinge, viene ferita al capo, sviene e poi è soccorsa dai vicini. Mentre l’assalitore  riesce a dileguarsi, pur avendo lasciato una traccia di sé. Allo spettatore  non viene mostrata l’aggressione, ma solo il prima e il dopo, con la rievocazione della stessa nel racconto di vittima. Quindi si assiste al successivo confronto tra marito e moglie, dove lei non sa o non vuole spiegarsi bene e lui appare sempre più turbato e umiliato. Emad deve fronteggiare una crescente e penosa pressione psicologica, aggravata dai commenti maliziosi dei vicini, che lo porta ad iniziare una personale inchiesta per individuare l’aggressore, con amare conseguenza. Farhadi  realizza un dramma pluristratificato, che mantiene sempre coerenza e intensità, anche se l’intreccio tra la vicenda esistenziale della coppia e la pièce di Miller, pur tenuto insieme da parallelismi tematici (identità maschile in crisi, uso della menzogna, frequentazione di prostitute, ecc.), a tratti introduce alcune rigidità, ma certamente non dinamiche artificiose. La sua solida sceneggiatura e l’intelligentissima messa in scena inquadrano un microcosmo e  svelano progressivamente l’intimità di individui che mostrano una credibile sofferenza esistenziale. Ogni protagonista deve faticosamente fare i conti con le proprie emozioni e con vari pesi che gravano sulla coscienza. Peraltro il regista non si perde nei meandri di uno sterile psicologismo e non giudica mai i suoi personaggi, né manipola strumentalmente la materia narrativa al fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante una catarsi conclusiva. Introduce selettivamente nuovi dettagli ad ogni snodo della narrazione, mantenendo la scorrevolezza narrativa.

In ogni caso solo una lettura fuorviante, dettata da astrusi schemi mentali ”progressisti” nostrani, può vedere nel comportamento di Emad unicamente l’ossessione di verità e giustizia, facile metafora dell’intransigenza ideologica del regime sciita. In  realtà la questione è ben più complessa e implica dilemmi più profondi rispetto alla relazione tra marito e moglie, ai pregiudizi verso le donne e il sesso, alle contraddizioni che dilaniano, anche in Iran, gli intellettuali progressisti e alla questione della rispettabilità di fronte al giudizio degli altri. Farhadi tesse una trama che costringe lo spettatore a modificare continuamente la sua opinione rispetto ai singoli personaggi. In effetti nel film ognuno di essi è al tempo stesso colpevole e innocente a seconda del punto di vista con cui lo si può giudicare. Occorre inoltre sottolineare la pregevole direzione degli attori e l’emozionante uso della telecamera che combina diversi piani ed angolazioni.

 

