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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 33. TORINO FILM FESTIVAL 2015 I TORINO : VINCE IL CINEMA BELGAI DI GIOVANNI OTTONE I 2015

33° TORINO FILM FESTIVAL 2015

Torino: vince il cinema belga
Cinema d’autore e di genere

Premiati :
Guillaume Senez, Santiago Mitre,
Raphäel Jacoulot, Hassen Ferhani
e Margarida Leitão

DI GIOVANNI OTTONE

"Sufragette" Sarah Gavron

Torino Film Festival

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La trentatreesima edizione del “Torino Film Festival”, svoltasi dal 20 al 28 novembre, ha riconfermato la sua posizione quale principale appuntamento italiano, che si svolge in un ambito metropolitano, con profilo internazionale, per cineasti, cinefili e pubblico in generale. È un evento con una precisa connotazione di selezione e di ricerca a favore di un cinema nuovo o poco conosciuto e quindi da recuperare, essendo “necessario” per le sue qualità narrative e per la sperimentazione di linguaggio visivo e non. Inoltre da anni, pur confermando di prediligere le opere prime e seconde di giovani registi, si è aperto sia al cinema di genere d’autore, specie thriller e horror, sia ad una vocazione di anteprima italiana di film di qualità, che dimostrano una particolare forza narrativa o caratteristiche spettacolari e anche valenza commerciale, presentati in altri Festival prestigiosi dello stesso anno (Berlino, Cannes, Locarno,Toronto, ecc.). Si tratta quindi di una rassegna assolutamente originale perché, attraverso i suoi incontri, i suoi incroci e le sue “provocazioni”, stimola e assicura i confronti e i contatti tra gli autori e i tecnici del settore, in particolare quelli che lavorano con low budgets, e con il pubblico, in particolare i giovani ventenni e trentenni.  Senza dubbio i numeri del Festival sono lusinghieri: circa 180 film in programma, in larga parte lungometraggi, provenienti da tutti i continenti, con preponderanza di europei e americani, e circa 300 tra attori e registi presenti. Il pubblico, secondo le prime stime, ha raggiunto circa 100.000 presenze complessive, alle varie proiezioni, e si sono registrati oltre 2000 accreditati, di cui circa 700 giornalisti. Essendo il secondo anno in cui la Direzione è stata affidata formalmente a Emanuela Martini, nota critica e programmatrice, esperta del cinema britannico e già Coordinatore, nel 2007 e 2008, e poi Vicedirettore, dal 2009 al 2013, del Festival, la mission storica della rassegna non è cambiata. Il “Torino Film Festival” continua ad essere una buona vetrina delle nuove tendenze cinematografiche, della produzione indipendente, del “fuori formato” e del documentario, con proficui confronti fra autori contemporanei e del passato, presenti nelle consuete interessanti Retrospettive tematiche offerte ogni anno al pubblico. Quest’anno il Guest Director invitato a contribuire con un apporto personale di suggerimenti e percorsi è stato il noto regista sessantenne inglese Julian Temple, con carriera ultratrentennale di filmmaker indipendente di documentari, opere crossover e video musicali dedicati a molti artisti del rock e del punk.

