Domenica 17 aprile si è concluso il 35° Istanbul International Film Festival, uno dei principali Festival cinematografici tra quelli che si svolgono in grandi aree urbane, all’incrocio tra Europa e Asia. La sua programmazione ha vantato quest’anno oltre 200 lungometraggi, provenienti da una cinquantina di Paesi, nel corso degli 11 giorni della sua durata. Come negli anni precedenti, nonostante la difficile situazione economica e politica del Paese, il Festival ha ottenuto un buon successo di pubblico (circa 100.000 biglietti venduti), che ha affollato le 10 sale in cui sono stati presentati i film, disperse tra il “centro” nell’area di Beyo?lu e altri quartieri che si affacciano sul Bosforo sia sulla sponda europea che su quella asiatica. Commentiamo quindi i principali Premi assegnati ai feature film turchi della Competizione Nazionale, che ha compreso 11 opere, da parte della Giuria Internazionale presieduta dalla nota attrice turca Müjde Ar.
Il Golden Tulip Award al miglior film turco della sezione Competizione Nazionale è stato assegnato a Toz Bezi (Dust Cloth), opera prima scritta e diretta dalla kurda, di nazionalità turca, Ahu Öztürk. Allo stesso film sono andati anche il Premio alla miglior sceneggiatura, di cui è autore la stessa Öztürk, e il Premio alla miglior attrice, attribuito a Asiye Dinçsoy. Toz Bezi (Dust Cloth), opera prima della kurda, di nazionalità turca, Ahu Öztürk, propone un dramma con al centro l’amicizia tra due proletarie kurde che vivono a Istanbul. Nesrin (Asiye Dinçsoy), trentenne, timida e vulnerabile, e Hatun (Nazan Kesal), quarantenne, più sicura di sé ed esperta, sono due domestiche che lavorano ad ore presso famiglie del ceto medio. Per loro la vita consiste in continui spostamenti tra le loro umili dimore nel quartiere popolare periferico dove vivono e i quartieri eleganti della città dove risiedono le loro datrici di lavoro. Sono al servizio di donne privilegiate, come la sessantenne Ayten (Serra Yilmaz), conformista, sprezzante e meschina, che le trattano con manifesta superiorità e di fronte alle quali sono costrette ad mostrarsi sottomesse e ossequiose. Le due protagoniste sono molto amiche e abitano in due alloggi nella stessa casetta. Hatun vive con ?ero (Mehmet Özgür), il marito pigro e pusillanime e con Oktay (Yusuf Ancu), il figlio adolescente taciturno e problematico. Nesrin ha cacciato da casa suo marito. In realtà lo ha fatto solo per obbligarlo a trovarsi un lavoro, ma da quel momento l’uomo non è più tornato. Quindi la donna e sua figlia Asmin (Didem Inselel), di soli cinque anni, vivono crescenti difficoltà. Nesrin sa che per ottenere i sussidi sociali previsti deve trovare un lavoro a tempo pieno con un contratto regolare. Hatun, al contrario, sogna di potersi trasferire ad abitare nel quartiere borghese di Moda, dove risiedono molte delle famiglie nei cui appartamenti svolge le pulizie. Il suo desiderio è così struggente da portarla, pur essendo musulmana, a recarsi a pregare in una chiesa cristiana per ottenere un aiuto divino. Ahu Öztürk dissemina dettagli emotivamente strazianti e velate provocazioni per sottolineare la sofferenza esistenziale delle due donne nella metropoli Istanbul. Tuttavia, nonostante un interessante ritratto del contesto sociale e una genuina rappresentazione del disagio vissuto dai kurdi, il film è poco convincente in termini tematici ed estetici.