Seminci di Valladolid

"The Salisman" Asghar Farhadi

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Citazioni di merito, a nostro giudizio, devono essere-attribuite ad altri due film della “Sezione Ufficiale” che mostrano una significativa qualità autoriale. Dev Bhoomi (Land of Gods), del veterano serbo Goran Paskaljevi?, è un eccellente ed emozionante dramma esistenziale, girato in India nella regione dell’Uttarakand, devastata nel 2013 da un’alluvione con migliaia di vittime, nella valle dove si trovano le sorgenti del Gange, alle pendici di un ghiacciaio dell’Himalaya. Propone il ritratto di Rahul Negi (Victor Banerjee, magnifico interprete, nonché coautore della sceneggiatura), un sessantenne che ritorna nel villaggio natale dopo 40 anni di assenza vissuti in Inghilterra. È un uomo che sa di essere destinato alla cecità (una condizione reale e al tempo stesso metaforica) e che vuole trovare la pace, ma deve fare i conti con l’ostilità e l’antico rancore, tuttora preservati, di suo fratello e di gran parte dei compaesani che,  quando era ventenne ostacolarono violentemente la sua storia d’amore con una giovane danzatrice di casta inferiore e lo costrinsero ad andarsene.  Rahul ritrova un mondo isolato che è marcato da radicati pregiudizi, diseguaglianze di genere, tra cui quella per cui le giovani donne non devono andare a scuola, ma sposarsi, e ingiustizie provocate dal sistema delle caste, problematiche che ancora provocano gravi tensioni e vittime. Paskaljevi?  costruisce una storia di redenzione e ripropone la sua poetica umanista che da sempre lo pone dalla parte dei deboli, degli emarginati e delle vittime delle ideologie di potere nazionaliste o discriminatorie a vari livelli. Offre una credibile caratterizzazione dei personaggi e delle vicende, attraverso una disanima etnologica molto significativa e autentica e un realistico  inquadramento delle relazioni umane e sociali nelle aree rurali dell’India, e prospetta un messaggio  di speranza senza  nascondere o manipolare le più aspre ed eclatanti contraddizioni ed evitando qualsiasi deriva moralistica o pedagogica. Anatomy of violence, di Deepa Mehta, regista indiana radicata da molte decadi in Canada, è un docudrama di grande efficacia. Un film che ricostruisce, con un’originalissima scelta narrativa  sperimentale, il background di uno dei più gravi ed efferati crimini della storia recente dell’India. Il 16 dicembre 2012, a New Delhi, all’interno di un autobus privato,  cinque passeggeri e l’autista, di fatto un gruppo di criminali, aggredirono due donne salite a bordo, stuprando collettivamente l’una e riempiendo di percosse l’altra e quindi le scaraventarono in strada. La studentessa di 23 anni  stuprata morì dopo due settimane in seguito  alle gravi ferite e contusioni riportate. Il caso, che è solo uno delle migliaia di atti di violenza nei confronti delle donne che avvengono ogni anno in India, la maggior parte dei quali non denunciati, ha scatenato un’onda di massicce proteste e un ampio dibattito nel Paese per  inasprire le pene per il reato di stupro. Deepa Metha, in collaborazione con l’artista teatrale Neelam Mansingh Chowdhry ha scelto un approccio di improvvisazione stimolando gli attori coinvolti,  chiamati a interpretare i 6 responsabili del reato, a immaginare e a inscenare i verosimili percorsi esistenziali di ognuno di loro, ovvero abitudini, condizione lavorativa, relazioni familiari e sociali, profilo psicologico e personalità violente maturati dall’infanzia al momento del fatto (ovvero gli attori adulti hanno interpretato i personaggi da quando erano bambini e hanno subito vari traumi psicologici fino al fatidico giorno).

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"Dev Bhoomi (Land of Gods) " Goran Paskaljevi?

 

Il film non mette in scena lo stupro, ma mette a fuoco scene di vita dei colpevoli, che non si sono mai pentiti, uno per uno, prima e dopo. In parallelo viene rievocata  la vita della vittima deceduta, con le sue aspirazioni e la sua cerchia di familiari e amicizie. L’opzione di Deepa Metha, non supportata da un profilo produttivo ad alto budget e con prevalente uso della telecamera a mano con inquadrature strette, ha reso il film del tutto anticonvenzionale. È un’invenzione di pseudo cinéma vérité, ardita, essenziale e davvero impressionante in termini di lucidità e di impatto emotivo. In effetti è un’opera che  si distanzia nettamente dal genere  del legal drama o dell’inchiesta giudiziaria, proponendo invece un ritratto della cultura patriarcale e misogina, dominante tra la gente e considerata spesso la normalità, e della spirale di abusi  perpetrati e / o subiti che alimentano i comportamenti violenti, con, in aggiunta, un sistema economico le cui storture determinano le disperate condizioni di vita di ampi strati della popolazione indiana. Il film pone domande e non offre giustificazioni né risposte inequivocabili.

