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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 66. BERLINALE 2016 I DI GIOVANNI OTTONE I 2016

BERLINALE 2016

Vince il cinema italiano

I Premi principali sono stati assegnati a :
Gianfranco Rosi, Danis Tanovic,
Lav Diaz e Mia Hansen-Love

 

 

 

 

Di GIOVANNI OTTONE

"Fuocoammare", Gianfranco Rosi

Berlinale

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La sessantaseiesima edizione della “Berlinale”,  ha riconfermato la sua tradizione di impegno e di qualità, presentando molte opere che affrontano temi di grande attualità e di impegno civile,  ma anche film che trattano in termini nuovi il disagio all’interno dei rapporti di coppia e nella famiglia, e ha promosso diversi giovani autori di talento. Numerosi i film nuovi, un totale di circa 187 premières mondiali e decine di anteprime internazionali (ben 19 anteprime mondiali nella sezione competitiva ufficiale e 18 lungometraggi opere prime, presenti nelle varie sezioni, in lizza per il Best First Feature Award), diversi dei quali caratterizzati da forme narrative e soluzioni formali innovative. Il programma delle varie sezioni del Festival ha offerto sia un ampio panorama della cinematografia mondiale più attuale, attraverso il consueto mix di grandi produzioni di Hollywood (tra cui alcuni dei concorrenti ai prossimi imminenti Oscar) e di opere indipendenti, di finzione e documentari, sia iniziative, di alto profilo, di dibattito su temi culturali e su problemi di progettazione e di produzione cinematografica. La “Berlinale”, svolgendosi in una delle principali metropoli europee, è indirizzata prima di tutto al pubblico (un totale di circa 300.000 biglietti venduti), garantendo un’ottima fruizione degli oltre 400 film proposti nelle varie sezioni e presentati in un totale di  una settantina di sale, tra cui il magnifico Berlinale Palace e le multisale vicine, nella modernissima area di Postdamer Platz, ma anche le storiche e le eccellenti sale della zona orientale della città, tra cui l’antico Friedrichstadt-Palast, perfettamente ristrutturato, e, in aggiunta, anche gli storici cinema della zona occidentale, Zoo Palast, Delphi FilmPalast e Haus der Berliner Festspiele, perfettamente fornita di nuovissime tecnologie, a Charlottenburg. In effetti è il terzo principale Festival cinematografico mondiale per importanza e quindi è un appuntamento fondamentale per una vera folla di addetti professionali. Da un lato i soli critici e giornalisti accreditati sono stati circa 4000. Dall’altro gli operatori dell’industria, funzionari ed agenti delle compagnie di produzione e di distribuzione, buyers e sellers, hanno animato, come di consueto, lo “European Film Market”. È uno dei principali appuntamenti mondiali del business internazionale, dove si sono visti e contrattati circa  un migliaio di film. Si svolge parallelamente al Festival ed è collocato nel vicino magnifico edificio, in stile rinascimentale, Martin-Gropius-Bau. Il totale degli accreditati dell’industria, comprensivo di registi, attori e tecnici vari, produttori e finanziatori del “Co-Production Market” (alla sua nona edizione), è stato di circa 8000 (di cui circa 2600 buyers), provenienti da circa 200 Paesi, con una presenza di un numero approssimativo di oltre 500 società e compagnie. Programme, i partner e gli sponsor che sostengono la prestigiosa rassegna cinematografica.

Quest’anno la sezione Wettbewerg, competizione ufficiale, ha presentato 18 lungometraggi in concorso e 5 fuori concorso, con una prevalenza di film di produzione europea. È stata caratterizzata da un mix di registi cinquantenni e veterani (André Téchiné, Thomas Vinterberg, Lav Diaz, Vicent Perez, Lee Tamahori e altri), di vari autori emergenti, trentenni e quarantenni (Mia Hansen-Løve, Gianfranco Rosi, Denis Côté, Ivo M. Ferreira, Yang Chao, Danis Tanovi? e altri), con due esordi (Michael Grandage e Mohamed Ben Attia) e da una rappresentanza, ormai usuale, ma ridotta, di noti registi statunitensi (Joel & Ethan Coen, Jeff Nichols e Spike Lee). Si è trattato di una selezione di discreta qualità, con una prevalenza di drammi esistenziali attuali e d’epoca e con attenzione a problematiche di diritti negati e di discriminazioni. La Giuria ufficiale è stata presieduta dall’attrice regista statunitense Meryl Streep. Gli altri componenti sono stati i seguenti: i registi Michel Franco (Messico); Ursula Meier (Svizzera) e Malgorzata Szumowska (Polonia); il direttore della fotografia Brigitte Lacombe (Francia); gli attori Clive Owen (Gran Bretagna), Lars Eidinger (Germania) e Enrico Lo Verso (Italia); l’attrice Alba Rohrwacher (Italia); il critico cinematografico e programmer Nick James (Gran Bretagna).