"Toz Bezi (Dust Cloth)", Ahu Öztürk |
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Il ritmo narrativo è lento, ma piuttosto irregolare, mentre le ellissi denotano imperfezioni e incertezze della sceneggiatura, curata dalla stessa regista, e producono effetti criptici. Abbonda la tendenza al simbolismo, a volte troppo ovvio, altre troppo esplicito e, soprattutto, manca un vero senso del dramma, mentre accadono circostanze ben poco credibili. Probabilmente il forte desiderio di documentare quanto i kurdi si sentano marginalizzati in una città spietata come Istanbul ha indotto Ahu Öztürk a infoltire la storia con svolte inefficaci, indebolendone l’essenza e i significati, specie nell’epilogo. In effetti mostra una certa approssimazione nel descrivere i sentimenti e i conflitti interiori delle due protagoniste, in particolare nel caso di Nesrin, che manifesta un mix ambiguo di ansia, pessimismo e infine totale disperazione. Anche la direzione degli attori è carente e incerta. L’ampio uso della videocamera a mano, con oscillazioni e bascula menti inutili, le inquadrature ricorrenti alle spalle dei personaggi e i molti piani troppo prolungati e insistiti alla ricerca di effetti naturalistici, in realtà non producono maggiore intensità e a volte risultano irritanti.
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Il Best Director Award è stato attribuito a Mustafa Kara, autore di Kalandar Sogugu (Cold Of Kalandar), il suo secondo lungometraggio. Allo stesso film son andati il Premio al miglior attore, conferito a Haydar Sisman, il Best Director of Photography, assegnato a Cevahir Sahin e a Kürsat Üresin e il Best Editing Award, assegnato a llo stesso regista Mustafa Kara, a Umut Sakalioglu e a Ali Aga, autori del montaggio del film. Kalandar Sogugu (Cold Of Kalandar) propone una parabola drammatica. È un film molto meditato, giocato su una lenta cadenza poetica. Si tratta di un intenso ritratto antropologico di una famiglia poverissima che cerca disperatamente di sopravvivere in una località tra le montagne del dell’Anatolia nordorientale alle spalle della costa del Mar Nero. Ma costituisce anche una metafora riguardante quei sognatori che non depongono mai la speranza di trovare una scorciatoia nella vita per recuperare la propria identità personale e per migliorare le proprie condizioni economiche. Kara orchestra un incisivo racconto di povertà e di tenacia e ostinazione, con palpabile realismo e acuta sensibilità documentaristica. Il quarantenne Mehmet (Haydar Sisman) vive in un piccolo villaggio in montagna insieme alla moglie Hanife (Nuray Yesilaraz), all’anziana suocera e ai due figli Ibrahim (Ibrahim Kuvvet) e Mustafa (Temel Kara). La loro catapecchia decrepita è isolata nell’ambiente naturale, lontana dalla civilizzazione moderna. L’uomo alleva stentatamente pochi animali, vacche e capre, ma coltiva una grande passione: appena può si avventura sui monti ricercando accanitamente un filone di minerale pregiato. Questa attività incessante è considerata futile e inutile da sia moglie che è sempre più esausta e priva di speranza. Anziché ascoltare il consiglio di sua moglie che insiste per vendere il toro che posseggono per pagare almeno alcuni dei loro innumerevoli debiti, Mehmet insiste nell’esplorare caverne poste sulle fiancate rocciose dei monti per trovare prove che giustifichino l’apertura di un pozzo minerario. Sta iniziando l’inverno e, nonostante il maltempo con pioggia e neve, l’uomo si assenta per giorni e giorni, arrampicandosi sempre più in alto. Striscia negli anfratti e stacca frammenti di roccia dalle pareti interne usando piccone e martello. Le delusioni continue sembrano essere superate quando arriva la notizia della possibilità di vincere una grossa somma di denaro partecipando con il proprio animale a un imminente combattimento fra tori. Nella speranza di prevalere nella competizione che si svolgerà ad Artvin, Mehmet si dedica con impegno ad addestrare il suo toro nel recinto di fronte alla sua dimora. Ma, alla fine, durante il combattimento il toro soccombe e l’uomo torna a casa nuovamente sconfitto. Nella percezione di Mustafa Kara la natura e le persone sembrano essere intrinsecamente unite. Il film offre il ritratto naïf di una vita compassionevole e di una lotta dura in cui si confrontano la natura, gli animale e gli esseri umani.