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La sezione competitiva "Punto de Encuentro" ha proposto 14 lungometraggi, tutti opere prime e seconde, molti dei quali in anteprima europea. Ne commentiamo un paio tra i migliori che sono stati presentati. Omor shakhsiya (Personal Affairs) opera prima dell’israeliana Maha Haj, è una divertente commedia minimalista e, sottilmente malinconica. È ambientata tra Ramallah e Gerusalemme, con una puntata anche in Svezia, in una zona incontaminata. Configura, con fine  osservazione dei  personaggi,   atteggiamenti e visioni della vita in una famiglia palestinese piccolo borghese. Tra routine e paradossi surreali, emergono le incomprensioni tra i genitori anziani e i  due figli e la figlia. Un piccolo film di pregio che ricorda, nello spirito e nell’ambientazione nei territori della West Bank, le commedie del regista palestinese Elia Suleiman. Tramontane, del libanese Vatche Boulghourjian, è un esordio originale e maturo. Con un efficace stile documentaristico  il regista  propone uno sguardo introspettivo sul Libano dove a terribile guerra civile (1975 - 1990) ha lasciato tracce dolorose che impediscono tuttora una memoria condivisa tra sciiti, sunniti, cristiani maroniti e drusi. Al centro della vicenda vi è Rabih, un cantante cieco ventenne libanese che  propone ballate tradizionali,  accompagnato da un quartetto musicale, durante feste e matrimoni.  Sogna di esibirsi all'estero e richiede un passaporto, scoprendo che i suoi documenti sono stati falsificati e che non è il figlio biologico dei genitori che lo hanno cresciuto. Quindi cerca con febbrile determinazione di conoscere la verità sulla sua identità spostandosi nei centri  delle campagne interne. Ma i suoi diversi interlocutori gli raccontano menzogne fantasiose, evocano miti o cercano di dissuaderlo con avvertimenti ambigui.

Infine offriamo un’ampia recensione della grande Retrospettiva dedicata alla cinematografia contemporanea del Paese ospite della SEMINCI di quest’anno: il Cile. Il ciclo intitolato “Il cinema cileno durante la democrazia (2000 – 2015)” ha compreso 15 lungometraggi, 5 documentari e 9 cortometraggi, in larga parte di autori delle ultime generazioni. In effetti in Cile, dal 2005, è in atto una rinascita del cinema cileno, grazie all’affacciarsi alla ribalta di un paio di nuove generazioni di registi, nati negli anni ’70 e ’80,  più inclini all’osservazione  di microcosmi esistenziali, alla sperimentazione di moduli narrativi ed estetici e al superamento dei generi. Ne sono derivati sguardi molto personali sulla vita degli individui, sui contraddittori processi di modernizzazione della società, ma anche sull’eredità e sulle tragedie della precedente epoca della dittatura militare, iniziata nel 1973 e conclusasi solo all’inizio degli anni ’90, dopo una lunga fase di transizione. Si ritiene che la ripresa della produzione cinematografica (dal 2006 una media annua di circa 15 - 20 film nazionali, esclusi i documentari, distribuiti nelle sale, fino al record di 25 lungometraggi di finzione nel 2015) sia stata favorita sia da processi istituzionali e da misure legislative intraprese nel corso degli anni, a partire dalla Legge n. 19.981 / 2004, di promozione e sostegno della produzione audiovisiva, conosciuta come “ Ley de Cine”, sia da fenomeni di politica e di organizzazione culturale.