L’Orso d’Oro al miglior film è stato attribuito a Fuocoammare, del regista italiano Gianfranco Rosi. Allo stesso film è stato assegnato il Premio al miglior film da parte della della Ecumenical Jury. Vincitore annunciato della Berlinale di quest’anno, capitato proprio al momento giusto e nel contesto giusto, quello tedesco ed europeo, in cui il tema dei cosiddetti ”migranti”, è attualissimo, scottante , tragico e  agita le coscienze di tutti. È un feature documentary, vale a dire un documentario con forti elementi finzionali costruiti con gli strumenti, sceneggiatura e messa in scena, tipici della narrazione cinematografica. È un’ode, piuttosto scontata e abbastanza artificiosa agli abitanti dell’isola di Lampedusa (dispersa nel Mediterraneo a sud della Sicilia, da cui dista 205 chilometri, mentre ne dista 113 dalle coste africane della  Tunisia) e al loro modo di vivere. Al tempo stesso offre una testimonianza diretta  della tragedia  di migliaia di “migranti” clandestini che da anni sbarcano a Lampedusa provenienti dalle coste nordafricane,  per approdare in Europa, o che annegano durante il viaggio per arrivarvi. L’approccio  iniziale vede  gli incontri di Rosi con vari abitanti dell’isola, che dichiarano  il loro vissuto, consentendo al regista di rielaborarlo in termini di “storie”, che, purtroppo, in gran parte si caratterizzano in senso dissonante, prosaico e umoristico.

International Film Festival Rotterdam

"Fuocoammare", Gianfranco Rosi

 

Samuele, un ragazzino dodicenne, frequenta la scuola, ma ama soprattutto tirare sassi,  usando la fionda, qui e là tra i cespugli, e cercando di colpire gli uccelli che vi si nascondono. L’unico medico dell’isola non riesce ad abituarsi al pressoché quotidiano confronto con decine e decine di migranti  sofferenti, feriti o malati che approdano sull’isola dopo essere stati salvati dai mezzi navali  soccorritori italiani o di altri Paesi. Racconta di quali siano i problemi di cui soffrono; ustioni da nafta, disidratazione e  denutrizione. Una coppia di anziani è filmata nei momenti della quotidianità. Un deejay di una radio libera propone a richiesta musica neomelodica e canti popolari siciliani su richiesta. Un pescatore subacqueo racconta e mostra il suo impegno ecologico. Mescolati  tra questi incontri e tra queste “storie” compaiono i ” migranti”. Dopo aver mostrato in ogni suo dettaglio le difficili operazioni di salvataggio di un barcone carico di disperati in fuga dalla Libia da parte delle autorità italiane, Rosi riceve l’autorizzazione a visitarlo. Tutti i sopravvissuti sono già stati trasferiti su altre imbarcazioni e la videocamera si sofferma su decine di cadaveri accatastati nella stiva: sono quelli che sono annegati.

