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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 8° NUOVO CINEMA ISRAELIANO, FONDAZIONE CENTRO DI DOCUMENTAZIONE EBRAICA CONTEMPORANEA I ALESSANDRO GUATTI I 2015

NUOVO CINEMA ISRAELIANO

organizzata da Fondazione CDEC in collaborazione con Fondazione Cineteca Italiana e Pitigliani Kolno'a Festival

 

 

 

ALESSANDRO GUATTI

"Good Son", Shirley Berkovitz

Good Son

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Per il suo 65° anniversario, il CDEC ha organizzato un’edizione di Nuovo Cinema Israeliano assai ricca di proiezioni e incontri. Cinque giorni di intensa attività che portano al pubblico milanese una selezione delle pellicole presentate al Pitigliani Kolno’a Festival di Roma nel novembre dello scorso anno. Dan Muggia e Ariela Piattelli, curatori della rassegna, hanno scelto alcune tra le più significative produzioni cinematografiche israeliane degli ultimi anni, accanto alle quali vengono proposte alcune opere italiane di argomento ebraico.
Il filo rosso di questa ottava edizione della rassegna è senza dubbio la famiglia: tutti i film ruotano intorno a questo tema e ci presentano diversi modi non soltanto di trattare l’argomento ma anche di intenderlo: cosa è davvero la famiglia? Come la si definisce? Come la si costruisce? Queste sono alcune delle domande che le opere in programma pongono allo spettatore: è la riflessione personale dei singoli che può dar voce al sottotesto presente nelle opere d’arte.

Il film di inaugurazione della rassegna è un omaggio ad una grande personalità del cinema e della televisione israeliani scomparsa l’anno scorso. Life as a Rumor (di Adi Arbel e Moish Goldberg, 2013) è infatti un interessantissimo documentario sull’attore e regista israeliano Assi (Asaf) Dayan,  assai noto anche per essere il figlio del quarto Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze di Difesa Israeliane, Moshe Dayan. Il film è narrato in prima persona dallo stesso Assi mentre si trova sul set di quello che sarà probabilmente il suo ultimo film e racconta per capitoli la sua vita, costruendo così un racconto filmico al confine tra biografia e autobiografia, che si sviluppa unicamente su materiali d’archivio ripercorsi dalla sua voce narrante. Non ci sono infatti interviste ad altre persone: tutta la storia ha un unico punto di vista che è però incredibilmente autocritico.

 

Life as a rumor

"Life as a Rumor", Adi Arbel e Moish Goldberg

Ripercorrendo anche i cambiamenti avvenuti nella società israeliana, nonché nel pubblico cinematografico, Assi Dayan opera un bilancio della propria vita che si potrebbe definire in perdita: divorzi, abbandono dei figli, tentati suicidi, abuso di droghe… Eppure ad uno sguardo più approfondito si riesce sempre a percepire un afflato verso la ricerca creativa, verso l’espressione artistica più alta e sincera che ha mosso gran parte delle sue azioni e scelte professionali. Certo, il richiamo del successo ha talvolta corrotto il percorso artistico di Dayan, ma la lucidità con cui egli analizza la propria storia non può non farci ammirare l’onestà e la profondità di un uomo che si potrebbe ben definire “artista maledetto”.

Sempre in omaggio ad Assi Dayan sono proiettati due episodi della serie televisiva BeTipul (Hagai Levi, 2005), incentrata sulle sedute di uno psicologo (interpretato da Dayan) con i suoi pazienti. Il pubblico italiano ritrova qui delle dinamiche narrative con cui è familiare perché il format della serie è stato adattato anche in Italia, dove il titolo è stato mutuato dalla versione statunitense (In treatment) e il ruolo di Dayan è stato affidato a Sergio Castellitto.