Il “Nuovissimo Cinema Cileno” presenta opere di vario genere. I cineasti che hanno esordito e si sono affermati negli ultimi 10 anni non risultano uniti da un accordo programmatico o da un manifesto dogmatico di gruppo, ma piuttosto da un rifiuto degli stereotipi. Sperimentano un nuovo realismo con varie declinazioni, dialogano con la quotidianità e la contemporaneità di specifici contesti generazionali e sociali e rivelano una relazione palese o più latente con il tragico passato politico. Rifiutano un cinema basato sulla parola, sulla spiegazione e/o sulla metafora, le suggestioni del realismo magico, del costumbrismo, dell’allegoria onirica e del pamphlet e rifuggono la pigrizia narrativa e la denuncia non supportata da una forma efficace, in sostanza la pretesa di rifarsi ad un’idea complessiva della società da raccontare. Sono inseriti in una piccola, ma significativa rete di autori e produttori indipendenti che, in alcuni casi, riesce anche a coinvolgere imprese europee e statunitensi in progetti di coproduzione. In effetti si conoscono e collaborano tra loro: spesso i registi sono anche produttori dei loro stessi film e di quelli di colleghi più giovani. Molti film drammatici riguardano contraddizioni di identità in ambito familiare o a livello individuale e a volte denotano un pessimismo latente rispetto alla quotidianità e alle prospettive future, ma  rivelano spesso anche importanti temi politici di ieri e di oggi, rappresentando le problematiche sociali, in particolare delle famiglie della classe media, ma anche la condizione proletaria. Alcuni  denotano specificamente problematiche esistenziali di adolescenti o di ventenni e trentenni e persino di anziani, tra minimalismo narrativo drammatico e spunti introspettivi. Altri affrontano il tema dell’eredità della dittatura nel percorso esistenziale delle persone durante gli ultimi 20 anni, dopo il ripristino della democrazia, tra traumi non risolti, identità in crisi e persistenti divisioni politiche. Le stesse tematiche di relazioni familiari e interpersonali, relative a personaggi sia giovani che più anziani, sono anche affrontate in altri film, utilizzando con intelligenza la forma della commedia. Esistono inoltre opere che si caratterizzano per una sorta di “neorealismo introverso” che si impegna nel superamento dei limiti tra finzione e documentario. Si tratta di film che cercano di rappresentare situazioni di vita di persone ordinarie, senza tentare di spiegarle, valorizzando i silenzi e utilizzando prevalentemente  attori non professionisti e non attori. Infine si deve considerare anche una significativa produzione di documentari che riguardano condizioni esistenziali difficili, come ad esempio quella degli indios nativi, e, soprattutto, problematiche politiche relative all’epoca della dittatura militare, con riflessi anche contemporanei. Proponiamo quindi il commento critico di alcuni dei film più significativi della Retrospettiva.

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"Machuca" Andrés Wood

 

Machuca (2004), terzo lungometraggio di Andrés Wood, è ambientato a Santiago nei mesi immediatamente precedenti e durante il golpe militare del 1973 contro il Presidente Allende. La storia è quella di alcuni giovani adolescenti, tra i 13 e i 15 anni, e delle loro relazioni interpersonali e con il mondo degli adulti. I due protagonisti sono due amici: Gonzalo (Matías Quer), figlio di una famiglia della buona borghesia e Pedro Machuca (Ariel Mateluna), un coetaneo proletario che vive in una squallida borgata. Entrambi frequentano una scuola privata cattolica retta dall’idealista Padre McEnroe (Ernesto Malbran) che sarà vittima dei militari al momento della “normalizzazione” del sistema educativo. I ragazzi trascorrono in modo scanzonato e febbrile i giorni del conflitto, quando si fronteggiano le manifestazioni della destra e della sinistra. Poi il brusco e duro ritorno alla realtà li dividerà, ripristinando la separazione di classe. Wood presenta un’acuta disamina sociale e un articolato ritratto psicologico dei giovani e della loro prospettiva nei confronti degli avvenimenti.

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No (2012) è il quarto lungometraggi di Pablo Larraín, la personalità più significativa del “Nuovissimo Cinema Cileno”: il film che conclude la sua trilogia dedicata alla dittatura fascista di Pinochet. Il cinema di Larraín opera una re-visione postuma di quell’epoca, costruendone una rappresentazione al tempo stesso metafisica e suggestiva di un immaginario collettivo, con al centro la materialità e la subcultura della gente. Mostra una straordinaria intelligenza nella messa in scena,  uno stile essenziale e un raffinato gioco formale che creano un’atmosfera e un paesaggio visivo emozionanti. Questo film ricostruisce una storia vera con un'opera necessaria, molto intelligente e priva di retorica. Nel 1988 il regime, sottoposto a pressione internazionale, indice un referendum popolare per il mantenimento della Presidenza di Pinochet per altri 8 anni. I militari sono convinti di vincere. Il trentenne René Saavedra (Gael Garcia Bernal), pubblicitario di successo e figlio di un esiliato, viene assunto dalla eterogenea coalizione di opposizione formata da 16 partiti democratici. Quest’uomo si trova a fronteggiare una situazione molto difficile: scarsità di risorse finanziarie e di mezzi, continua sorveglianza da parte della polizia politica del regime e provocazioni da parte di squadracce fasciste. In breve tempo si convince circa la necessità di adottare una tattica eterodossa e rischiosa, ai limiti del cinismo, nonostante lo scetticismo dei suoi clienti. Quindi imposta una campagna elettorale in positivo, con una tecnica propagandistica moderna, basandola  sull'allegria della lotta per la libertà. L’inaspettata vittoria del No con il 55% dei voti segnò l’inizio della fine di Pinochet e dei militari. Il registro narrativo riecheggia i toni di una commedia drammatica nera. Larraín offre una lucida rappresentazione sia dell’ipocrisia del regime sia delle divisioni e dell’arretratezza culturale in seno alla coalizione per la democrazia.