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Questa sequenza e queste immagini hanno suscitato forti polemiche anche perché Rosi  propone inquadrature studiate. Quindi, attraverso questa documentazione, la morte reale diventa in ogni caso elemento di studio per l’immaginario. Allo spettatore vengono anche mostrate le procedure di identificazione, quando la stessa è possibile. Poi vi sono le immagini di una visita al centro di accoglienza: i “migranti” ospitati si sono divisi per Paese di origine, etnia e, religione, e non c’è mescolanza tra loro. Comunque Rosi resiste al desiderio di concentrare l’attenzione su una o più storie dei “migranti”. Esclusa una breve parentesi in cui  vengono mostrate le immagini abbastanza retoriche di una preghiera di profughi nigeriani sopravvissuti, questi uomini e donne restano  sembrano fantasmi anche  dopo essere stati rifocillati e rivestiti con abiti puliti. Il loro mondo, di popolo anonimo con identicità perdute o incerte, ad eccezione di alcune mediazioni, non si incontra con quello degli abitanti di Lampedusa. Fuocoammare conferma, come i precedenti feature documentary, in particolare l’ottimo Below Sea Level (2008) e il mediocre e molto discutibile Sacro GRA (2013), la poetica del regista. In sostanza Rosi dimostra sincero interesse per la condizione umana e vuole far intendere aspetti specifici di un contesto sociologico e culturale. In generale la sua strategia e il suo approccio consistono nello spiare e nel raccontare una realtà “ordinaria” e nel renderla eccezionale reinventandola in termini di storie cinematografiche. Attraverso testimonianze e interviste fa emergere varie storie individuali di  solitudine e di rifiuto della normalità, ma anche di desiderio di vita e di identità, di dignità lavorativa e di etica normale e virtuosa. Monologhi, riflessioni, ricordi e zone d’ombra compongono un mosaico di protagonisti comunque vitali. Tuttavia i film di Gianfranco Rosi sono spesso carenti proprio nel respiro e nella qualità della narrazione: cadono nel bozzettismo e nella deriva programmatica e ideologica e  propongono troppi stereotipi. Viceversa occorre segnalare la sua grande maestria stilistica che si sostanzia in alcuni aspetti decisivi: la giusta distanza tra macchina da presa e luoghi o persone, le prospettive e i punti di osservazione, la qualità delle interviste.

L’Orso d’Argento, Gran premio della Giuria, è stato assegnato a Smrt u Sarajevu (Death in Sarajevo), del regista bosniaco Danis Tanovic . Allo stesso film è stato assegnato il Premio al miglior film da parte della della Giuria dei critici della FIPRESCI.  Il film propone una parabola satirica e drammatica  rispetto a sogni e incubi a sfondo politico. È ambientato a Sarajevo, nell’Hotel Europa, un palazzone moderno dotato di tutti i confort e delle tecnologie, il migliore della città. La  vicenda si svolge il 28 giugno 2014, data che segna il centenario dell’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero di Austria e Ungheria, che portò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, L’Unione Europea ha organizzato un convegno e un incontro di gala della diplomazia internazionale per giungere a formulare un appello  per la pace e la cooperazione mondiale. Tuttavia il personale dell’albergo è in agitazione e minaccia di indire uno sciopero per protestare contro il mancato pagamento dei salari da due mesi. Il direttore Omer (Izudin Bajrovic) aspetta trepidante l'ospite VIP francese Jacques (Jacques Weber), relatore principale  dell’evento. Dopo il suo arrivo la scrupolosa receptionist Lamija (Snezana Vidovic), porta la camicia dell’ospite in lavanderia. Nel frattempo Omer cerca freneticamente di evitare lo sciopero del personale. Poiché i dipendenti non vogliono recedere dal loro propositi,  chiede aiuto a Enco (Aleksandar Seksan), il proprietario mafioso dello strip and poker club  situato nel seminterrato dell'hotel. Poco dopo sulla panoramica terrazza dell’hotel la volitiva giornalista televisiva Vedrana (Vedrana Seksan) sta intervistando il sedicente presunto discendente di Gavrilo Princip (il nazionalista serbo-bosniaco che nel 1914 sparò all’Arciduca uccidendolo), chiamato anch'egli Gavrilo (Muhamed Hadzovic). Davanti alle telecamere i due  inscenano un diverbio che rapidamente passa  dal contrasto sulla figura e sul ruolo di Princip nella storia (eroe o terrorista?) alle questioni della più recente guerra civile degli anni ’90, fino all'infinita divisione della Bosnia tra “noi” e  “loro”. Questo film corale si svolge interamente nell’hotel. Il puzzle di microstorie, più o meno correlate e contemporanee, si sviluppa  nei vari spazi e ambienti. Sulla terrazza si discute di storia e di religione. Nella parte centrale della struttura, c'è tensione per il grande evento e per lo sciopero.  Nel seminterrato regna la malavita. Il film è basato sul monodramma  teatrale Hotel Europe “ del noto filosofo francese Bernard-Henri Lévy. Tanovi? volge lo sguardo alla società bosniaca ed europea contemporanea e vorrebbe  mostrare come il passato e il presente siano indissolubilmente intrecciati.  Tuttavia non  propone una seria riflessione sui tragici eventi  della guerra civile interetnica in Bosnia tra il 1992 e il 1996 che provocò il lunghissimo assedio e le mille stragi a Sarajevo e sul nazionalismo revanchista che tuttora è diffuso nei territori della ex Jugoslavia.

