interference
interference
eng
de
es
it
it
tr
 
px px px
I
I
I
I
I
I
 

px

impressum
contact
archive
facebook

 

px

 

pxrouge FESTIVAL REVIEWS I ROTTERDAM FILM FESTIVAL 2016 I DI GIOVANNI OTTONE I 2016

ROTTERDAM FILM FESTIVAL 2016

Vince il cinema indipendente dagli USA e dalla Colombia

Premiati: Babak Jalali, Pablo Lamar e Ciro Guerra

 

 

Di GIOVANNI OTTONE

"Neon Bull", Gabriel Mascaro

International Film Festival Rotterdam

px
px

L’International Film Festival Rotterdam (IFFR), è indubbiamente la più importante rassegna di cinema d’autore e indipendente a livello mondiale e gode di un pubblico vastissimo: quest’anno sono stati calcolati circa 310.000 spettatori, sommando tutte le proiezioni. Quest’anno vi hanno partecipato 300 filmakers e visual artists e circa 600 giornalisti accreditati, provenienti da tutto il mondo. Il Festival è noto sia per la promozione di giovani registi (ogni anno sono decine gli esordienti) sia per la presenza di produzioni indipendenti, in larghissima maggioranza, provenienti da tutti i continenti ed in particolare dai Paesi asiatici e del sud del mondo.

Il programma è tradizionalmente molto ampio. Quest’anno i film presentati, tra lungometraggi e cortometraggi, documentari e opere di fiction sono stati oltre 600 e le prime mondiali sono state 106. Il nuovo Direttore Bero Beyer, che ha sostituito il dimissionario Rutger Wolfson, ha sostanzialmente confermato la formula molto aperta del Festival, ma ha riformulato l’articolazione della rassegna che è stata articolata in 4 sezioni, rinnovando parzialmente le precedenti, con raggruppamenti diversi delle tendenze cinematografiche tradizionalmente privilegiate dal Festival. In effetti dalla  revisione attuata sono risultati i seguenti programmi - sezioni: “Bright Future”, riservata a nuovi talenti, che hanno realizzato opere prime e seconde particolarmente originali e innovative, comprendente al suo interno la classica Hivos Tiger Awards Competition” per i lungometraggi della competizione ufficiale, limitati a 8 (mentre lo scorso anno erano 13), che sono stati definiti “di qualità eccezionale”, e la “Tiger Awards Competition for Short Films; “Voices”, riservata ad autori già affermati, con visioni ormai mature e potenti,  comprendente anche la selezione “Limelight”, che accoglie art house film già presentati in altri prestigiosi Festival nel mondo nel 2015 e programmati come premières olandesi durante l’IFFR; Deep Focus,  dedicata all’approfondimento di autori e tendenze rilevanti e significative attraverso piccole rassegne tematiche e retrospettive-omaggio; Perspectives, riservata all’esplorazione dei legami e delle interrelazioni tra visual art, musica, installazioni e altri media che influenzano il cinema producendo opere di diversa e innovativa concezione.  In aggiunta è stata  confermata la nuova competizione, inaugurata nella 42a edizione del Festival, “Big Screen Award Competition”, comprendente 8 lungometraggi tra quelli presentati nella sezione “Voices” , ideata con lo scopo di garantire un supporto alla distribuzione di lungometraggi di qualità nelle sale cinematografiche olandesi.

Peraltro sono anche da sottolineare le importanti iniziative collaterali che avvengono ogni anno durante il Festival. Si tratta di una miriade di appuntamenti, seminari, dibattiti, performances ed esposizioni che consentono significativi contatti con gli autori e ricche occasioni, per approfondimenti e per discutere la preparazione di lavori futuri, alle centinaia di giornalisti, produttori, distributori e tecnici provenienti da tutto il mondo. Gli incontri notturni organizzati dal Festival ed intitolati “Passion and Promises” hanno riscosso un ottimo successo di pubblico. Si è trattato di un vero e proprio confronto con alcuni registi delle nuove generazioni i cui film erano presentati nella sezione competitiva o in quella denominata “Bright Future”. Ogni sera uno di loro ha commentato il proprio film e un film che lo ha particolarmente influenzato, con proiezione di alcuni spezzoni di ognuno. Infine il “CineMart”, l’appuntamento annuale giunto alla trentunesima edizione. Si tratta di un ambito del Festival dove si incontrano, in sessioni di lavoro, i filmakers e i produttori interessati a possibili finanziamenti di nuovi film. Si tratta di un ambito del Festival dove si incontrano, in sessioni di lavoro, i filmakers e i produttori interessati a possibili finanziamenti di nuovi film, presentati come progetti definitivi, con sceneggiatura, piano di produzione e di realizzazione e budget. È un evento che dura tre giorni e pone a confronto un lotto specifico di operatori preselezionati. Quest’anno sono stati presentati 25 nuovi progetti di lungometraggi attualmente in sviluppo, non ancora filmati, prodotti o coprodotti da  una ventina di Paesi di Europa, Asia, Africa e Americhe. I vincitori dei Premi sono stati le seguenti opere prime e seconde “in fieri”:  Berlin Alexanderplatz, del tedesco Burhan Qurbani , che ha ottenuto il Euroimages Co-Production Development Award; Birds of passage, del colombiano Ciro Guerra, che ha conquistato l’ARTE International Prize; The strange ones,  degli statunitensi Christopher Radcliff e Lauren Wolkstein, a cui è stato assegnato il Premio  Wouter Barendrecht Award.

La sezione competitiva ufficiale, “Tiger Awards Competition”, ha presentato 8 lungometraggi, tutti opere prime o seconde. Rispetto al passato, quando da molti anni tre film ottenevano ex aequo gli Hivos Tiger Awards, si è passati a un nuovo regolamento che prevede l’attribuzione da parte della Giuria  di due soli Premi: l’Hivos Tiger Award al miglior film, che consiste in 40.000 euro da spartire tra il regista e il produttore dello stesso; uno Special Jury Award di 10.000 euro da attribuire a un film considerato un traguardo di eccezionale livello artistico. Commentiamo quindi di seguito i due film premiati.