Il programma e la formula della manifestazione torinese hanno presentato continuità rispetto alle edizioni dell’ultimo quinquennio. Una selezione di 158 lungometraggi, 15 mediometraggi e 32 corti complessivamente ricca di scelte coraggiose e fortemente volute e un cinema indipendente, fuori dagli schemi e dalle convenzioni, a tutto campo. Accanto alla consueta sezione competitiva internazionale “Torino 33”, che ha presentato 15 lungometraggi, con prevalenza di registi europei, sono stata confermate le seguenti altre sezioni: Festa mobile, dedicata a film di autori già affermati, anteprime di film di qualità in uscita nelle sale, e ad alcuni documentari,  vere “scoperte” con forte valenza culturale e antropologica; Julian Temple: Questioni di vita e di morte,  selezione di sei lungometraggi amati dal regista, con opere di Bergman, Cocteau, Powell w Paradjanov in aggiunta ai suoi Oli City Confidential (2009) e il nuovissimo The Extasy of Wilco Johnson (2015), dedicati ai componenti di “Dr Feelgood”, una delle più esplosive rock band britanniche degli anni ’70; After hours, dedicata al cinema di genere drammatico, con prevalenza di thrillers e horrors, con un focus sul regista statunitense Jim Mickle; TFF Doc, il tradizionale spazio competitivo articolato in documentari internazionali e documentari italiani; Italiana. Corti, competizione di cortometraggi italiani; Onde, dedicata al cinema internazionale più sperimentale e fuori formato, con un focus sulla regista statunitense Josephine Decker; Spazio Torino, competizione di cortometraggi riservata a registi nati o residenti in Piemonte; TorinoFilmLab, riservata a lungometraggi internazionali di giovani autori selezionati, realizzati e prodotti  con l’ausilio del laboratorio legato al Festival, dotato annualmente di un fondo di 1 milione di euro, dedicato alla formazione, allo sviluppo, all’edizione e alla distribuzione di progetti cinematografici e quindi alla sceneggiatura, alla regia e alla distribuzione dei film premiati annualmente. E infine Cose che verranno: la Terra vista dal cinema, la Retrospettiva, curata dalla stessa Martini, dedicata a film che dagli anni ’30  agli anni ’90 hanno immaginato creativamente e drammaticamente il futuro del nostro mondo e le relazioni con altri mondi. Un intelligente collettanea di film di autore geniali, clamorosi e provocatori. La rassegna retrospettiva ha presentato quest’anno ben 30 lungometraggi, realizzati tra il 1936 e il 1996. Ricordiamo alcuni tra i film più noti, già successi all’epoca della loro uscita sugli schermi o veri capolavori rivalutati nel corso del tempo: The War of the Worlds (1953), di Byron Haskin; Dr Strangelove (1964), di Stanley Kubrick; Alphaville; une étrange aventure de Lemmy Caution (1965), di Jean-Luc Godard; Farenheit 451 ( 1966), di François Truffaut; Planet of the Apes (1968), di Franklin Schaffner; Il seme dell’uomo (1969), di Marco Ferreri; A Clockwork Orange (1971), di Stanley Kubrick; Westworld (1973), di Michael Crichton; Mad Max (1979), di George Miller; Blade Runner (1982), di Ridley Scott; Brazil (1985), di Terry Gilliam; Strange Days (1995), di Kathryn Bigelow; Crash (1996), di David Cronenberg.

La Giuria della sezione competitiva “Torino 33” è stata composta dai seguenti registi, attori e critici:  Valerio Mastandrea, Marco Cazzato, Josephine Decker, Jan-Ole Gerster, Corin Hardy. 

Analizziamo innanzitutto  alcuni lungometraggi della sezione competitiva principale.

Torino Film Festival

"Keeper" Guillaume Senez

 

Keeper, opera prima  scritta e diretta dal belga Guillaume Senez, ha ottenuto il Premio al miglior film. È un coming-of-age drammatico che racconta la controversa relazione tra due quindicenni che  vivono in una cittadina di provincia della Valonie,  la regione francofona del Belgio.  Maxime (Kacey Mottet Klein), spilungone e nervoso, è un promettente portiere in una squadra di calcio giovanile, avviato ad un impegno con prospettive professionali. Sinceramente innamorato della piccola ed estroversa Mélanie ( Galatea Bellugi), si trova sconcertato e spiazzato quando la fidanzata gli comunica di essere incinta. A questo punto entrano in gioco anche le rispettive famiglie. Mèlanie deve subire le  forti pressioni di sua madre Particia (Laetitia Dosch) che la spinge ad abortire e si trova inizialmente indifesa rispetto alle scelte che  la donna, che ha già vissuto in prima persona un’esperienza simile, le vuole imporre.

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Nathalie (Catherine Salée), la madre divorziata di Maxime, sembra invece pronta a sostenere comunque le decisioni del figlio, il quale dapprima reagisce rabbiosamente allo stress, che compromette anche le sue prestazioni sportive, ma poi si abitua all’idea di diventare padre e alla fine convince Mélanie a portare a termine la gravidanza e a tenere il bambino. Senez costruisce un film drammaticamente incerto ed esile, pur non essendo sensazionalista ed evitando la manipolazione del pubblico. Se da un lato ha il merito di non  complicare la storia con complicazioni ideologiche e morali circa il tema dell’aborto, dall’altro il gioco di incoscienza, emozioni conflittuali, contrasti, incertezze e dubbi appare spesso artificioso, sterile e viziato da scontati clichés. L’approccio di osservazione, pur spesso eccessivamente empatico, e l’ambientazione realista  sono valori aggiunti e la recitazione dei protagonisti appare a tratti fresca e convincente.