Mentre purtroppo lascia sottendere una critica disfattista e qualunquistica nei confronti dell’Unione Europea, denunciandone la crisi attuale in termini parodistici. L’Europa diventa il grande albergo  in cui il direttore fa spiare le assemblee sindacali utilizzando il sistema di sicurezza di videosorveglianza, si sbarazza dei dipendenti scomodi e abusa delle sue hostess avvenenti. Lo stesso hotel nei cui meandri permette che si organizzino bische clandestine.  Il direttore falso e ingannatore,  sembra incarnare le figure di Tito o di Milosevic, ma anche quelle dei burocrati dell’Unione Europea. Questa metafora di Tanovic, che presumibilmente integra malamente il già confuso Bernard-Henri Lévy, appare facile, semplicistica e di corto respiro e. il film affonda progressivamente in una comicità da mediocre vaudeville. Anche il dispositivo della messa in scena risulta pretenzioso e approssimativo, tra carrellate, attraverso il labirinto dell’hotel, improbabili più che giocose e ardite, e il brutto gioco multimediale che introduce  varianti estetiche televisive e immagini dello schermo del computer.

 

Berlinale

"Death in Sarajevo", Danis Tanovic

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L’Orso d’Argento Alfred Bauer Prize, dedicato al fondatore della Berlinale, con la specificazione “ad un feature film che apre nuove prospettive”, è stato conferito a Hele Sa Higawagang Hapis (A Lullaby by the Sorrowful Mistery), del  filippino Lav Diaz. È un dramma storico, politico ed esistenziale di lunghezza fuori dagli standard ordinari (482’), come nel caso  di molti precedenti film dello stesso regista, uno dei più noti esponenti della new wave del cinema filippino. Diaz racconta un intreccio di fatti, tra storia, leggenda, mitologia, letteratura e poesia, che si inquadrano nella Rivoluzione Filippina del 1896-98 che determinò la fine della dominazione coloniale spagnola. La trama in sintesi è la seguente. Il 30 dicembre 1896 viene eseguita dagli occupanti spagnoli la condanna a morte del medico José Rizal, patriota e scrittore. Sarà l’inizio della rivoluzione. Alla testa del movimento rivoluzionario vi è l’organizzazione segreta Katipunan guidata da Andres Bonifacio, una società anticoloniale diffusa in molte isole dell'arcipelago, il cui intento è quello di porre fine al dominio spagnolo e ottenere l'indipendenza mediante rivolte armate. Inizialmente, Bonifacio ordina un attacco coordinato e simultaneo alla capitale Manila: questo fallisce, ma le province circostanti si uniscono alla rivolta. Poi una oscura lotta per il potere tra i rivoluzionari, con una regia degli spagnoli che fomentano le divisioni, porta all'esecuzione di Bonifacio nel 1897. In questo contesto si muovono alcuni personaggi: Simoun, Isagani e Gregoria de Jesus che cerca disperatamente il corpo di suo marito, il padre della rivoluzione Andres Bonifacio. E aleggia la figura mitica dell’eroe Bernardo Carpio e quella mitologica di Tikbalang / Engkanto, metà uomo e metà cavallo. Il film è un dichiarato atto di amore e di compassione da parte di Diaz verso il proprio Paese.  Lav Diaz è privo di compromessi.  Il suo è un cinema dell’escavazione nella memoria di un Paese dalla storia tormentata, un cinema del disseppellimento del rimosso  e della riesumazione dei fantasmi del passato È esteticamente rigoroso, a partire dal vivido bianco e nero, e omogeneamente teso a descrivere percorsi esistenziali marcati da complesse problematiche sociali e politiche. Predilige le inquadrature long shots con effetti alternanti, a volte claustrofobici o penetranti, altre di grande respiro, i lenti movimenti della macchina da presa, e  lunghissimi vertiginosi piani sequenza o, in alternativa, inquadrature fisse su paesaggi brulli o all’opposto brulicanti. Spesso mescola i dialoghi a rumori ambientali  o  li trasforma in un chiacchiericcio poco decifrabile. I suoi personaggi sono tristi, lacerati e perseguitati, ma dimostrano anche volontà di capire e di battersi per combattere il dolore e per sopravvivere. Quantunque in molti dei suoi film la vera protagonista è la foresta. Una selva sempre lussureggiante spesso  battuta dalle piogge e dai venti,  affinché  possano offrirsi allo spettatore magnifiche immagini di esseri umani travolti dallo strapotere della natura. E nelle foreste ci sono sempre capanne o antri e caverne  di meravigliosa architettura spontanea che diventano rifugi.