Betlehem

"Betlehem", Yuval Adler

 

In Bethlehem, vincitore della sezione Venice Days alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2013, Yuval Adler racconta la storia di Sarfur, un ragazzino palestinese collaboratore dei servizi segreti israeliani. I temi del dilemma morale, dell’impossibilità di rinnegare le proprie radici e dei due universi che si contrappongono non solo militarmente ma anche ideologicamente, vengono trattati dal regista con grande profondità e con una vena di pessimismo. Lo spettatore è sempre molto coinvolto dai due protagonisti (Sarfur e Razi, l’agente che lo ha ingaggiato), nonostante il film sia un ritratto crudo e crudele, eppure assai realistico, di una situazione che agli occhi del regista è destinata a non cambiare.

Big Bad Wolves (di Aharon Keshales e Navot Papushado, 2013) si potrebbe definire un thriller, anche se non rispetta tutte le regole del genere: è un intelligente mix di detective-story e dramma, condito con humour (talvolta nero). Per il primo film israeliano che parla esplicitamente di un serial killer, i registi si affidano ad attori bravissimi (su tutti il notissimo Lior Ashkenazi) e situazioni ad alta tensione. L’inizio al ralenti funzionale alla creazione della suspense richiama Antichrist di Lars Von Trier (2009) e crea nello spettatore un senso di disagio che verrà tenuto alto lungo tutta la pellicola dalla continua contrapposizione tra i drammi dei personaggi e il pulp tarantiniano delle sequenze più sanguigne. Forse c’è troppa carne al fuoco (si parla di giustizia, di fiducia, di moralità, di pedofilia, di amore paterno) ma alla fine della proiezione tutto appare in perfetto equilibrio: anche il finale così amaro è funzionale sul piano narrativo a bilanciare lo splatter delle torture e l’umorismo dei dialoghi, mentre sul piano etico serve a non farci dimenticare che la realtà è molto più cruda di quanto possiamo immaginare o raffigurare.

 

Big bad Wolves

"Big Bad Wolves", Aharon Keshales e Navot Papushado

The Good Son

"The Good Son", Shirley Berkovitz

 

The Good Son di Shirly Berkovitz (2013) affronta il tema dell’identità sessuale in chiave documentaristica narrando la storia di Or, ventiduenne israeliano che decide di farsi operare in Thailandia per diventare donna e tornare dalla sua famiglia a mostrare la propria vera identità. Il film, contraddistinto da un’estrema delicatezza, riveste della massima importanza gli affetti familiari e la necessità di essere sé stessi fino in fondo, con lo scopo di affermare che l’auto-riconoscimento è un valore, un dovere verso noi stessi che dobbiamo perseguire ad ogni costo. Il racconto si sviluppa come un video-diario, narrato anche in questo caso in prima persona, ma questa volta tutto al presente: scene in cui il protagonista nasconde la videocamera per filmare i dialoghi con i suoi familiari si alternano ad altre in cui la regista accetta di seguire Or in Thailandia per documentare l’operazione e la riabilitazione, momenti nei quali lui non potrebbe più svolgere il doppio ruolo di regista e protagonista. Or si rivolge spesso alla macchina da presa nell’espressione dei suoi dubbi e delle sue incertezze, riuscendo così a coinvolgere lo spettatore anche sul piano emotivo oltre che su quello narrativo.

Magic Men (Guy Nattiv e Erez Tadmor, 2013) è davvero un racconto magico perché la storia di Avraham, che durante il suo soggiorno a Salonicco va alla ricerca dell’uomo che gli ha salvato la vita nascondendolo ai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, è coinvolgente, poetica, divertente e profonda. La sceneggiatura è impeccabile (solo il finale potrebbe sollevare qualche perplessità, non tanto per lo sviluppo narrativo, senz’altro corretto e logico, quanto per la sua non-necessità); la regia inappuntabile (molto ironica nelle scene divertenti ed estremamente attenta all’introspezione dei personaggi nei momenti più riflessivi o dolorosi);  gli attori sono perfetti. Un film che fonde la storia di una ricerca dell’altro con il ritrovamento interiore di un importante legame familiare, un racconto che fa ridere fino alle lacrime e commuovere per la poeticità della sua storia straordinaria ma in fondo così naturale. Un vero gioiello.