Paulina (La patota), opera seconda dell’argentino Santiago Mitre, ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria. Si tratta di un eccellente ritratto femminile e offre una  cosciente disanima del contesto di classe e del machismo in Argentina. La ventenne Paulina (Dolores Fonzi, molto solida e matura), che vive nel nord dell’Argentina,  ha terminato brillantemente gli studi in legge e  ha di fronte a sé buone prospettive di carriera nella magistratura a Buenos Aires. Idealista  convinta, sceglie invece di dedicarsi a un progetto di inclusione sociale nella provincia di Misiones, ai confini con il Paraguay. Suo padre Fernando (Oscar Martinez), un affermato giudice locale non comprende la sua posizione e la sua opzione, ma ne rispetta la decisione. Il confronto dialettico tra i due, che si sviluppa durante un unico prolungato piano sequenza, è uno dei momenti chiave, utile per comprendere l’intera traiettoria comportamentale di Paulina nel corso del film. La giovane donna, avvenente e impegnata, inizia quindi a insegnare con serietà a giovani sedicenni, piuttosto disinteressati, che vivono in una borgata proletaria.

 

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"Paulina (La patota)" Santiago Mitre

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Una notte, mentre rientra a casa in motorino, viene violentata: il responsabile è Ciro (Cristian Salguero), un  ventenne frustrato, operaio in una segheria, ma nel branco, la patota, vi sono anche quattro suoi studenti. Paulina riprende il lavoro, affronta tutte le conseguenze dello stupro subito,  non denuncia i colpevoli quando una collega amica (Laura Lopez Moyano) glieli indica e assume decisioni non comprese dalla maggioranza delle persone che conosce. Santiago Mitre riadatta liberamente  l’omonimo film La patota, del connazionale Daniel Tinayre, un classico del 1960. Dopo El estudiante (2011), straordinaria storia di formazione politica ed esistenziale, offre un dramma articolato che evita del tutto la demagogia e la manipolazione. È senza dubbio un’opera coinvolgente in ragione dell’acutezza dello sguardo, della straordinaria caratterizzazione dei personaggi, e dell’intelligenza della messa in scena. Un film emozionante, che si contrappone nettamente alla logica cinematografica tradizionale, e che fa pensare in ragione della sua lucida complessità morale e politica. Lo stile di Mitre è incisivo, con una narrazione che utilizza ampiamente i flashbacks, e i dialoghi sono ben congegnati. Punta sulla contrapposizione tra la soggettività della protagonista, che vive emozioni contrastanti e dimostra una sofferta coerenza personale, e l’ambivalenza e l’ambiguità dei personaggi che la circondano. Da segnalare inoltre la credibilità delle location e della scenografia da cui deriva il carattere realista delle scene.

Torino Film Festival

"Coup de chaud " Raphaël Jacoulot

 

Coup de chaud, terzo lungometraggio diretto dal francese Raphaël Jacoulot, e scritto dallo stesso regista in collaborazione con Lise Macheboeuf, ha ricevuto sia il Premio per il miglior attore, assegnato al protagonista Karim Leclou, sia il Premio del pubblico. È un’opera ispirata da fatti reali, interessante in termini antropologici, sociali e politici, ma  fortemente imbrigliata, schematica e didascalica. La vicenda si svolge in un paese sperduto sugli altipiani della Francia più profonda durante un’estate anomala, di quelle che rimangono nella memoria collettiva, in cui il caldo bruciante potrebbe far perdere un intero raccolto: i campi bruciano e gli abitanti boccheggiano. La canicola è opprimente, genera tensioni e alimenta il malcontento. L'acqua scarseggia e per ovviare alla siccità, la comunità locale, capeggiata dall'ignavo sindaco,  nonché veterinario, Daniel (Jean-Pierre Darroussin , decide di acquistare una pompa idrica, in grado di far arrivare l'acqua direttamente da un laghetto.