International Film Festival Rotterdam

"A Lullaby", Lav Diaz

 

Anche in A Lullaby by the Sorrowful Mistery si confermano queste magistrali scelte stilistiche e poetiche, ma, purtroppo prevale un profilo retorico con un flusso continuo di dialoghi dolenti e moraleggianti. Probabilmente la sua intenzione era quella di effettuare, come nelle sue opere precedenti, una meditazione poetica e “politica” sulla vita, sulla sofferenza e sulla lotta. Purtroppo invece si perde in una saga che si avvita su sé stessa, conuna trama ondivaga, personaggi poco comprensibili, intrappolati in uno sterile naturalismo esotico,ed estenuanti vagabondaggi nella foresta pluviale, che è il luogo dell’inconscio, dell’onirico e dell’inatteso. La mancanza di una  narrazione forte, la casualità e  la capricciosità dell’ispirazione, il narcisismo che spesso antepone la creazione della bella immagine, la verbosità dei personaggi portano a uno sfilacciamento del film  in un assemblaggio caotico di  filoni ed episodi, alcuni dei quali anche fortemente suggestivi e riusciti, ma sconnessi. Per non parlare di un’incapacità a concludere questo canto tragico che produce varie successive sequenze finali, appesantite da confusi intenti pedagogici.

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L’Orso d’Argento alla miglior regia, è stato attribuito a Mia Hansen-Løve, per il suo film L’avenir (Things to Come, quinto lungometraggio della regista francese. A questo film spetta una citazione speciale quale miglior film della competizione ufficiale, secondo il nostro giudizio. È un magnifico dramma esistenziale. La protagonista è Nathalie (Isabelle Huppert, molto empatica verso il personaggio), un’insegnante di filosofia cinquantenne in un prestigioso liceo parigino, molto energica e giovanile. Un’intellettuale radicale, ma non fanatica. Scrive e pubblica i suoi scritti per una piccola casa editrice. Ama il suo lavoro e la sua materia. Con il marito e i figli conduce una tranquilla esistenza. Ma una serie di eventi inaspettati cambierà tutto. Il marito la lascia improvvisamente per iniziare una relazione con un’altra donna e Nathalie sarà obbligata a reinventarsi una vita. La storia di una caduta e di una resurrezione come in tutti i precedenti film di Mia Hansen-Løve. Un film compulsivo, senza pause, con ellissi a volte anche di lunghi periodi.

 

Berlinale

"Things to Come", Mia Hansen-Love

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La fluttuazione della vita, che prevede però che ogni china possa essere risalita. Tuttavia a una serenità ritrovata sembra ci si arrivi non tanto con  la filosofia, il ragionamento logico o l’autoanalisi, ma con la riscoperta dei piaceri genuini, delle piccole cose e degli affetti dei figli e dei nipoti.