International Film Festival Rotterdam

"Radio Dreams ", Babak Jalili

 

Radio Dreams, opera seconda di Babak Jalili, regista iraniano trentenne, radicato a Londra, a Parigi e negli Stati Uniti, ha ottenuto l’Hivos Tiger Award al miglior film. Si tratta di una commedia minimalista e intimista, divertente e intelligente. Il protagonista è il trentenne iraniano Hamid Royani (Mohsen Namjoo, un musicista molto noto in Iran). Immigrato negli Stati Uniti, vive a San Francisco, dove dirige la programmazione di Radio Pars, una piccola emittente radiofonica in lingua farsi. In Iran è stato un rispettato autore letterario e tenta, con i mezzi e i tempi che gli vengono forniti, di offrire programmi di alto livello artistico, dedicati ad iraniani e afghani della diaspora che si sono stabiliti nella Bay Area. Tuttavia le letture di poeti ermetici latinoamericani e i racconti di romanzieri sperimentali, nonché gli incontri con ospiti con cui discute temi ameni come “la storia delle scimmie nello spazio”, non sembrano aiutare  il bilancio finanziario della radio, che deve continuamente interrompere i programmi per trasmettere pubblicità di ristoranti di provincia e di centri dermatologici.

trailer Trailer

Solo un evento eccezionale sembrerebbe poter cambiare le sorti dell’emittente. In effetti i Kabul Dreams, la prima band rock nata in Afghanistan, hanno accettato un invito per un’intervista e per un’esibizione in jam session live in studio con la leggendaria band americana Metallica. Tuttavia Mr. Royani continua a manifestare  stanchezza e pessimismo perché nota l’indifferenza e lo scetticismo di molti dei dipendenti della radio. Nel frattempo le ore trascorrono e i Metallica non arrivano e nel piccolo staff l’ansia  si alterna ad un’insopportabile frustrazione. Babak Jalali mostra assonanze con i primi film di Jim Jarmush e ci fa ricordare certe atmosfere di Big Night (1996), di Campbell Scott e Stanley Tucci, ma rivela anche una familiarità con i documentari sperimentali e i videoclips. Propone un bozzetto vitale e brillante, con una struttura a episodi e  reminiscenze della stand-up comedy, ed evita la concitazione fine a sé stessa. Nell’arco di una lunga giornata d’attesa, una galleria di personaggi (incluso un cameo di Lars Ulrich, il drummer dei Metallica), ciascuno portatore della cultura derivante dalla propria origine e incarnazione differente dell’eradicazione data dall’esperienza migratoria, si esibisce in ragionamenti e dialoghi spiritosi e paradossali, contrapponendo isolazionismo e assimilazione, idealismo e pragmatismo.  Il film, favola fatalistica dolce-amara  riguardante la diaspora, in primis quella persiana,  propone un’utopia politica, prima ancora che artistica: il miraggio di  un incontro tra Medio Oriente e Stati Uniti, classicità e contemporaneità, poesia e attivismo. In continuo bilico tra commedia nonsense e meditazione poetica e politica, offre sia un’istantanea divertita e malinconica sulla perdita di identità per gli immigrati sia una simpatica ode a favore dei perdenti e dei naïf che pensano che la musica possa influire sulle sorti del mondo. Riesce a dimostrare una lodevole indipendenza e un sano atteggiamento critico rispetto ai miti della cultura e della controcultura americana, anche se purtroppo indulge in alcuni  spunti pretenziosi e non ci risparmia una ripetitività che in alcuni momenti gira a vuoto. 

La última tierra (Last Land), opera prima del paraguayano Pablo Lamar, ha ricevuto lo Special Jury Award. È un dramma esistenziale minimalista, molto stylist ed esteticamente raffinato, costruito sui temi della perdita e della morte. La vicenda si svolge in una  rustica casupola dove vive una coppia di anziani contadini, su una collina isolata, in un’area di foresta subtropicale. Lo spettatore non è posto nelle condizioni di capire chi siano: si deve pensare che siano due anonimi poveracci. La donna, che probabilmente è malata da molto tempo, giace immobilizzata a letto consumando una dolorosa lenta agonia. Nel corso della sua ultima notte il marito le è seduto accanto silenzioso nella cameretta disadorna illuminata dalla fiammella fioca di una candela. Si assiste  alla penosa sofferenza della donna che emette un respiro stertoroso irregolare: un laborioso rantolo indice della morte imminente. L’uomo mastica qualche boccone di cibo e lo fa cadere nella bocca semiaperta della consorte. La osserva e cerca di rassicurarla, sussurrandole parole incomprensibili, mentre poco a poco si intravede la luce dell’alba.

 

International Film Festival Rotterdam

"La última tierra (Last Land)" Pablo Lamar

Trailer

trailer

Quando finalmente la donna spira, sullo schermo le immagini si dissolvono in un fulgore via via più splendente, quasi accecante, accompagnato da una fusione di cinguettii degli uccelli e di rumori emessi dagli insetti: un simbolico acme che dura poco più di un minuto. Il resto del film ci rende testimoni del tentativo e delle modalità con cui l’uomo cerca di accettare la sua terribile perdita. Compie una serie di azioni, caratterizzate come rituali personali e privati, per preparare e per portare a termine la sepoltura di sua moglie.  Si bagna nel fiume, taglia la legna in ceppi, lava il corpo della donna, lo avvolge in un lenzuolo e lo adagia sul letto, quindi scava una fossa nel terreno. Poi appicca il fuoco e le fiamme consumano la casupola e il corpo della donna. Alla fine della giornata sotterra le ceneri della moglie. Mentre il dolore cresce silenziosamente nella sua anima, il suo atteggiamento calmo appare come una risposta radicale. Pablo Lamar riduce la narrazione all’essenziale: più o meno 40 inquadrature. I dialoghi sono praticamente inesistenti e il sound design riempie lo schermo con suoni e rumori naturali evocativi. Il ritmo visivo è estremamente lento, e a tratti persino languido, con statici long shots e inquadrature fisse costruite con cura, come una galleria di fotografie scelte. Vi sono forti somiglianze estetiche e narrative con Hamaca Paraguaya (2006), della regista paraguyana Paz Encima. Lamar mostra un carattere austero e meditativo, ma purtroppo finisce per creare un universo poetico sfibrato e poco consistente, indulgendo in un estetismo che spegne l’emozione. A prima vista, nel suo cinema, si possono individuare risonanze dei film di Carlos Reygadas e  delle prime opere di Lisandro Alonso, e persino referimenti al cinema di Béla Tarre a quello di Andrei Tarkovsky, ma quei modelli  si palesano molto diversi quando si procede a un esame più approfondito. L’approccio impressionistico di Lamar appare essere piuttosto un esercizio di stile, pianificato razionalmente e modulato con eccessiva raffinatezza. Propone un precario equilibrio tra una fisicità iperrealistica che ritrae corpi anziani e sofferenti e uno studio introspettivo del posizionamento dell’uomo rispetto alla natura, complicato da un simbolismo artificioso. Ne consegue che il film, forse involontariamente, diventa, passo dopo passo, progressivamente pretenzioso, manipolativo e incapace di offrire una prospettiva convincente e profonda della relazione tra la vita e la morte.