Effettua le riprese in digitale, usando le U-matic videocamere utilizzate dai canali televisivi dell’epoca. Mescola con naturalezza finzione e footage, fornendo immagini che ricordano l’estetica degli anni ’80, e ottiene una perfetta rappresentazione dell'epoca. Assistendo a questo film non si può non ripensare a un film di Raúl Ruiz, il maestro del cinema cileno esiliato in Francia dal 1974 e scomparso nel 2011 poco dopo aver compiuto 70 anni. Si tratta di Palomita blanca, iniziato nel 1973, interrotto dal golpe e presentato in versione finale al Festival di Viña del Mar nel 1992. È un eccezionale ritratto della società cilena negli anni immediatamente precedenti il colpo di stato, attraverso l’inusuale e controversa relazione tra una giovane liceale di famiglia proletaria e il rampollo di una ricchissima famiglia della borghesia conservatrice di Santiago. Tra gli aspetti più rilevanti del film sono da evidenziare:  la rappresentazione della psicologia e dei dialoghi dei personaggi di classi sociali differenti e il sapiente uso degli spazi negli huis clos delle residenze.

 

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"No" Pablo Larraín

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"La sagrada familia" Sebastián Lelio

 

La sagrada familia (2005), lungometraggio di esordio di Sebastián Lelio, è un dramma familiare “scandaloso” e ironico che si svolge, durante la Settimana Santa, in una villa borghese isolata, sulla costa del Pacifico. Dal confronto tra i padroni di casa, una coppia ricca e frustrata di quarantenni e la giovane coppia, costituita dall’unico figlio universitario e dalla sua prima fidanzata molto sexy, nascono situazioni di scontro. Emergono conflitti morali, ipocrisie, rivelazioni e tradimenti. Lelio usa quasi esclusivamente una telecamera a mano molto basculante e privilegia i close-ups, con un risultato semi-documentaristico. Inoltre confida nella capacità di improvvisazione degli attori, ottenendo una significativa naturalezza interpretativa. Ha anche eseguito personalmente un brillante e originale lavoro di montaggio durato oltre un anno.

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Play (2005),  opera prima di Alicia Scherson  mostra già i caratteri distintivi dello stile della regista che si è consolidato fino ad oggi: una propensione all’osservazione minuziosa naturalista, frutto di un background di studi di biologia, e un vero talento per la rappresentazione visiva dei dettagli e delle emozioni furtive.  È una favola moderna che racconta, con humour sottile, due esistenze parallele, ma soprattutto la vita urbana di Santiago, una città anestetizzante, coacervo di esistenze ripiegate su sé stesse. Cristina (Viviana Herrera) è una ventenne proletaria proveniente da una provincia rurale. Lavora come badante di un anziano malato di origine ungherese. È costantemente affascinata di fronte alle “novità” della città moderna. Tristan (Andrés Ulloa), al contrario, è un trentenne abbiente e vive in un appartamento di pregio. Un giorno la donna ritrova casualmente la borsa, rubata a quell’uomo sconosciuto. Localizzato Tristan, inizia a pedinarlo ed entra furtivamente nella vita dell’altro. Un gioco di incroci multipli in una metropoli che diventa protagonista ambivalente in rapporto ai due personaggi. Ma anche un raffinato ritratto che tratteggia le differenze di classe.