Al contrario incomprensibilmente nessun premio è stato attribuito a  un film in concorso, meritevole di pieno riconoscimento, secondo il nostro giudizio: Cartas da guerra (Letters from War), terzo lungometraggio del portoghese Ivo M. Ferreira. Parzialmente girato in Angola, è una parabola poetica tra tragica realtà bellica e riflessione privata. Un’elegia lucida e dolente su una ferita ancora aperta e tuttora molto condizionante la vita politica e lo spirito dei portoghesi: l’assurdità della guerra  coloniale in Africa (1961 - 1974), nella sua fase finale. Basandosi sulle lettere inviate alla consorte incinta, nel 1971-72, da António Lobo Antunes, medico militare ventottenne in servizio in Angola, interpretato nel film da Miguel Nunes,  il regista propone un film rigoroso e pervaso da una sottile tensione, in un nitido e saturo bianco e nero, impreziosito dalla magnifica fotografia curata da João Ribeiro. Un’opera che  fonde diario, reportage di una guerra crudele, dolorosa e logorante, e dichiarazione di nostalgia e tenerezza per  una moglie lontana.  Scanditi dalla  voce in off della moglie del protagonista Maria José (Margarida Vila-Nova), che legge le missive, apparendo in rari momenti come un fantasma che si muove in stanze vuote, si susseguono episodi  e piccole storie. Emergono la vitalità e la condizione di sfruttamento della popolazione locale, la natura diversa e affascinante, ma anche la triste routine quotidiana e la rassegnazione dei soldati portoghesi che si sentono sperduti in una guerra, che appare a molti di loro incomprensibile, e cercano un appiglio e un punto di riferimento e, infine,  pure alcune scene sanguinose del conflitto. Certamente  non può mancare il confronto con Tabu (2012)  il film  in cui l’altro portoghese di talento, Miguel Gomes,  mette in scena un eccezionale dramma esistenziale che contiene una visione molto originale del colonialismo portoghese in Africa. Anche quel film è girato in 35mm, in un magnifico bianco e nero. Ne promana una nostalgia diversa rispetto a quella di Cartas de guerra, meno malinconica e fatalista, più finemente umoristica e melodrammatica, giocata su dicotomie dialettiche: città / campagna; giorno / notte; nostalgia / esotismo; vecchiaia / giovinezza; solitudine / amore; matrimonio felice / adulterio. 

International Film Festival Rotterdam

"Letters from War", Ivo M. Ferreira

 

Lo sguardo di Gomes, limpidamente antinaturalistico, è nutrito da continue torsioni e venato di sottile scetticismo laico sulla Storia e sulla memoria, sugli uomini, sulle classi sociali e sulla religione. Invece Ivo M. Ferreira pone al centro del suo film le lettere di Antunes (raccolte nel libro “D'este viver aqui neste papel descripto - Cartas da guerra”, pubblicato nel 2005 dopo la morte di Maria José Xavier da Fonseca e Costa) che esprimono un lungo lamento d’amore e di assenza, un dolce attaccamento e una passione che è diventata ossessione, ma anche indignazione, rabbia e reiterata ricerca di salvezza. Configura una sospensione in un limbo dal quale non emerge praticamente mai la “realtà”, seppur reinterpretata o reinventata, ma piuttosto la rappresentazione drammatica di un tempo passato dalle forme oniriche. Costruisce sapienti tableaux vivants e fonde magistralmente finzione e footage documentaristici.  Nonostante una narrazione in alcuni momenti esageratamente lenta, ma che simula quasi sempre efficacemente il flusso di coscienza di Antunes, e qualche eccesso nell’uso della voce in off, il film genera nello spettatore momenti di sincera commozione.