Riserviamo quindi un’analisi critica ad un altro film della sezione competitiva ufficiale che ci ha impressionato favorevolmente :

International Film Festival Rotterdam

"Oscuro animal", Felipe Guerrero

 

Oscuro animal, opera prima di finzione del documentarista ed esperto editor colombiano Felipe Guerrero. Si tratta di un dramma articolato in tre episodi distinti che tuttavia convergono in un destino finale nella capitale Bogotà. Propone tre ritratti separati di tre giovani donne, con differenti storie e percorsi personali, in fuga da aree della lussureggiante foresta tropicale, contaminate dalla violenza, in un Paese segnato da una guerra civile che dura da quasi cinquanta anni. Un conflitto devastante tra le FARC, originariamente organizzazione guerrigliera contadina e comunista, convertita da anni in esercito privato che si sostiene con il narcotrafico, e lo Stato al cui fianco si sono schierate per anni le bande paramilitari di destra dell’AUC. Un confronto armato che ha causato decine di migliaia di morti e il fenomeno di centinaia di migliaia di sfollati, desplazados, dalle zone degli scontri, pari a circa il 40% del territorio, aree rurali e tropicali-amazzoniche, verso le aree urbane dove sono costretti in una situazione di emarginazione.

trailer Trailer

Le tre protagoniste sono vittime, in condizioni diverse, del conflitto. La Mona (Jocelyn Meneses), compagna di un brutale comandante di una banda paramilitare, è ridotta al ruolo di domestica e schiava sessuale, ripetutamente picchiata e violentata, nonostante sia incinta, in una baracca sulla riva di un fiume. Qualche giorno dopo aver abortito, finisce per pugnalarlo e riesce a fuggire. Rocío (Marleyda Soto) è una contadina costretta ad abbandonare la sua povera casetta in preda al terrore quando nella zona iniziano le razzie dei guerriglieri e dei paramilitari. Nelsa (Luisa Vides Galiano), giovane arruolata tra i paramilitari, è  stata costretta a diventare una delle amanti del suo comandante e di altri compagni. Dopo essere stata obbligata a seppellire clandestinamente i corpi massacrati e smembrati di alcuni contadini uccisi dai suoi commilitoni, essendo sconvolta, diserta. Rocío riesce a sottrarsi a fatica, offrendo la sua compagnia a una bambina rimasta sola, dopo che un drappello dell’esercito ha brutalizzato i passeggeri dell’autobus su cui viaggiava. La Mona, che si è gettata nel fiume, sopravvive a fatica alla corrente e approda esausta a molti chilometri di distanza dal luogo da cui era fuggita. Nelsa intraprende un viaggio faticoso insieme all’uomo che l’ha aiutata a fuggire, cambiando continuamente mezzi di trasporto, pick up  e pulmini, schiacciata dal  timore di essere  catturata. Bogotà è la meta comune di queste tre donne che non si conoscono e che, nel corso del loro itinerario incontrano sia desplazados sia parenti delle vittime, uomini e donne che battono le campagne mostrando le foto dei loro congiunti dispersi o deceduti, dei quali ignorano persino dove siano sepolti i corpi. Felipe Guerrero mette in scena la violenza senza esibirla apertamente, una presenza invisibile ma costante, opprimente e ansiogena. Il conflitto è rappresentato attraverso i dettagli del contesto e dei protagonisti, resi con spiccata sensibilità documentaristica, con un realismo non di maniera e con sapienti riferimenti simbolici. Il film è quasi completamente privo di dialoghi ad indicare che il silenzio rassegnato espone a meno pericoli, mentre viene utilizzata una ricca colonna sonora che accompagna  una quotidianità tragica e che comprende sia i rumori della foresta sia vari generi di musica popolare trasmessi per radio: alla champeta ascoltata dai paramilitari accampati nelle campagne si contrappongono la tradizionale cumbia e il vallenato ascoltati in un albergo a Bogotà. Guerrero opta per un registro di immagini significative e di calma snervante interrotta da momenti di terrore, evitando accuratamente la precipitazione sensazionalista e la manipolazione dello spettatore attraverso show down strumentali o accenti didascalici o moralistici. Non cerca la denuncia, né gli stereotipi sulla sofferenza, ma riesce abilmente a suscitare interrogativi e a mostrare una popolazione e un consesso civile inutilmente degradati. Comunque nel finale aperto a Bogotà risulta evidente la volontà di prospettare un fragile messaggio positivo riguardo il coraggio femminile e circa le possibilità di salvarsi e di tentare di ricominciare a vivere  senza la paura. La messa in scena è molto efficace e matura, alternando i primi piani insistiti sui volti delle protagoniste  con piani lunghissimi delle campagne e dei contrafforti pre-andini ed è impreziosita dalla magnifica fotografia contrastata curata da Fernando Lockett.

Tra le istituzioni più prestigiose di supporto agli autori ed alla produzione di cinema a livello mondiale, specie per quelli di Europa Orientale, Asia, Africa ed America Latina, è da collocare lo “Hubert Bals Fund”, fondato nel 1988  e dedicato a Hubert Bals, fondatore e direttore per 17 anni del Festival di Rotterdam. Il suo scopo è quello di stimolare la diversità artistica e culturale, fornendo un supporto finanziario e organizzativo a film makers dei Paesi in via di sviluppo o con economie deboli. Dalla sua nascita il fondo ha aiutato la realizzazione e la conclusione di circa 800 progetti. La lista dei nuovi film sostenuti dal fondo ha contato quest’anno 13 lungometraggi, provenienti da 9 Paesi diversi, presenti in varie sezioni del Festival: duein competizione per i Tiger Awards e gli altri nelle sezioni Bright Futuer, Voices e Deep Focus. Ne commentiamo cinque.

El abrazo de la serpiente, terzo lungometraggio del colombiano Ciro Guerra ha ottenuto  l’Hubert Bals Fund Dioraphte Award comprendente anche la somma di 10.000 euro. Si tratta di un dramma epico, ricco di suggestioni estetiche e culturali. È  stato ispirato dai diari di due studiosi ed esploratori bianchi, Theodor Koch-Grunberg e Richard Evans Schultes, che hanno viaggiato in Amazzonia nella prima metà del ventesimo secolo. Racconta appunto la storia dell'incontro tra un indigeno e i bianchi. Karamakate (Nilbio Torres) è uno sciamano che vive isolato nella foresta dell'Amazzonia colombiana. Nel 1909 Theo (Jan Bijvoet) un etnologo tedesco già conoscitore di quelle terre, ma molto malato, accompagnato da Manduca (Miguel Dionisio Ramos), la sua guida indigena che ha adottato i costumi degli europei, lo raggiunge. Pur diffidando, alla fine lo sciamano accetta di aiutare  l’esploratore bianco, perché quest’ultimo gli prospetta la possibilità di ritrovare gli ultimi sopravvissuti della sua tribù dispersi dopo i massacri operati dagli invasori bianchi.