 

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"Play" Alicia Scherson

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"En la cama" Matías Bize

 

En la cama (2005), opera seconda di Matías Bize, è una commedia “scandalosa” che si svolge interamente nella camera di un motel di Santiago nell’arco temporale di una notte. I protagonisti sono due giovani della classe media: Daniela (Blanca Lewin) e Bruno (Gonzalo Valenzuela). Fanno l’amore, ridono, scherzano e soprattutto parlano. Si raccontano le reciproche esperienze e condividono i rispettivi ricordi, imparano a conoscersi, si scontrano, detestandosi, e tornano ad amarsi. Allo spettatore viene imposta una certa forma di voyeurismo, proponendogli una radiografia intima della sessualità della coppia, ma anche una riflessione su importanza e limiti della comunicazione interpersonale, sul peso delle menzogne e sulla paura di impegnarsi. Ne risulta una regia ardita e una direzione degli attori sapiente, nonostante una certa superficialità dello sguardo.


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La noche de enfrente (2012) è l’ultimo film del veterano e geniale maestro Raúl Ruiz, trapiantato in Francia per sfuggire alla dittatura di Pinochet e scomparso nell'agosto 2011. Terminato pochi mesi prima della sua morte, illustra con fine ironia, un racconto ampiamente surreale. Ripetendo incontri e conversazioni, traccia l'itinerario  della vita di Don Celso, impiegato in un ufficio e brillante conversatore. Ruiz mescola episodi di tre età del protagonista: l'infanzia, l'età adulta e la vecchiaia. È un’opera gustoso e crepuscolare che ripropone lo spirito del regista e le referenze al maestro spagnolo Luis Buñuel.

Matar a un hombre (2014), terzo lungometraggio di Alejandro Fernández Almendras, è un dramma esistenziale molto convincente, con risvolti di revenge thriller e importanti implicazioni sociali. Il film, basato su una storia vera, racconta la vicenda di una famiglia di onesti lavoratori perseguitata da un delinquente. Il protagonista è Jorge (Daniel Candia), un cinquantenne tranquillo ed educato, che lavora come guardia forestale. Nonostante sia diabetico, svolge con dedizione il suo lavoro, si trova perfettamente a suo agio tra i boschi della proprietà che sorveglia e si dedica con cura a preservarli. L’uomo abita insieme alla moglie Martha (Alexandra Yanez) e ai figli in una casetta in un barrio proletario. Nel quartiere abita anche Kalule (Daniel Antivilo), un delinquente quarantenne. È un tipaccio, rozzo e prepotente, che spadroneggia nel quartiere, essendo a capo di una banda di scapestrati che lo ammirano e lo temono. L’uomo ha preso di mira Jorge e la sua famiglia e si diverte a insultarli  e a minacciarli ogni volta che li incontra. Mentre Jorge assume un atteggiamento di sopportazione stoica, suo figlio Jorgito (Ariel Mateluna), un ventenne che lavora come trasportatore di carni e cibi e possiede un camion frigorifero, non accetta i soprusi.


 

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"Matar a un hombre" Alejandro Fernández Almendras

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Dopo aver subito il furto di parte della merce che trasportava, una notte il giovane attende  il delinquente sotto casa e lo affronta con un coltello, ma l’uomo gli spara e lo ferisce. Il successivo processo si conclude con la condanna per Kalule a 18 mesi di detenzione. Nel frattempo Jorge e Martha si separano, anche a causa del malessere generato dalla diversa valutazione su come affrontare le minacce del delinquente. Esaurita la pena l’uomo inizia a perseguitare sistematicamente la famiglia. Un giorno sequestra e tenta di violentare la graziosa figlia di Jorge, una studentessa teenager. La ragazza riesce a fuggire, ma resta traumatizzata. La famiglia precipita in una condizione penosa di angoscia e di paura. Quella notte Jorge si rivolge alla polizia e al giudice, ma non ottiene nulla. Quindi, dopo una tormentata riflessione, mette in atto un piano lucido e rischioso, per neutralizzare definitivamente Kalule. Almendras realizza un film apparentemente di genere, con una buona padronanza del meccanismo della suspence,  ma ne sovverte i classici canoni narrativi. In primo luogo affronta un tema poco sviluppato nel cinema cileno: la violenza delinquenziale in un quartiere proletario nei confronti di una famiglia decente. Inoltre costruisce con cura la personalità del protagonista, un uomo amante della natura, ma a disagio nella giungla urbana. Si cimenta nel descrivere il travaglio morale di un uomo ordinario che è costretto, suo malgrado, a un atto estremo, a compiere un omicidio. Il regista evita inutili contorsioni psicologiste, ma fa emergere efficacemente e senza retorica il dramma dell’anima, al di là e oltre il dramma sociale. Non giudica  ed evita anche la facile deriva sensazionalista e spettacolare. A livello estetico privilegia un ritmo lento e i piani sequenza e opta per efficaci fuori campo durante le sequenze più crude.