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Una notte però la pompa sparisce e le colpe ricadono su Josef Bousou (Karim Leclou), un trentenne figlio di gitani poveri, con un ritardo mentale e qualche disturbo comportamentale, tra infantilismi e instabilità emotiva, esperto nel creare problemi. Fondamentalmente innocuo, è conosciuto da tutti e passa le giornate sulla sua macchinetta blu ascoltando musica a tutto volume.  È un corpo estraneo, alieno e disturbante e diventa il capro espiatorio ideale. E quando ne viene rinvenuto il cadavere, è chiaro che qualcuno dalle parole è passato ai fatti.  Il film propone un ritratto  suggestivo, ma purtroppo abbastanza superficiale, di un microcosmo provinciale squallido e dominato dalla subcultura della meschinità, dell’invidia e del sospetto nei confronti del “diverso”, con ambiguità, complicità e conflittualità. Pur offrendo un vivace taglio documentaristico e non mancando di autenticità ed empatia,  approccio e narrazione risultano troppo costruiti ad hoc. I meccanismi narrativi e la costruzione dei personaggi, ingabbiati in ruoli stereotipati, finiscono per imbrigliare anche la genuinità, la potenziale e la fertile imprevedibilità mostrata da Karim Leklou. Jacoulot intreccia crisi economica, siccità, pregiudizi e razzismo, l’incomunicabilità tra ragazzi e adulti e sensi di colpa: troppi temi, troppi personaggi appena abbozzati oppure sempre sopra le righe, come se  poche parole e sguardi forzati e prosaici potessero giustificare gesti tragici e irreparabili. Infatti è solo la marginalità di Josef, la sua incapacità a seguire il quieto vivere campagnolo, a tenere in piedi  un film che  tende a scivolare verso una prospettiva di moderna operetta morale politicamente corretta. Ne deriva che la tragedia è fin troppo annunciata e preparata da troppe sottolineature e il finale è troppo condensato e sbrigativo.

Merita invece una citazione molto positiva Coma, opera prima della trentenne Sara Fattahi, un’opera a metà strada tra  documentario e finzione. Radicale, rigoroso, pregnante e volutamente ostico nella sua intransigenza estetica e narrativa, racconta la reclusione volontaria di tre donne in un appartamento >in un vecchio caseggiato decadente a Damasco, mentre fuori infuria la guerra. Tre generazioni di donne della stessa famiglia, nonna, madre e figlia, vivono insieme e si aggirano come fantasmi ancora in vita, con la surreale colonna sonora delle soap opera televisive. Tre età diverse, altrettanti bagagli di esperienze e ricordi, ma la medesima volontà di condividere un passato doloroso e cercare un modo per andare avanti nella perdita e nella sofferenza che circonda la loro casa. Il film, complesso e feroce, non  cade mai  nel vuoto formalismo. Piuttosto Sara Fattahi sembra esasperare, portandole alle estreme conseguenze, le scelte del suo sguardo, a partire dal digitale povero, in bassa definizione, per continuare con l’uso continuo del fuori fuoco, di colori accesi e iperrealisti, di primissimi piani con cui la sua videocamera si incolla, in modo quasi soffocante, ai tre personaggi.

 

Torino Film Festival

"Coma" Sara Fattahi

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Parte dal cinema del reale per approdare, paradossalmente, a una visione iperrealistica, claustrofobica e quasi astratta del tema che racconta. Ne deriva un kammerspiel allucinato e decentrato, un incubo di visioni sfocate e frammenti di dialoghi, di oggetti familiari improvvisamente divenuti minacciosi. La regista non concede niente allo spettatore,  porta avanti la sua idea di messa in scena con un’intransigenza pressoché totale, coraggiosa e ammirevole.

Analizziamo quindi alcuni dei film più significativi presentati nella sezione Festa Mobile.