 

International Film Festival Rotterdam

"El abrazo de la serpiente" Ciro Guerra

Trailer

trailer

Quindi lo scorta in un viaggio in canoa faticosissimo e snervante  alla ricerca della yakruna, una misteriosa pianta medicinale con effetti potentissimi, che potrebbe curare l’infermità di Theo. Durante l’avventurosa risalita dei corsi d’acqua i tre viaggiatori scoprono anche le devastazioni operate dai bianchi che hanno introdotto lo sfruttamento intensivo dell’albero della gomma. Circa 40 anni dopo Karamakate (Antonio Bolivar) è diventato un chullachaqui, un  individuo senza memoria. Evan (Brionne Davis), un etnologo americano, lo rintraccia e insieme compiono un altro viaggio iniziatico nella foresta tropicale, tra misteri e orrori. Il film mescola le due storie con sovrapposizioni spaziali e temporali, essendo molto affascinante sia per le magnifiche location, sia per l’originale e credibile qualità drammatica ed etnografica della prima parte. Ciro Guerra esprime una notevole sensibilità estetica attraverso la scelta di un bianco e nero ricco di modulazioni, l’uso dei piani sequenza, le pause e le accelerazioni ed è coadiuvato dalla straordinaria qualità della fotografia curata da David Gallego e dall’intenso sound design curato da Carlos Garcia. Tuttavia nella seconda parte del film propone un trip psichedelico piuttosto discutibile, svolte narrative deliranti e d’effetto poco comprensibili e un eccesso di digressioni, diventando decisamente poco credibile. Inoltre rivela un'ansia di denuncia della persecuzione e dell’emarginazione degli indigeni amerindi e della loro cultura che appare pretenziosa e controproducente, anche perché non rinuncia a una loro rappresentazione di maniera. In particolare suscita perplessità la lunga sequenza dedicata alla missione spagnola gestita da un prete santone sadico e folle, responsabile di ogni genere di perversioni e di violenze nei confronti dei bambini e degli adolescenti indigeni convertiti e fautore di fanatici riti che assomigliano alle macabre  messe in scena dell’accampamento del Colonnello Kurtz in Apocalipse Now di Francis Ford Coppola.

International Film Festival Rotterdam

"Rak ti khon kaen (Cemetery of splendor)", Apichatpong Weerasethakul

 

Rak ti khon kaen (Cemetery of splendor), del thailandese Apichatpong Weerasethakul, riconferma l’originalità di un autore di grande talento, la cui poetica si basa sulle relazioni tra uomo e ambiente-natura e su legami forti con il territorio onirico e gli ambiti spirituale e soprannaturale. Tuttavia è un film che rappresenta in qualche modo una cesura di approccio narrativo, e in parte di scelte stilistiche, nel suo cinema, pur nella continuità della lettura a vari livelli di elementi filosofici, mitologici e religiosi. Infatti, se si considera che il suo  lungometraggio immediatamente precedente, Mekong Hotel (2012), un’opera ibrida che si presenta come un documentario contaminato da un progetto di finzione irrealizzato, conteneva riferimenti alle dolorose e contrastanti tematiche sociali e politiche del presente e degli ultimi decenni in Thailandia, questo film può essere letto come una prosecuzione, molto mediata, di interesse per quelle questioni. In estrema sintesi si tratta di un’elegia “realista” e affabulatoria, ovvero un lamento codificato, malinconico, e a tratti insolitamente gioioso e venato di humour autoparodistico, riguardo l’incertezza politica e le tragiche contraddizioni sociali contemporanee  presenti nel suo Paese che è intimamente turbato e inquieto a causa di ferite antiche e recenti.

trailer Trailer

Propone una storia, in parte criptica e oscura ( per chi è alieno rispetto alla spiritualità buddhista e a storia e mitologia autoctone), basata su un complesso racconto di contaminazione tra sogno e realtà, tra visioni, miti e riti magici, con un affascinante sottofondo squisitamente umanistico e velatamente politico. Una vicenda enigmatica sospesa tra visibile e invisibile, tra materiale e immateriale, scandita da un flusso ipnotico, raffinato e sottilmente malinconico di immagini, accuratamente, ma non rigidamente, composte, rumori attutiti e conversazioni calme e gentili. Weerasethakul è tornato a Khon Kaen, la cittadina della regione di Isan, nel nord-est del Paese, nelle campagne prossime al Laos, dove ha trascorso la sua infanzia. Giova infatti ricordare che il suo precedente film Sang sattawat (Syndromes and a Century) (2006), che configura una complessa realtà di tempo, memoria ed attrazione degli opposti, comprende due storie similari, entrambe ambientate in un ospedale, ma in luoghi e spazi differenti, e che nella prima di queste vediamo un ospedale luminoso, situato proprio a Khon Kaen, in un’area rurale piacevole e soleggiata. Anche al centro di Cemetery of splendor vi è un ospedale allestito provvisoriamente nei locali precedentemente occupati da una scuola e l’epoca è quella estiva. Nell’amplissimo padiglione, lindo e ordinato, sono allineati  una quarantina di letti disposti sui lati maggiori. Tutti i ricoverati sono giovani militari affetti da una misteriosa malattia del sonno, apparentemente incurabile, nonostante un trattamento sperimentale notturno con collegamento dei pazienti semicomatosi a strani apparecchi tubiformi fosforescenti che mutano ritmicamente di colore. Jenjira (Jenjira Pongpas Widner), una sessantenne ex infermiera, claudicante per i postumi di un grave incidente che le ha lasciato una gamba martoriata e più corta di 10 cm. rispetto all’altra, viene accettata come assistente volontaria dei pazienti. Nel corso del sua primo turno di lavoro decide di prendersi cura in particolare di Itt (Banlop Lomnoi), un soldato forte e attraente a cui nessuno fa visita.  Durante i giorni successivi la donna conosce Keng (Jarinpattra Rueangram), una ventenne anch’essa  accettata dalle infermiere che, essendo una medium, usa  le sue facoltà psichiche per leggere i pensieri e la memoria dei degenti e quindi per aiutare le famiglie ad entrare in contatto con i loro congiunti addormentati (alcuni dei quali, peraltro, manifestano brevi temporanee riprese della coscienza). Peraltro, secondo quanto viene rivela a Jenjira, lei non può garantire che le famiglie apprendano solo ciò che vorrebbero ascoltare. In breve le due donne diventano amiche e trascorrono molto tempo a conversare, durante i pasti e mentre passeggiano negli spazi contigui all’ospedale. Un giorno Jenjira  scopre il diario di Itt, un quaderno che contiene strani scritti e schizzi. Stimolata dalle rivelazioni di due strane divinità,  che si presentano come attraenti giovani donne durante un rituale, secondo cui al di sotto dell’ospedale si troverebbero le vestigia di un’antica città reale, con palazzi e mausolei, Jenjira inizia a sospettare che la misteriosa malattia da cui sono affetti i soldati ricoverati sia connessa a quell’antico sito che in qualche modo li avrebbe defraudati della loro energia fisica. Ma al tempo stesso la donna racconta all’amica la sua storia e le sue sventure. Magia, romanticismo e sogni si mescolano  nell’orizzonte mentale di Jenjira che è alla ricerca di una profonda consapevolezza di sé e del mondo che la circonda. In effetti gran parte della seconda metà del film è dedicata ad una lunga conversazione tra le due donne che passeggiano in una foresta in un clima, grottesco, ma attraente, in cui si mescolano reale ed evocazioni surreali di luoghi del passato e di trasmigrazione di anime. Apichatpong Weerasethakul  ha realizzato un film con grandi valori poetici ed estetici in termini di atmosfera, regia e fotografia. Si esprime attraverso ellissi, ripetizioni e specularità e comunica una strana tranquillità frutto di emozione e di piacere visivo estremo. Ma a differenza dei suoi precedenti lungometraggi più significativi, Blissfully yours (2002), Tropical malady (2004) e Lung Boonmee raluek chat (Uncle Boonmee who can recall his past lives) (2010), il regista non predilige la materia fantastica, ma opta per una materializzazione “realista”, con un’importante caratterizzazione documentarista della reale condizione fisica di Jejira (che nella vita reale è stata davvero vittima di un grave incidente stradale con conseguenze invalidanti). Tuttavia innesta evocazioni che vanno oltre  quegli elementi visivi. Da un lato i soldati addormentati possono essere una metafora della paralisi del governo thailandese derivante dalle proteste, dalle violenze delle fazioni che si combattono, e dal colpo di stato mascherato voluto dal re, avvenuti negli ultimi anni. Dall’altro il presente del film occulta il passato, la storia, i ricordi, i miti arcaici, i rituali magici e anche la materia sconosciuta dei sogni, tutti elementi che lo spettatore è stimolato ad immaginare prestando attenzione alle conversazioni delle due protagoniste e a pochi saltuari momenti di trasfigurazione di immagini sacre, di trasmutazione degli individui e di possessioni spirituali. Weerasethakul sembra interessarsi più alle relazioni e agli scambi indicibili e invisibili tra ciò che è collocato al di sopra (l’ospedale) e ciò che starebbe al di sotto del limite del terreno (la città  reale e il cimitero), tra la veglia e il sonno, tra la vita e la morte, tra il reale e la coscienza o il soprannaturale (la possibile o fittizia lettura dei sogni e delle vite anteriori di sconosciuti da parte di Keng). E per dare il tono a queste antinomie sceglie di privilegiare i campi lunghi  e quelli generali, limitando i primi piani e i close ups e propone il consueto strabiliante lavoro sul sonoro.