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Patricio Guzman

 

Il veterano Patricio Guzmán è noto per i suoi documentari realizzati nel corso degli anni ’70 e dedicati al governo di Unidad Popular del Presidente Salvador Allende e alla tragedia del colpo di stato del Generale Pinochet: La Batalla de Chile: La insurrección de la burguesía  (1975) La Batalla de Chile: El golpe de Estado (1977) e La Batalla de Chile: El poder popular (1979). Il suo ultimo documentario, El Botón de Nácar (2015), come già il suo precedente Nostalgia de la luz (2010),riunisce temi scientifici, etologici, filosofici e politici ed è un film pregevolissimo. Propone un’ulteriore meditazione che esplora nuovamente la tradizione culturale di un popolo e la sue tragedie a partire da una più ampia determinazione dell’essenza geofisica del suo territorio. È soprattutto un film emozionante perché si nota che l’ispirazione deriva da un’analisi e da una memoria molto meditate.

   

Partendo dai temi del ciclo dell’acqua e degli oceani, che conterrebbero tracce di antiche galassie, il regista delinea la relazione controversa e ambivalente tra i cileni e il mare, in un Paese lungo e stretto che vanta circa 4200 chilometri di coste dal confine con il Perù all’estremo della Patagonia. Poi si concentra su quella regione più meridionale, tra montagne e vulcani, dove i ghiacciai della Cordigliera delle Ande incontrano l’Oceano e dove la costa aspra si complica con innumerevoli isole e isolotti, formando l’arcipelago più esteso del mondo. Una terra aspra, risultato di eventi geologici grandiosi, con paesaggi affascinanti ed estremi, dove, per migliaia di anni, vissero le tribù Patagoniche, come i Kawésqar e gli estinti Selk’nam. Quelle stesse acque e isole  videro, nel XVIII secolo, le avventure dei marinai inglesi e statunitensi a caccia di balene, dei cercatori d’oro e dei missionari salesiani. Gli indigeni furono costretti a rinunciare ai loro costumi e alle loro abitudini e finirono prima decimati e poi eliminati pressoché totalmente dalle infermità e dalla violenza portate dai conquistatori bianchi: una cultura scomparsa e un genocidio che non può essere dimenticato. Poi in questi luoghi, durante la dittatura militare di Pinochet, fu stabilito uno dei più duri campi di prigionia, quello dell’isola di Dawson, dove perirono migliaia di oppositori, militanti democratici e dei partiti della sinistra. Furono stroncati da stenti e malattie, giustiziati senza motivo e persino legati a pezzi di rotaie, ammassati su elicotteri e gettati nell’Oceano, essendo in molti casi ancora vivi. L’acqua è il fattore primordiale, origine e strumento della vita,  ma forse conserva la memoria di una storia di violenza in cui avvennero terribili eccidi. Guzmán stesso articola la narrazione intervenendo a più riprese. Interpone continuamente i temi, opera digressioni, mostra antiche fotografie e conversa con vari interlocutori: scienziati, biologi, intellettuali, archeologi, gli ultimi anziani indigeni puri sopravvissuti e i parenti delle vittime del regime militare. A tratti risulta un poco saccente, prospetta elucubrazioni discutibili o troppo ardite o manifesta un malcelato orgoglio nazionale, ma sono dettagli che non inficiano la qualità di un’opera eccellente. Il ritmo è lento, ma è scandito da una limpida volontà di testimonianza, che affiora dalla profonda speculazione scientifica e storica rouge


 

 

 

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61. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID

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22 - 29 / 10 / 2016

Seminci Valladolid

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