Il ritmo è davvero molto lento e la narrazione è spesso prolissa e punteggiata da ripetizioni. Brevi sequenze con dialoghi sono interposte con scene prolungate in cui i protagonisti sono semplicemente presenti e affaccendati nelle quotidiane comuni incombenze. È un’opera contemplativa caratterizzata dalla preziosa fotografia di Cevahir Sahin e Kürsat Üresin, con aspri e inospitali paesaggi, e dalla notevole interpretazione di Haydar Sisman. Kalandar Sogugu (Cold Of Kalandar) fa rammentare in qualche modo il cinema di Semih Kaplanoglu, in particolare i film della “Trilogia di Yusuf” attraverso il minimalismo e il realismo, l’approccio poetico, le dinamiche molto lente, l’estetica visiva intensa, lirica e raffinata. Kara sembra essere persino più radicale di Kaplanoglu, ma anche meno convincente perché la psicologia dei personaggi risulta occultata e misteriosa. Inoltre è un peccato che la scena finale sia del tutto ambigua e inquietante, quasi un inno a una specie di divina provvidenza e a una possibile redenzione.
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"Kalandar Sogugu (Cold Of Kalandar)" Mustafa Kara
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Il Premio della Giuria internazionale dei critici della FIPRESCI, rispetto ai film della Competizione Nazionale, è stato attribuito a Ana Yurdu (Motherland), opera prima della regista Senem Tüzen. Si tratta di un dramma esistenziale centrato sulla relazione tra una figlia e la propria madre. Nesrin (Esra Bezeb Bilgin), una trentenne appartenente alla classe media, sta cercando di superare i postumi del suo recente divorzio. Non ha potuto vivere l’esperienza della maternità e si tormenta, tra rancore e aspettative perdute, essendo di fronte a un futuro incerto. Si è licenziata dall’ufficio e ha lasciato il suo appartamento di Istanbul per venire a stabilirsi per un certo periodo nella vecchia casa che apparteneva alla nonna scomparsa, in un villaggio in una zona rurale dell’Anatolia. La sua intenzione è quella di tentare di finire un romanzo, coronando il sogno della sua infanzia di diventare una scrittrice. Quando Halise (Nihal Koldas), sua madre, donna conformista e caratterialmente instabile, arriva inaspettatamente in casa, senza essersi preannunciata né essere stata invitata, il progetto di scrittura di Nesrin si interrompe. Le due donne sono obbligate a confrontarsi mettendo a nudo i lati più amari e oscuri del loro mondo interiore. Da un lato Halise si trova a suo agio nell’ambiente conservatore e profondamente religioso del villaggio: si accompagna alle donne del vicinato e partecipa ai loro rituali e tradizioni. Dall’altro Nesrin, la figlia, percepisce quello stesso ambiente in termini negativi, trovandolo soffocante e del tutto dissonante rispetto ai dolci ricordi infantili. Cercando di affermare una propria diversa identità stabilisce un’amicizia con un ragazzo emarginato che è oggetto di scherno da parte della popolazione locale.
"Ana Yurdu (Motherland)", Senem Tüzen |
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Ana Yurdu (Motherland) propone l’interessante ritratto di una donna lacerata da un sentimento di amore - odio nei confronti di sua madre. Senem Tüzen esplora la relazione tra madre e figlia e il loro aspro e doloroso conflitto. Evita la tentazione didascalica, ma attraverso la complessità del contesto offre comunque una rappresentazione dello scontro tra conservatorismo comunitario e modernità in Turchia. Tuttavia la narrazione è involuta e non particolarmente originale, piena di clichés e di provocazioni intellettualistiche e i profili psicologici dei personaggi sono poco convincenti. Nonostante gli sforzi per innescare un’intensa scansione drammatica, mediante la rappresentazione della dinamica di una coabitazione insopportabile tra le due protagoniste, tra scenate, eccessi naturalistici e ricatti emozionali, la tensione risulta raramente efficace. Peraltro si segnalano aspetti estetici di qualità: il sapiente uso della luminosità naturale e la preferenza degli spazi angusti e oscuri.