Boi neon (Neon Bull), opera seconda di finzione del brasiliano trentaduenne Gabriel Mascaro, con un passato di dignitoso documentarista, racconta un dramma esistenziale falsamente provocatorio, pasticciato e strumentale nella critica al machismo brasiliano. Il protagonista è un  uomo in conflitto con la propria sessualità. Il trentenne Iremar (Juliano Cazarré, molto grottesco nella parte del nordestino, essendo un attore gaúcho del sud del Brasile) lavora fin dall’infanzia come  vaqueiro, addetto alla movimentazione dei tori, nelle Vaquejadas, i rodei che si svolgono nelle cittadine del sertão, l’estesissimo, piatto e arido entroterra rurale del Nordeste brasiliano,  lontano molte centinaia di chilometri dalla costa atlantica. Il suo è un lavoro sporco e faticoso e lo porta a spostarsi continuamente con una troupe viaggiante con caratteristiche circensi. Tuttavia Iremar, ombroso e  tormentato da dubbi rispetto ai propri desideri sessuali, nutre la passione artistica della moda che lo porta a sognare un avvenire diverso, di stilista. In effetti è un sarto esperto e creativo e,  durante il tempo libero, confeziona costumi femminili sexy con lustrini e stoffe sgargianti.

 

International Film Festival Rotterdam

"Boi neon (Neon Bull)" Gabriel Mascaro

Trailer

trailer

Vive con Galega (Maeve Jinkings), ballerina esotica e madre di Cacá (Alyne Santana), un’adolescente vivace e impertinente. La donna, molto provocante e volitiva, guida il camion che trasporta i tori da esibizione, ma non fa l’amore con Iremar.  Come già nel suo film di esordio Ventos de agosto (2014), Mascaro costruisce una trama fittizia, astrusa e arzigogolata, popolata da personaggi fasulli e improbabili. In questo film, indubbiamente più ambizioso in termini drammatici, pretende di rappresentare un singolare spaccato antropologico del Nordeste brasiliano, territorio in cui tradizioni popolari rurali e modernizzazione globalizzante convivono a fatica. Tra furbi  riferimenti a Fellini e al cinema americano della ultimissima generazione, scopiazzature di opere di altri autori brasiliani (in primis i notissimi Iracema (1975), di Orlando Senna, e Bye Bye Brasil (1980), di Carlos Diegues), analisi psicologica d’accatto, suggestioni thriller, triviali clichés per porsi in sintonia con il dibattito sui temi sessuali, sempre attuale  in Brasile, trovatine estetiche da esotismo e costumbrismo di maniera, il film si trascina stancamente, fino a un finale vagamente simbolico. A livello estetico lo sforzo documentarista del cameraman Diego Garcia, durante le scene di interazione tra uomini e animali, si spegne nella voluta contemplazione narcisistica, votata al potere evocativo delle belle immagini, sterilmente morbose nel caso dei corpi nudi, che prende il sopravvento ad ogni occasione. Insomma Mascaro gioca cinicamente sui confini del (non)mostrabile, su provocazioni “intellettuali” fini a sé stesse e su falsi sprofondamenti progressivi nell’abiezione. Possiamo citare a memoria alcune scene stucchevoli: l’erezione del cavallo in  primissimo piano e la successiva  eiaculazione di sperma sulla faccia del mandriano che non ha fatto in tempo a raccogliere il seme dell’animale in una bottiglia, per procedere a un artigianale inseminazione artificiale; l’accoppiamento sessuale tra Iremar e la donna incinta, prolungato, compiaciuto e girato in  una forma estremamente patinata; Cacá che affonda nel letame; Galega che si depila il pube; Iremar che orina in  primissimo piano; i vaqueiros nudi che si fanno la doccia con secchi d’acqua alla fine di una giornata di lavoro.  Ne risulta un’opera oltremodo pretenziosa, a tratti irritante e francamente inutile,  confezionata appositamente per ammaliare l’audience dei Festival.