Torino Film Festival

"Sufragette " Sarah Gavron

 

Suffragette, opening film del Festival, è un avvincente dramma d’epoca, opera seconda della britannica Sarah Gavron. Propone la storia di un gruppo di donne di diversa estrazione sociale, militanti per il diritto di voto  e per l’emancipazione femminile a Londra nel 1912, in un’epoca contrassegnata dal duro moralismo post-vittoriano e dalla triste condizione lavorativa delle donne proletarie. Al centro della vicenda vi è Maud (Carey Mulligan, molto credibile) una ventenne che fin dall’adolescenza lavora in una grande lavanderia industriale. Il film registra la sua progressiva presa di coscienza, anche a costo di entrare in contrasto con il marito che alla fine la costringe a lasciare il loro alloggio e le impedisce di vedere il suo bambino. Maud diventa membro di un gruppo militante di suffragette, legate da forte solidarietà reciproca, di cui fanno parte personaggi  ricordati dalla Storia, come la farmacista Edyth Ellin (Helena Bonham Carter) e Emily Davison (Natalie Press), ispirato dalla mitica leader Emmeline Pankhurst (Meryl Streep).

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Perseguitate dall’abile e implacabile ispettore di polizia Steed (Brendan Gleeson), che alterna arresti violenti e blandizie per ottenere che qualcuna diventi suo informatore, e deluse dal tenace rifiuto del governo di riconoscere il  diritto di voto alle donne, le attiviste compiono atti clamorosi di protesta pagando un prezzo molto alto. Il film è convincente grazie ad un’ottima ricostruzione dell’epoca  in termini scenografici, di costumi, di mentalità e di rapporti sociali e ad una scrittura puntuale che definisce con chiarezza i personaggi. La scansione  narrativa evita in larga parte la deriva pietista e retorica e definisce un ritmo intenso ed efficace in cui si mescolano suspence ed emozioni.

The Lady in the Van, dell’ inglese Nicholas Hytner, è una gustosissima commedia drammatica, molto british. Adatta una fortunata pièce teatrale, del 1999, del notissimo Alan Bennett, beniamino del West End londinese e autore anche della sceneggiatura del film che racconta parte della sua vita. La protagonista è un’irriverente, energica, scontrosa e stramba settantenne, Miss Mary Shepherd (la straordinaria Maggie Smith) che, nei tardi anni ’60, vive in un vecchio van  stazionando nelle strade di Camden, un antico e tranquillo quartiere residenziale londinese. La donna, che occulta molti segreti, nonostante sia povera e molto trasandata, conserva una buffa dignità, ma non rinuncia a compiere atti di rivalsa contro chi la infastidisce o la disprezza.  Dopo averlo conosciuto, impone una relazione di amicizia ad Alan Bennett (Alex Jennings), recentemente trasferitosi a Camden. Lo scrittore, sceneggiatore e regista teatrale, gentile, moderatamente nevrotico e  omosessuale molto discreto, essendo mosso da pietà, le consente di parcheggiare temporaneamente il minibus nel vialetto di ingresso della sua residenza. Ma il tempo trascorre e Mary non se ne va.

 

Torino Film Festival

"The Lady in the Van" Nicholas Hytner

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Tra i due nasce uno strano sodalizio di inconfessata mutua dipendenza e di interesse reciproco tra anime solitarie: un’inconsueta relazione che continua per ben 15 anni, fino alla morte di Mary. Il film è ricco di humour intelligente e di episodi esilaranti. Prospetta una genuina caratterizzazione umanista dei personaggi e offre un fine sguardo ironico  sulla società inglese dell’epoca, tra classismo e welfare state, rifuggendo la facile retorica.

Torino Film Festival

"As mil e uma noites " Miguel Gomes

 

As mil e uma noites quarto lungometraggio del portoghese Miguel Gomes, è un film affascinante e inclassificabile, della durata di oltre sei ore, articolato in tre capitoli di dimensioni pressoché uguali. Costruito con un riferimento libero al classico della letteratura antica “Le mille e una notte”, mescola con varie modalità finzione e documentario. Propone in chiave realistica, poetica e tragicomica, con incursioni surreali e  deliranti, storie ispirate da fatti reali avvenuti in Portogallo tra agosto 2013 e luglio 2014, reperite dalla giornalista Maria José Oliveira. Un periodo marcato dalle misure di austerità economica instaurate dal governo senza ottica di giustizia sociale e con un risultato di impoverimento di tutta la popolazione, secondo la didascalia iniziale del film. Pur nascendo da una precisa volontà di non indifferenza rispetto alla crisi economica attuale, non è un pamphlet di denuncia, ponendosi piuttosto in relazione  con molti rivoli della cultura popolare del Paese.