 

Magic Men

"Magic Men", Guy Nattiv e Erez Tadmor

The Good Son

"Next to her", Asaf Korman

 

Next to her di Asaf Korman (2014) dipinge le dinamiche familiari di due sorelle che vivono una situazione particolare: Heli infatti ha deciso di prendersi cura di Gabi, portatrice di handicap, e si divide quindi tra il lavoro e la responsabilità della sorella. Quando però è costretta ad affidare Gabi a un centro diurno, il delicato equilibrio della loro vita si spezza, rivelando come l’affetto di Heli per la sorella sia pericolosamente vicino ad un legame morboso che le impedisce di avere rapporti sociali e personali. Il profondo cambiamento porta infatti alla rottura del legame amoroso che Heli sta instaurando con un collega.

Nella rassegna viene riproposto Matzor di Gilberto Tofano, bellissimo film del 1969 che attraverso la storia di una vedova di guerra narra l’assedio (questo il significato del titolo) della società israeliana, soprattutto quello psicologico messo in atto anche dagli uomini israeliani stessi nei confronti delle loro donne. La magistrale interpretazione di Gila Almagor (che abbiamo apprezzato anche nel ruolo della psicologa di Assi Dayan nel secondo episodio di BeTipul proposto in rassegna) offre un ritratto assai moderno della figura della “vedova di guerra” nel panorama del cinema israeliano di quegli anni, dotandola di una forte personalità e di un’assai innovativa attenzione alla psicologia. Tofano, italiano di nascita, si rivela attento conoscitore delle ricerche stilistiche europee (soprattutto della Nuovelle Vague francese) e si conferma israeliano nell’animo per la profonda conoscenza dei meccanismi che regolano i rapporti interpersonali e le situazioni sociali di un Paese sempre sull’orlo del conflitto

 

Matzor

"Matzor", Gilberto Tofano

Anche gli ultimi tre audiovisivi proposti hanno un forte legame con l’Italia. I nove minuti de La memoria che ritorna (Salvatore Di Segni) rappresentano un’importantissima testimonianza storica e filmica perché costituiscono l’unico filmato amatoriale sino ad oggi rinvenuto che ritragga scene di vita di una famiglia ebraica prima della Shoah. Siamo nel 1923 e la cinepresa della famiglia Di Segni ci mostra un matrimonio, dei giochi al parco, una camminata sulla neve. Vera (di Francesca Melandri, 2010) è invece la storia della vita straordinaria di Vera Martin, ebrea croata nata nel 1924 e giunta in Italia perché salvata da un carabiniere italiano. Vera ora alleva cavalli da corsa e il film è costruito sull’alternanza tra i suoi ricordi e la delicata situazione che deve affrontare quando una delle sue cavalle deve partorire.

Felice nel box

"Felice nel Box", Ghila Valabrega

 

Felice nel box (Ghila Valabrega, 2015) è la buffa storia vera del ritrovamento di una lapide nel box della famiglia della regista.

A completamento della rassegna sono state organizzate le presentazioni dei libri La dieta Kasher a cura di Rossella Tercatin e Svita di Luciano Bassani, nonché di Ladri nella notte di Arthur Koestler e Life on Mars di Fiammetta Martegani, questi ultimi due editi dalla nuova casa editrice digitale Tiqqun, dedicata esclusivamente alla letteratura ebraica ed israeliana.

Anche quest’anno il Nuovo Cinema Israeliano ci ha divertiti e appassionati, coinvolti e invitati alla riflessione. Arrivederci all’anno prossimo con la nona edizione rouge

 

 

 

 

 

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Nuovo Cinema Israeilano, Alessandro Guatti

info

7 - 11 / 06 / 2015, Milano, ITALY

Life as a rumor

Life as a rumor

Betlehem

Big Bad Wolves

Magic Men

Next to her

Matzor

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FONDAZIONE CENTRO DI DOCUMENTAZIONE
EBRAICA CONTEMPORANEA
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