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Il Seyfi Teoman Best Debut Film Award, riservato alla miglior opera prima tra i film turchi è stato assegnato a Çirak (The Apprentice), esordio di Emre Konuk, presentato nella sezione “New Turkish Cinema”. Si tratta di una commedia nera, davvero intelligente e piacevole, ispirata dalle problematiche psicologiche presenti nella società odierna. Offre la brillante rappresentazione del progressivo aggravamento di una nevrosi ansiosa ossessiva e di un comportamento compulsivo insorti in un trentacinquenne scapolo, un uomo semplice e disciplinato. Alim (Hakan Atalay) lavora da 15 anni come apprendista e commesso presso il piccolo negozio - laboratorio di Yakub (Tugrul Çetiner), un sarto anziano che è il suo maestro. Tormentato dalla paura irrazionale nei confronti del rischio di morire, evita di deviare rispetto alla routine che si è imposto e conduce un’esistenza del tutto monotona e prevedibile: un continuo andirivieni tra il suo appartamento e l’atelier dove lavora. Ogni giorno segue lo stesso rituale. Ogni mattina apre il negozio e guarda la televisione o si appisola brevemente fino all’arrivo del titolare. La sera torna a casa sfruttando un passaggio sull’auto di Kemal che lavora nel vicino caffè e abita nel suo stesso quartiere. In realtà Alim è un tipo impressionabile che si lascia facilmente influenzare dai discorsi altrui e dalle situazioni in cui gli capita di essere coinvolto. Una sera, mentre guarda il telegiornale, viene colpito dalla notizia secondo cui le auto alimentate con carburante GPL non sarebbero sicure e sarebbero a rischio di possibili improvviso incendio. Quindi inizia a utilizzare i taxi, ma l’itinerario è lungo e costoso e ben presto si accorge di capitare sempre su auto alimentate con GPL. Quindi, per evitare di utilizzare le auto per i suoi spostamenti obbligati, decide di trasferirsi in un appartamento nelle vicinanze del suo posto di lavoro. Questo piccolo cambiamento avvia un mutamento decisivo nella sua esistenza. In effetti viene coinvolto progressivamente in una stretta amicizia con l’anziana signora (Çigdem Selisik Onat) proprietaria dell’appartamento di cui è affittuario: una donna saggia e naturalmente ottimista.
Çirak (The Apprentice) è una specie di tardo coming-of-age film. Esplora efficacemente la tensione tra conformismo e bisogno di un nuovo inizio, immaginazione paradossale di possibili pericoli ed eventi catastrofici e innocue eventualità della vita quotidiana, disturbi neuropsichici e bisogno di liberazione. Emre Konuk costruisce in studio uno squisito microcosmo: uno scenario visivo ricco di magnifici dettagli. Il suo approccio è fresco e incisivo, creativo e raffinato ed evita la pericolosa deriva psicoanalitica. In effetti lo spettatore non sa nulla del passato di Alim e, senza mediazioni, viene coinvolto direttamente in una storia molto ben scritta. Inoltre Konuk dimostra ottime capacità nella direzione degli attori. La narrazione procede con fluidità, essendo caratterizzata da una scansione umoristica e drammatica convincente e da toni malinconici e poetici.