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Commentiamo inoltre un altro film molto atteso, perché “certificato” da un’affermata identità artistica del regista, che, nonostante alcuni aspetti di qualità, rappresenta un’occasione perduta. Quand on a 17 ans, ventesimo lungometraggio del settantenne francese André Téchiné, è un coming-of-age film che racconta il contrastato romanzo d’amore, carico di intensità e di tensione erotica, tra due diciassettenni maschi con forti discrepanze caratteriali, culturali e sociali. La vicenda si svolge in una cittadina della regione dei Pirenei francesi e si sviluppa, secondo il gusto di Téchiné, nell’arco delle stagioni,iniziando in autunno, attraverso un lungo inverno nevoso fino ad una calda estate con una natura prorompente. Damien (Kacey Mottet Klein) è uno studente brillante, sensibile, ma anche introverso e suscettibile. È piuttosto mingherlino e incerto rispetto alle scelte sessuali, motivo per cui spesso è vittima del bullismo dei compagni. Figlio di un medico di famiglia, la Dr.ssa Marianne (Sandrine Kiberlain), attraente, intelligente e volitiva e di Nathan (Alexis Loret) un pilota militare ben poco presente perché continuamente in missione anche all’estero, Damien prende lezioni di boxe da un vecchio amico di famiglia per imparare a difendersi. Thomas (Corentin Fila) è un ragazzo di origine maghrebina adottato da una famiglia proletaria di piccolissimi allevatori che vivono in una rustica baita isolata,  ad alcuni chilometri dal perimetro urbano. Di costituzione atletica, ombroso e abbastanza scorbutico, sicuro di sé ed esperto della durezza della vita,  aiuta i genitori nelle loro attività,  adora scorazzare tra i boschi  a contatto con la natura e ama gli animali. I due sono diventati compagni di classe  dall’inizio del nuovo anno scolastico. Un giorno durante una lezione di matematica Damien finisce per umiliare Thomas che reagisce con rabbia e medita una vendetta. Da quel momento non si sopportano e qualsiasi diverbio tra loro degenera in uno scontro fisico fino a farsi male: si prendono a pugni, si avvinghiano e rotolano a terra. Ovviamente le differenze tra loro li portano a detestarsi ancora di più. Al contrario Marianne, che ha conosciuto e apprezzato Thomas e forse ne subisce anche il fascino oscuro, se ne affeziona. Quando la madre  del ragazzo resta incinta dopo innumerevoli aborti e riesce a portare avanti la gravidanza, Marianne che la segue come medico curante, decide di assumere l’iniziativa anche perché intuisce che Thomas è intimamente turbato temendo di essere meno amato in futuro quando sarà nato il figlio naturale dei suoi genitori. Quindi essendo la donna ricoverata in ospedale fino alla fine della gravidanza, Marianne, per facilitare i contatti tra Thomas e sua madre,  convince il “nemico” di suo figlio a stabilirsi come ospite nel loro alloggio. Inizialmente Damien è molto contrariato rispetto alla coabitazione forzata imposta da sua madre, ma dopo  alcune piccole schermaglie, la situazione si stabilizza in un triangolo anomalo ma non conflittuale. Inizia un complicatissimo percorso che porta gradualmente i due ragazzi a conoscersi meglio, a stimarsi e a sperimentare le prime complicità, poi la nascita tortuosa del desiderio sessuale e infine una relazione amorosa che viene dapprima negata e poi accettata pienamente. Una costante del cinema di Téchiné è quella della rappresentazione della natura umana attraverso il dolore che mina l’esistenza e la capacità di non lasciarsi sopraffare attraverso l’impulso di continuare a vivere. Indubbiamente in questo film il regista propone un percorso di maturazione amorosa articolato e affronta il tema dell’omosessualità tra i giovani con uno sguardo fresco e pudico, cercando di evitare gli stereotipi. Il ritratto di due ragazzi nella tarda adolescenza che sperimentano tutte le incertezze e la confusione della giovinezza, tra  entusiasmo e delusioni, slanci e dubbi, ostilità iniziale e  successivo sentire in comune, desideri e attrazione, risulta parzialmente efficace, ma non nuovo. I personaggi sono costruiti con cura e denotano spessore emotivo e vivacità comportamentale e la narrazione è energica e meticolosa, ma sono molte le forzature artificiose. Quindi il film, purtroppo, emoziona raramente e lascia la sensazione di soluzioni troppo scontate. Se si pensa a uno dei film più riusciti di Téchiné, Les roseaux sauvages, realizzato nel lontano 1994, la cui vicenda è molto simile a quella raccontata, in Quand on a 17 ans, si nota una ripetizione di approccio, di meccanismi esistenziali e di stile, ma purtroppo in termini più prosaici.

Probabilmente la collaborazione nella scrittura della sceneggiatura tra Téchiné e Céline Sciamma  che ha scritto e diretto, tra il 2007 e il 2014,  proprio film di cui sono protagonisti gli adolescenti, con  la loro identità e la loro sessualità, (Naissance de pieuvres, Tomboy e Bande de filles), non ha prodotto risultati apprezzabili. Ad esempio lascia perplessi la scelta di coniugare il paesaggio psicologico del trio di protagonisti con  un’ambientazione naturale  troppo idealizzata. Anche la progressiva e definitiva scoperta della gioia di vivere, dell’importanza degli altri e della comunità configura una programmaticità che rasenta la deriva ideologica. La rete dei rapporti, la geometria dei desideri, delle pulsioni, del piacere e della repulsione, l’ambiguità dei sentimenti, le paure e le opposizioni  diventano, nel corso del film, prevedibili e quasi banali e la tensione assume toni di maniera. Fino al finale del tutto immaginabile, visibilmente atteso,  troppo facile e perfetto persino nell’immediata intesa sessuale tra Damien e Thomas in occasione del loro primo rapporto.