International Film Festival Rotterdam

"Chauthi Koot (The Fourth Direction)", Gurvinder Singh

 

Chauthi Koot (The Fourth Direction), opera seconda dell’indiano Gurvinder Singh, è un notevole dramma - thriller a sfondo politico, ambientato nel Punjab, durante i primi anni ’80. Come noto si tratta dell’epoca della dura tensione tra Hindus e Sikhs e del conflitto tra separatisti ed esercito indiano che culminò con il massacro di estremisti Sikhs asserragliati nel Golden Temple di Amritsar da parte di sovrastanti forze dell’esercito indiano. La narrazione si articola in due storie apparentemente  distinte che confluiscono nell’epilogo. Il primo episodio descrive  l’avventura notturna di due amici Hindu. Jugal (Kanwaljit Singh)  e Raj (Harnek Aulakh)  perdono l’ultimo treno per Amritsar, la città santa del Punjab. Nonostante la resistenza di un capotreno, a tarda notte,  ottengono di poter viaggiare su un carro merci, ritrovandosi a dividere un angusto scompartimento con alcuni passeggeri clandestini Sikhs alquanto sospetti. Successivamente un lungo flashback racconta l’altra vicenda avvenuta cinque mesi prima.

trailer Trailer

Una famiglia Hindu, composta da due coniugi e una bambina (che si scoprirà poi essere quella di Jugal), si ritrova a camminare di notte su una strada sterrata in campagna, nello stesso Punjab, senza avere una chiara idea della toponomastica della zona. Impauriti, bussano alla porta di una casa isolata di agricoltori per chiedere informazioni e scoprono di conoscere il capofamiglia, Joginder (Suvinder Vikky), che fornisce loro precise indicazioni per raggiungere il villaggio vicino. Più tardi, quella  medesima notte, alcuni guerriglieri Sikhs si presentano nel cortile della stessa casa e  cercano di convincere Joginder a uccidere il cane con la motivazione che l’abbaiare dell’animale può far rilevare la loro presenza ai soldati indiani. Ma gli uomini armati, di fronte all’opposizione di tutti i componenti della vasta famiglia, in particolare l’anziana matriarca e i figli adolescenti, desistono e si dileguano. In effetti il mattino seguente un drappello di paramilitari indiani irrompe nella casa alla ricerca dei terroristi. Grazie ad un montaggio sofisticato una storia si fonde con l’altra, con una progressione alternante di flusso e riflusso, quasi circolare, un poco contraddittoria, non proprio emozionante, ma affascinante. Il tratto comune è quello della condizione umana di individui ordinari intrappolati tra gli abusi e la violenza  di due fazioni armate in conflitto. Gurvinder Singh configura magistralmente, con una regia rigorosa e sapiente, coadiuvata dall’impressionante fotografia curata da Satya Rai Nagpaul, e con un’ottima direzione degli attori, il clima di sospetto, paura e paranoia che opprimeva la gente comune vessata sia dai gruppi di guerriglieri Kalistani Sikhs sia dai militari delle forze speciali indiane. Valorizzando dettagli minimali, comportamenti, suoni e rumori, e senza  ricorrere a soluzioni drammatiche plateali, riesce a creare una convincente atmosfera claustrofobica che pervade minacciosamente tutto il film.

Rüzgarin hatilaralari (Memories of the Wind), terzo lungometraggio del turco Özcan Alper, è al tempo stesso un melodramma malinconico e una meditazione poetica. Propone un avvincente ritratto d’epoca che mostra le tragiche conseguenze dell’oppressione politica. Durante la Seconda Guerra Mondiale in Turchia la situazione esistenziale dei dissidenti e degli intellettuali di sinistra divenne progressivamente difficile fino alla disperazione. Il governo conservatore e nazionalista di destra attuò una politica di crescente discriminazione e persecuzione nei confronti degli intellettuali e delle minoranze etniche. Il protagonista della vicenda è Aram (Onur Saylak), un quarantenne armeno, scrittore, traduttore, pittore, nonché notista collaboratore di un giornale comunista. Nel 1942, essendo ricercato, è costretto a fuggire precipitosamente da Istanbul. Seguendo le indicazioni degli amici che lo hanno aiutato, giunge in un piccolo villaggio non lontano dalla costa del Mar Nero, lungo il confine tra la Turchia e la Georgia, appartenente all’URSS, e viene segretamente ospitato in una casetta tradizionale, isolata  tra le colline.

 

International Film Festival Rotterdam

"Rüzgarin hatilaralari (Memories of the Wind), " Özcan Alper

Trailer

trailer

La coppia che lo nasconde è formata da Mikahil (Mustafa Ugurlu), un anziano contadino, burbero e taciturno, e da Meryem (Sofya Chandemirova), la sua giovane consorte russa che svolge silenziosamente le attività casalinghe. La relazione tra questi ultimi non risulta molto chiara, ma la donna sembra costretta in un ruolo di aiutante domestica piuttosto che essere una tranquilla moglie devota. Aram è in attesa di un’opportunità per poter espatriare clandestinamente nell’Unione Sovietica, ma il tempo  trascorre inutilmente. Poi viene informato che  la frontiera è strettamente sorvegliata e che le possibilità di varcarla sono praticamente nulle. Inoltre è ormai chiaro che  alcuni abitanti del villaggio sono  informatori e spie della polizia. Quindi, mentre la tensione e la paura crescono, Mickahil trasferisce Aram in una capanna cadente in mezzo ad una foresta e Meryem si reca da lui ogni giorno portandogli cibo e bevande. Isolato  in una zona montuosa magnifica e selvaggia, Aram si sente comunque confinato in una prigione. È spinto a perseguire una tormentata ricerca interiore di ricordi che lo conducono all’infanzia. Una serie di vividi flashbacks consente allo spettatore di conoscere il  terribile destino della famiglia di Aram che fu completamente  annientata durante la persecuzione e il genocidio degli armeni, avvenuto nel 1915 ad opera dell’esercito e di settori della popolazione turchi  (un evento che fu sempre negato dai vari governi tirchi che si sono succeduti fino ad oggi). Durante quei tragici giorni Aram,  ancora adolescente, riuscì a salvarsi fuggendo solo in una landa desolata. In preda a quelle spaventose allucinazioni e distorsioni della memoria, isolato nel soffocante rifugio, il protagonista inizia a disegnare, dapprima sui fogli di un quadernetto, poi su pezzi di corteccia, ritratti e immagini dei suoi familiari persi per sempre. Nel frattempo  gradualmente sviluppa una relazione amorosa con Meryem che, a sua volta, si sente imprigionata in un matrimonio senza amore. La maggior parte del film è caratterizzata da dialoghi scarsi, mentre la progressiva attrazione tra Meryem e Aram viene svelata attraverso una sottile strategia visiva. Per i due amanti la fuga oltre confine  diventa l’unica  opzione di salvezza. Özcan Alper offre un’intensa rappresentazione delle modalità con cui il governo turco ha perseguitato le minoranze etniche nel 1915 e durante la Seconda Guerra Mondiale. Non propone una  palese denuncia circa le responsabilità storiche dei turchi,  quantunque i riferimenti politici alla fine emergano chiaramente. Inseriti  nel quadro dell’epoca, i temi del trascorrere del tempo, dell’amore, dell’esilio, della morte e dell’anelito alla libertà configurano un’atmosfera piuttosto emozionante, anche se le modalità narrative e la messa in scena risultano parzialmente viziate da soluzioni convenzionali.

Analizziamo quindi alcuni dei film presentati nella sezione “Bright Future”.