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"Çirak (The Apprentice)" Emre Konuk
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Riserviamo inoltre un commento a due film della Competizione Nazionale che ci hanno impressionato favorevolmente. Mavi Bisiklet (Blue Bicycle), opera prima di Ümit Koreken, è un coming-of-age film riguardante alcuni preadolescenti che vivono in un’area rurale della Turchia. Non è solo un dramma centrato sui temi della giustizia e del coraggio di esprimere liberamente le proprie opinioni come valori da preservare, ma è anche un film che offre un’onesta e credibile rappresentazione del contesto sociale e del sistema scolastico primario in un paese di campagna nella Turchia di oggi. Ali (Selim Kaya), un ragazzino di 12 anni, timido e introverso, vive con sua madre e con la sorella minore in una località del distretto di Aksehir, nella provincia di Konya, nell’Anatolia centrale. È una famiglia povera. Sua madre confeziona a domicilio sciarpe e vestiti e poi li vende per strada. Ali guadagna una paghetta settimanale lavorando qualche ora dopo la scuola come apprendista presso un gommista. Tuttavia mette da parte tutte le mance con un unico scopo: quello di poter comprare una fiammante bicicletta blu che sbircia regolarmente nella vetrina del negozio quando avrà racimolato il denaro necessario. Suo padre è morto nel corso di un incidente sul lavoro mai ben chiarito avvenuto non molto tempo prima. In effetti era un bracciante in un’azienda agricola, ma il suo corpo senza vita fu ritrovato presso i binari della ferrovia. Salim, il sovraintendente della fattoria, unico testimone dichiarato dell’incidente, continua ad incolpare la negligenza del lavoratore deceduto. Ma Ali e sua madre si sono convinti di una verità diversa e hanno presentato una denuncia per poter ottenere la celebrazione di un processo. La scuola è ricominciata dopo le vacanze e Ali è felice perché potrà rivedere Elif (Bahriye Arin), la compagna di cui è segretamente innamorato. La ragazzina è la una brillante studentessa, quella con i voti migliori, ed è stata eletta capoclasse dai compagni. Ma il primo giorno di scuola si presenta un nuovo studente: Hasan (Burak Vurdumduymaz), il nipote di Salim, capo di una famiglia conosciuta. Nel frattempo Elif, dovendo occuparsi dei suoi fratelli più piccoli, non riesce a portare a termine tutti i compiti assegnati al capoclasse. Venuto a conoscenza di questa situazione il preside della scuola (Fatih Koca) ne approfitta per assegnare a Hasan il titolo di capoclasse e anchel’onore di rappresentare la scuola a un prossimo evento che si svolgerà nella capitale Ankara. Ali è molto turbato e arrabbiato perché pensa che Elif sia vittima di un’ingiustizia e decide di spendere tutti i suoi risparmi per organizzare una vigorosa campagna informativa, senza farsi riconoscere e contando sull’aiuto di Yusuf (Eray Kilicarslan).
"Mavi Bisiklet (Blue Bicycle)", Ümit Koreken |
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Una notte i due ragazzini tracciano scritte di protesta sui muri del paese e appendono uno striscione sulla facciata dell’edificio scolastico. Lo scopo è quello di costringere la scuola a riassegnare a Elif il suo incarico. Il preside furente conduce un’inchiesta per scoprire il responsabile di queelo che considera un atto offensivo e illegale, ma ben presto la notizia viene ripresa dalla stampa locale. Mavi Bisiklet (Blue Bicycle) propone i concetti di ingiustizia e di correttezza filtrandoli attraverso la consapevolezza di un dodicenne. Ali sente di non aver nulla da perdere e quindi sacrifica il suo sogno per combattere un sopruso che considera illegittimo. La sceneggiatura curata dallo stesso regista Ümit Koreken e da Nursen Çetin propone con chiarezza il mix di sensibilità e combattività del piccolo protagonista. Il film offre un ritratto incisivo e abbastanza realistico delle relazioni tra adulti e preadolescenti, comunica un acuto senso del dramma esistenziale di Ali ed evita quasi sempre gli accenti didascalici e retorici.