 

Berlinale

"Quand on a 17 ans", Andre Téchine

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A livello stilistico si segnala un uso continuo e impulsivo della telecamera a mano  per catturare il linguaggio del corpo dei protagonisti.  Il montaggio segue logiche di aggressività e di velocità per fare risaltare gli scambi e le biforcazioni degli accadimenti e la loro eco nell’esistenza dei personaggi.

Schede di segnalazione di  film delle altre sezioni della Berlinale 2016

Sezione Berlinale Special

International Film Festival Rotterdam

"Creepy", Kiyoshi Kurosawa

 

CREEPY, di Kiyoshi Kurosawa (Giappone)

Un magnifico thriller centrato sui tormenti delle anime, con attori eccellenti. Un mondo in cui il male sfrutta fragilità, sensi di colpa e paure che minano le famiglie. Un esperto detective, diventato professore di psicologia criminale, e sua moglie si trovano di fronte l’uomo della porta accanto: strano, ambiguo, amichevole e misconosciuto serial killer che manipola le sue vittime. Kiyoshi Kurosawa, in gran spolvero e mai autocompiaciuto, propone un meccanismo insinuante e progressivamente raggelante, con sconcertanti torsioni narrative. Rivisita Hitchcock, e anche Truffaut, ed esibisce elaborati movimenti di macchina.



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Sezione  Panorama e Panorama Special

LANTOURI, di Reza Dormishian (Iran)

Uno spaccato radicale della gioventù urbana di Teheran. Ma anche una tragica ossessione per una love story impossibile. Una gang di giovani outsiders proletari compie scippi, furti nelle case dei ricchi e dei corrotti e sequestri. Pasha, il loro boss, si invaghisce di Maryan, una giornalista impegnata socialmente, ma la donna rifiuta le sue avances. L’uomo perde la testa e le getta dell’acido in faccia sfigurandola. Dopo l’arresto del reo, la donna chiede ai giudici  di applicare la “legge del taglione”, prevista dal codice penale. Il film mescola finzione thriller e reportage investigativo, con interviste - testimonianze dei protagonisti e di sociologi, attivisti dei diritti umani e persino persone ordinarie.

 


 

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"Lantouri ", Reza Dormishian

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International Film Festival Rotterdam

"El rey del once", Daniel Burman

 

EL REY DEL ONCE, di Daniel Burman (Argentina)

Una deliziosa commedia agro-dolce, molto vitale e divertente. E un racconto di formazione tardiva, minimalista, intelligente e ben stratificato. Daniel Burman ripropone uno dei temi preferiti del suo cinema, il rapporto padre - figlio. Il quasi quarantenne Ariel torna a Buenos Aires, dopo molti anni  trascorsi a New York, per incontrare Usher, il padre che gestisce una fondazione caritatevole nel quartiere popolare ebraico Once. Viene coinvolto in una comunità vibrante e solidale, riscopre consuetudini del suo popolo che aveva tralasciato e ritrova radici e identità. Burman punta su dettagli documentaristici, piccole sensazioni ed emozioni: mai banale, a tratti emozionante.




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Sezione  International Forum of New Cinema

LE FILS DE JOSEPH, di Eugène Green (Francia)

Una piacevolissima parabola che  reinterpreta referenze bibliche nel quadro di una rappresentazione caustica del mondo contemporaneo. Una “commedia drammatica” intrigante, artificiosa e anacronistica, in cui la teologia rivisitata incontra la caricatura graffiante. A Parigi d’estate. Vincent, quindicenne ombroso, vive con la madre single Marie.  Scopre che suo padre è Oscar, un ricco editore, arrogante e perfido, che non sa nulla di quel figlio. Con l’aiuto del benevolo Joseph, il ragazzo compirà una vendetta simbolica e troverà  un vero padre amorevole. Green si esprime al massimo livello, con ironia disincantata, sulle note della musica barocca rouge

 


 

Berlinale

"Le fils de Joseph", Eugène Green

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66. BERLINALE FILM FESTIVAL 2016

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11 - 21 / 02/ 2016

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