International Film Festival Rotterdam

"Alba", Ana Cristina Barragán

 

Alba, opera prima di Ana Cristina Barragán, regista ecuadoriana ventenne, è un coming-of-age film autentico, veritiero e sottile, toccante, ma privo di accattivante sentimentalismo. La protagonista è Alba, una ragazzina undicenne, minuta, molto timida e tormentata da fastidiose epistassi che si manifestano sempre nei momenti meno opportuni. Ma è anche dotata di una sensibilità acuta e speciale e silenziosamente determinata a resistere al ricorrente bullying scherzoso  a cui la sottopongono le compagne di scuola. Proprio nell’epoca dei dilemmi e delle scoperte della prima adolescenza, Alba si trova a fronteggiare una situazione penosa e molto disagevole: sua madre, che lei ama incondizionatamente, essendo gravemente ammalata, viene ricoverata in ospedale. Di conseguenza, inaspettatamente, la ragazzina viene affidata a suo padre che è praticamente uno sconosciuto in quanto i suoi genitori hanno divorziato quando lei aveva solo tre anni. Igor è un impiegato di livello  esecutivo in un affollato ufficio pubblico: un uomo umile, solitario e piuttosto eccentrico e fuori moda.

trailer Trailer

Ovviamente è molto cauto nello stabilire il contatto emotivo con la figlia ritrovata, quantunque, pur senza manifestarlo apertamente, la ama candidamente. Alba, in qualche modo, si vergogna di lui. Contemporaneamente per la prima volta si trova a essere accettata come amica in una cerchia di  compagne della classe media agiata. Poco a poco, superando le reciproche reticenze, padre e figlia iniziano a conoscersi meglio, ma dovranno superare alcune circostanze impreviste che mettono alla prova il loro legame. Ana Cristina Barragán non ricerca facili stereotipi e non propone un melodramma prevedibile e scontato. Mostra un approccio molto maturo nel delineare, con discreta empatia, un ritratto dettagliato del mondo interiore, della vita quotidiana e delle esperienze sensoriali di Alba. Ad esempio la piccola protagonista, quando è sola, osserva attentamente insetti e farfalle, oppure si dedica  con pazienza a comporre un puzzle.  Inoltre lo spettatore è  messo nella condizione di apprezzare pienamente i suoi comportamenti tra i coetanei e  nei confronti degli adulti. L’inchiesta minimalista sull’itinerario, al tempo stesso peculiare e ben riconoscibile, verso la pubertà e l’accettazione di sé stessa, è condotta senza alcuna inclinazione retorica o didascalica e senza toni moralistici. Il meccanismo di rivelazione progressiva, frutto di una sceneggiatura scritta con cura, pianificata e costruita  attraverso un punto di vista intimo e delicato, configura un contesto esistenziale affascinante e pluristratificato. Macarena Arias, che interpreta Alba,  è una presenza impressionante che marca ogni scena del film, pur con dialoghi molto limitati. Ana Cristina Barragán, che ha dichiarato apertamente la sua ammirazione per lo stile  di Jean-Pierre and Luc Dardenne, sceglie di  ritrarre la protagonista costantemente a distanza ravvicinata  con la telecamera a mano, ma non propone praticamente mai  inquadrature semisoggettive e close ups aggressivi. Infatti non ha inteso realizzare un intenso instant movie e, mediante un editing preciso, evita felicemente  gli effetti ansiogeni e claustrofobici.

Bella e perduta, di Pietro Marcello, documentarista campano trentenne, è un film inclassificabile, molto suggestivo e imperfetto, a metà strada tra documentario antropologico, ritratto biografico e finzione surreale. Una meditazione poetica con momenti bellissimi, immagini  forti, suggestive e allegoriche e grande sensibilità ambientale, nonostante una certa confusione narrativa e il montaggio incerto e precario curato da Sara Fgaier. La vicenda è ambientata nella provincia di Caserta, nella famigerata “terra dei fuochi”, un territorio vittima dello scempio causato dall’operato criminale dei clan della camorra. Il protagonista è un semplice pastore, il cinquantenne Tommaso Cestrone, che alcuni anni fa decise di occuparsi volontariamente della Reggia di Carditello, una sontuosa residenza di campagna dei reali borbonici abbandonata al degrado e al sistematico saccheggio (e solo  nel 2013 è stata acquistata dallo Stato con l’obiettivo, non ancora pienamente attuato, di un restauro conservativo e dell’apertura al pubblico come struttura museale). Marcello dà spazio alle motivazioni di Cestrone che racconta l’indifferenza delle autorità locali e di intellettuali, borghesi illuminati e giornalisti e le minacce e gli attentati vandalici subiti (danneggiamenti alla sua auto, incendio della roulotte dove dormiva e avvelenamento delle capre).

 

International Film Festival Rotterdam

"Bella e perduta, " Pietro Marcello

Trailer

trailer

Quindi documenta la sua attività di pulizia e di custodia del sito  a proprie spese, con l’aiuto di suo figlio. Ma poi  il pastore, proprio alla vigilia dell’intervento dello Stato, subì un infarto e morì. Marcello immagina che il suo protagonista lasci in eredità un giovane bufalo a cui aveva posto il nome di Sarchiapone. A questo punto il film si converte in una “parabola magica”. Compare un Pulcinella, storica maschera napoletana, che, obbedendo alle ultime volontà di Cestrone, preleva il bufalo per salvarlo e lo porta con sé viaggiando verso nord. Sarchiapone è un bufalo parlante (la voce è quella di Elio Germano) e si intende bene con Pulcinella. Ma i loro destini si divideranno. Marcello ha scritto, con la collaborazione di Maurizio Braucci, e diretto un’elegia ricca di significato, amara, ma non predicatoria. Ha voluto enfatizzare il ruolo degli umili onesti e la “saggezza” dei servi, utilizzando le metafore della maschera e dell’animale. Ha scelto di girare in pellicola con raffinate rielaborazioni digitali, curate in postproduzione dalla Cineteca di Bologna, alternando sequenze realistiche che ricordano il cinéma vérité e altre naturalistiche, ovattate e oniriche. Propone anche integrazioni con footage, materiali di repertorio e filmati amatoriali. Anche questo film, come il suo precedente La bocca del lupo (2009), la storia di un uomo, della sua compagna e della memoria di una città, è un’opera che mostra una spiccata valenza autoriale, personale, umanista e per nulla pretenziosa.