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Rüzgarin hatilaralari (Memories of the Wind), terzo lungometraggio di Özcan Alper, è al tempo stesso un melodramma malinconico e una meditazione poetica. Propone un avvincente ritratto d’epoca che mostra le tragiche conseguenze dell’oppressione politica. Durante la Seconda Guerra Mondiale in Turchia la situazione esistenziale dei dissidenti e degli intellettuali di sinistra divenne progressivamente difficile fino alla disperazione. Il governo conservatore e nazionalista di destra attuò una politica di crescente discriminazione e persecuzione nei confronti degli intellettuali e delle minoranze etniche. Il protagonista della vicenda è Aram (Onur Saylak), un quarantenne armeno, scrittore, traduttore, pittore, nonché notista collaboratore di un giornale comunista. Nel 1942, essendo ricercato, è costretto a fuggire precipitosamente da Istanbul. Seguendo le indicazioni degli amici che lo hanno aiutato, giunge in un piccolo villaggio non lontano dalla costa del Mar Nero, lungo il confine tra la Turchia e la Georgia, appartenente all’URSS, e viene segretamente ospitato in una casetta tradizionale, isolata tra le colline. La coppia che lo nasconde è formata da Mikahil (Mustafa Ugurlu), un anziano contadino, burbero e taciturno, e da Meryem (Sofya Chandemirova), la sua giovane consorte russa che svolge silenziosamente le attività casalinghe. La relazione tra questi ultimi non risulta molto chiara, ma la donna sembra costretta in un ruolo di aiutante domestica piuttosto che essere una tranquilla moglie devota. Aram è in attesa di un’opportunità per poter espatriare clandestinamente nell’Unione Sovietica, ma il tempo trascorre inutilmente. Poi viene informato che la frontiera è strettamente sorvegliata e che le possibilità di varcarla sono praticamente nulle. Inoltre è ormai chiaro che alcuni abitanti del villaggio sono informatori e spie della polizia. Quindi, mentre la tensione e la paura crescono, Mickahil trasferisce Aram in una capanna cadente in mezzo ad una foresta e Meryem si reca da lui ogni giorno portandogli cibo e bevande. Isolato in una zona montuosa magnifica e selvaggia, Aram si sente comunque confinato in una prigione. È spinto a perseguire una tormentata ricerca interiore di ricordi che lo conducono all’infanzia. Una serie di vividi flashbacks consente allo spettatore di conoscere il terribile destino della famiglia di Aram che fu completamente annientata durante la persecuzione e il genocidio degli armeni, avvenuto nel 1915 ad opera dell’esercito e di settori della popolazione turchi (un evento che fu sempre negato dai vari governi tirchi che si sono succeduti fino ad oggi). Durante quei tragici giorni Aram, ancora adolescente, riuscì a salvarsi fuggendo solo in una landa desolata.In preda a quelle spaventose allucinazioni e distorsioni della memoria, isolato nel soffocante rifugio, il protagonista inizia a disegnare, dapprima sui fogli di un quadernetto, poi su pezzi di corteccia, ritratti e immagini dei suoi familiari persi per sempre.
Nel frattempo gradualmente sviluppa una relazione amorosa con Meryem che, a sua volta, si sente imprigionata in un matrimonio senza amore. La maggior parte del film è caratterizzata da dialoghi scarsi, mentre la progressiva attrazione tra Meryem e Aram viene svelata attraverso una sottile strategia visiva. Per i due amanti la fuga oltre confine diventa l’unica opzione di salvezza. Özcan Alper offre un’intensa rappresentazione delle modalità con cui il governo turco ha perseguitato le minoranze etniche nel 1915 e durante la Seconda Guerra Mondiale. Non propone una palese denuncia circa le responsabilità storiche dei turchi, quantunque i riferimenti politici alla fine emergano chiaramente. Inseriti nel quadro dell’epoca, i temi del trascorrere del tempo, dell’amore, dell’esilio, della morte e dell’anelito alla libertà configurano un’atmosfera piuttosto emozionante, anche se le modalità narrative e la messa in scena risultano parzialmente viziate da soluzioni convenzionali.
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"Rüzgarin hatilaralari (Memories of the Wind) " Özcan Alper
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Infine proponiamo la critica di Kor (Ember), uno dei migliori film della “Golden Tulip International Competition”, realizzato da uno dei più importanti registi turchi della terza generazione: Zeki Demirkubuz. Zeki, nato nel 1964, è un filmmaker orgogliosamente indipendente, titolare della propria casa di produzione. È un regista che non nasconde il suo scetticismo rispetto all’ordine sociale e anche al proprio ruolo professionale. Partendo da un presupposto che considera la vita come una ricerca senza speranza della verità, il cinema diventa per lui il medium per realizzare questo futile e fallimentare inseguimento. Ciò si riflette nel suo stile visivo che è semplice e spesso volutamente inelegante. I suoi protagonisti vagano sullo schermo sempre tormentati da fantasmi interiori e immersi in una spirale egocentrica di fronte alla durezza della vita. Si aggrappano a surrogati fatali (ossessioni, gelosie, tentativi di inserimento sociale) che sono persistenti e diventano il motore e la causa inevitabile dei loro comportamenti e della loro esistenza. D’altronde il loro punto di vista condiziona tutta la narrazione delle storie. Per altro Demirkubuz descrive i loro travagli senza disprezzo, ma anche senza compassione. Kor (Ember), il suo ultimo film, è un melodramma - noir claustrofobico. Propone l’osservazione ravvicinata delle dinamiche di un triangolo amoroso tra una donna e due uomini. Demirkubuz conferma il suo pessimismo rispetto all’attitudine e ai comportamenti umani, ma configura anche un ritratto antropologico e sociale molto ben articolato e controllato. Rispetto ai suoi film precedenti si nota una maggior compassione nei confronti dei protagonisti, intrappolati in un desiderio senza meta e in una vana ricerca della felicità, tra angoscia e menzogne. Al tempo stesso il film mostra, senza cadere nella tentazione didascalica o nel banale psicologismo, la decadenza morale di una società soffocata dall’avarizia, dalla debolezza, dalle ossessioni, dalla gelosia e da tentativi frustrati di integrazione sociale. Al centro della vicenda troviamo Emine (Aslihan Gürbüz), un’attraente trentenne che è una sarta esperta. Suo marito Cemal (Caner Cindoruk), che si era recato in Romania per cercare un lavoro, è stato arrestato. Quindi la donna è rimasta sola con un bambino malato che dovrebbe essere urgentemente sottoposto a un intervento chirurgico. Avendo accettato un lavoro di cucitura a mano in una sartoria, un giorno si imbatte in Ziya (Taner Birsel), un cinquantenne pragmatico e sicuro di sé che in passato è stato il datore di lavoro di Cemal. L’uomo non resta indifferente quando Emine le racconta la sua triste condizione ed essendone stato innamorato in passato, prima che la donna decidesse di sposare Cemal, effettua il pagamento dell’intervento chirurgico a cui viene poi sottoposto il bambino. Successivamente, nonostante sia sposato, Ziya inizia una relazione con la stessa Emine. Peraltro la situazione appare molto ambigua. La donna fa l’amore con Ziya, ma non è chiaro se sia veramente attratta dall’amante o se voglia meramente esprimergli la sua gratitudine. D’altronde anche l’uomo le promette di voler abbandonare sua moglie, ma in realtà non intraprende alcuna concreta iniziativa conseguente i quel senso. Dopo alcuni mesi Cemal ritorna a casa e ritrova Emine impiegata nella sartoria e suo figlio guarito e in buona salute.
"Kor (Ember)", Zeki Demirkubuz |
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Tuttavia, quando casualmente scopre l’ingente fattura relativa all’intervento chirurgico pagato da Ziya, capisce che sua moglie Emine gli ha nascosto quella circostanza. Cemal, che già in passato aveva addossato a Ziyia la colpa dei suoi insuccessi lavorativi, è estremamente geloso e non riesce a ignorare il sospetto che Emine gli sia stata infedele. Demirkubuz ha dichiarato che la natura umana comprende un mix di razionalità e irrazionalità, vincoli morali e desideri, ragionamento e casualità: le radici del bene e quelle del male. In Kor (Ember) riafferma il suo fatalismo rispetto alla natura umana con cui si deve convivere senza speranza né capacità di modificarla o mitigarla. In effetti sembra che il peggior dolore sofferto resti nascosto e inafferrabile nella natura intima di chi lo abbia subito. Al tempo stesso questo film fa rammentare anche il cinema del regista iraniano Asghar Farhadi che focalizza gli obblighi, le convenzioni e il conformismo di una società dominata dalle bugie e dalla doppia morale. Da segnalare infine che, in questo thriller psicologico atipico e pluristratificato, la narrazione è fluida e la direzione degli attori risulta molto efficace
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