Tikkun, terzo film del trentenne israeliano Avishai, è  un dramma familiare ambientato nella comunità ultraortodossa degli Haredim. Narra la storia di Haim-Aaron, un ventenne molto studioso che trascorre le giornate, fino a notte inoltrata, nella scuola religiosa yeshivah, chino sui testi del Talmud e della Torah. Un giorno, stremato dalla fatica e dal digiuno, dopo una doccia, è vittima di un grave collasso con perdita di coscienza e arresto cardiaco. I paramedici del servizio di emergenza tentano invano di rianimarlo, ma poi desistono. A quel punto suo padre, disperato, si getta su di lui e continua il massaggio cardiaco. Inaspettatamente Haim-Aaron si riprende e, dopo un periodo di osservazione in ospedale, viene dimesso e torna a casa. Tuttavia dopo l’episodio il giovane comincia ad interrogarsi su sé stesso, sul suo corpo e sulla sua vita. Perde interesse negli studi e si comporta in modo strano, essendo turbato da desideri fisici e dubbi morali. La narrazione si avvita su sé stessa, con suggestioni surreali e spaesamenti poco chiari, fino ad un finale molto ambiguo in cui pare che la liberazione consista nel lasciar procedere la presunta volontà divina.

 

International Film Festival Rotterdam

"Tikkun" Avishai

Trailer

trailer

Il film, realizzato in bianco e nero, è interessante e molto curato a livello estetico, ma risulta irrisolto e pasticciato, quasi a voler cercare un incerto equilibrio tra rappresentazione critica e volontà di rispetto della logica e delle ragioni degli ultraortodossi, derivandone un depotenziamento della proposta drammatica.

International Film Festival Rotterdam

"La montanha", João Salaviza

 

La montanha, opera prima del trentunenne portoghese João Salaviza, è un coming-of-age film drammatico, realistico e crudamente poetico, abbastanza interessante, credibile e coerente in termini narrativi ed estetici. Al centro della vicenda vi è una famiglia proletaria. Il quattordicenne David (David Mourato),  è cosciente dell’imminente morte del nonno, ma si rifiuta di fargli visita non volendo fare i conti con il peso  della perdita. Sua madre, Mónica (Maria João Pinho), trascorre le notti a vegliare l’anziano in ospedale. David non si sente pronto a diventare adulto, assume comportamenti contradditori ed entra in conflitto con il suo migliore amico e con sua madre.  Salaviza opta per  una narrazione genuinamente indolente, in una dimensione sospesa tra infanzia ed età incerta, tra spensieratezza e prime responsabilità, tra solitudine e conflittualità. Predilige le scene immerse nella penombra e scruta minuziosamente i volti dei suoi protagonisti.

trailer Trailer

Propone un cinema classico, cercando la giusta mediazione tra il rigore della messa in scena, ricercata, ma mai compiaciuta e la naturalezza dei corpi, tra parole, suoni e silenzi. Cattura sapientemente tempi, fisicità e luoghi dell’adolescenza e tratteggia, con pudore ed empati,a un itinerario di maturazione emotiva e sessuale, di (ri)avvicinamento tra madre e figlio e di elaborazione di un lutto atteso.

Arianna, opera prima di Carlo Lavagna, è anch’esso un coming-of-age film drammatico. Al centro della  vicenda vi è il tema forte della ricerca dell’identità sessuale e della verità sul proprio corpo da parte di un’adolescente. Vorrebbe essere un’opera intimista, un thriller dell’anima, ma si rivela pretenzioso, poco coraggioso e pasticciato, perdendosi in uno sterile bozzettismo patinato. La protagonista  è Arianna (Ondina Quadri) una diciannovenne romana, graziosa, esile e androgina, che vive un forte disagio rispetto al proprio corpo: non ha mai avuto il ciclo mestruale, il suo seno è ben poco sviluppato e il primo tentativo di rapporto sessuale con un maschio deve essere interrotto perché le provoca un dolore vaginale insopportabile. Durante l’estate si reca con i genitori, Marcello (Massimo Popolizio), medico, e Adele (Valentina Carnelutti), nella loro villa di campagna sul Lago di Bolsena, dove ha trascorso i primi tre anni di vita, senza poi inspiegabilmente farvi più ritorno. Durante la vacanza, a contatto con Celeste (Blu Yoshimi), la cugina poco più giovane, ma già sviluppata e prosperosa, Arianna si interroga sulle sue inquietudini e sui suoi problemi intimi e inizia a recuperare la memoria di fatti della sua primissima infanzia.

 

International Film Festival Rotterdam

"Arianna, " Carlo Lavagna

Trailer

trailer

Poco a poco si impegna in una inchiesta personale fino a scoprire di essere geneticamente intersessuale e di aver subito un intervento chirurgico a tre anni di ricostruzione anatomica femminile dell’apparato genitale. E apprende anche che successivamente ha continuato cure ormonali per deprimere la secrezione ormonale maschile. Sono stati appunto i suoi genitori a decidere che dovesse svilupparsi come donna. Se  si deve dare atto a Carlo Lavagna di avere affrontato il tema dell’ermafroditismo senza un approccio sensazionalistico o morboso, si deve invece purtroppo rilevare che il film è pieno di difetti. Da un lato sembra concentrarsi sulle insicurezze e sulla crisi emotiva della protagonista, ma il tentativo di realismo poetico appare abortito perché l’intensità dello sguardo viene irrimediabilmente compromessa dall’estetismo di maniera  che promana dall’uso del paesaggio. Alternare i rovelli della protagonista con le carrellate della natura estiva tipo cartolina postale produce effetti grotteschi. Dall’altro vi è la completa sfasatura drammatica, con la configurazione di una suspence spuria durante la ricerca “thriller” della verità rispetto al ruolo dei genitori e dei medici nella determinazione forzata dell’identità sessuale di Arianna. L’esempio più clamoroso è  l’assurda scena happening prima dell’epilogo, caricata di effetti visivi, in cui Arianna irrompe nella sala operatoria dell’ospedale. Per non parlare delle pasticciate spiegazioni degli atti medici e chirurgici che emergono attraverso varie dichiarazioni, risultando talmente superficiali al punto che sarebbe stato meglio evitare i dettagli. E ancora si può aggiungere: l’uso della voice over che fornisce spiegazioni allo spettatore ostacolando la fruizione emotiva; una recitazione affettata e teatrale, con dialoghi banali e stereotipati, da parte di tutto il cast; la monotonia espressiva e la sterilità interpretativa di Ondina Quadri, ben poco credibile nel suo doloroso itinerario di ricerca; la colonna sonora riempitiva e di maniera; il finale consolatorio e “moralista” che allude a una riconciliazione di Arianna con i suoi genitori immediatamente dopo un girovagare nella campagna con malcelati  propositi suicidi rouge

 

 

 

px

px

45. ROTTERDAM FILM FESTIVAL 2016

info

27 / 01 - 07 / 02/ 2016

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

International Film Festival Rotterdam

 

link
px
Home Festival Reviews Film Reviews Festival Pearls Short Reviews Interviews Portraits Essays Archives Impressum Contact
    Film Directors Festival Pearls Short Directors           Newsletter
    Film Original Titles Festival Pearl Short Film Original Titles           FaceBook
    Film English Titles Festival Pearl Short Film English Titles           Blog
                   
                   
Interference - 18, rue Budé - 75004 Paris - France - Tel : +33 (0) 1 40 46 92 25 - +33 (0) 6 84 40 84 38 -