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La prima parte, O inquieto, si apre con il prologo  che contiene tre spezzoni documentaristici molto seri: la lotta dei 600 lavoratori licenziati dei cantieri navali di Viana do Castelo; la battaglia  di un gruppo di apicoltori contro l’invasione di vespe asiatiche; la frustrazione di Gomes stesso di fronte all' impresa apparentemente impossibile di realizzare il film. Poi un’inedita Sheherazade introduce tre storie: “The men with a hard-on”, un assurdo resoconto di un meeeting della Unione Europea; “The story of the cockered and the fire”, in cui un giudice processa un gallo che  in piena notte disturba gli abitanti di un villaggio; “The swim of the magnificents”, in cui un sindacalista intervista vari disoccupati a Capodanno. La seconda parte, O desolado, propone altre tre storie: “Chronicle of the escape of Simao without bowels” che descrive la fuga  attraverso un territorio selvaggio di un vecchio magrissimo che ha ammazzato quattro donne tra cui la moglie e la figlia ed è inseguito dalla polizia, ma aiutato dalla gente; “The tears of the judge” che presenta alcuni casi assurdi e paradossali che si svolgono in un'aula di tribunale; “The owners of Dixie” che racconta un bisticcio tra vari proprietari di alloggi in una casa popolare. Il terzo capitolo O encantado vede Sheherazade fuggire dal palazzo del Re, incontrare suo padre il Gran Vizir e raccontargli prima sé stessa e poi presenta “The inebriating chorus of the chaffinches,” una storia-documentario su uomini “stregati” che si dedicano con passione ad insegnare come cantare agli uccelli, per poi competere tra loro, nei quartieri più degradati di Lisbona. Nel cinema  di Miguel Gomes l'affabulazione e lo sguardo limpidamente antinaturalistico sono elementi fondamentali. Peraltro le sue storie si sviluppano all'insegna dell'imprevedibilità. I personaggi entrano in un gioco di eventi inatteso, obliquo o deviante, tra vissuto presente e memorie del passato, anche se avviene che siano spesso preda di amnesie, falsi ricordi ed estraneità a sé stessi. Le provocazioni  non sono mai strumentali e fanno pensare al cinema dello scomparso indimenticabile Joao César Monteiro, quantunque senza la spiccata vena malinconica di quest’ultimo. Al tempo stesso i temi della rivolta e della rottura delle convenzioni, con continue torsioni dei protagonisti oltre la logica, sono al centro di tutto il suo cinema, memore anche di François Truffaut e di Henri Langlois.. Il precedente bellissimo Tabu (2012) configura un dramma esistenziale che contiene una visione molto originale del colonialismo portoghese in Africa.  As mil e uma noites riprende, con maggiore maturità, approccio e stile di Aquele querido mes de agosto (2008), un'opera molto creativa, fresca e fonte di divertimento esilarante, immersa nel mondo e nei rituali ludici contadini. Offre, con fine umorismo, un coacervo di storie nelle storie, con didascalie e uso della voice over. Variopinte scene di gruppo e coreografie di danza, con una mescolanza di costumi moderni e orientali antichi, sono accompagnate da una variegata colonna sonora di motivi pop e folk. Il tutto con un'alternanza di 16 e 35mm e con una tessitura colorata ed esotica delle immagini dovuta alla fotografia di Sayombu Mukdeeprom, il collaboratore fedele di Apichatpong Weerasethakul.

Nie Yinniang (The Assassin), del veterano cinese, di Taiwan, Hou Hsiao-hsien, ispirato da un romanzo di genere cavalleresco chuanqi e ambientato in Cina nel IX secolo d. C., nell'epoca della decadenza  della famosa dinastia imperiale Tang, è apparentemente un curatissimo film di genere  wuxia, ovvero  epico avventuroso e di arti marziali. La trama è complessa, molto elaborata e parzialmente contraddittoria, tra intrighi politici e passionali e contorte problematiche psicologiche, morali e filosofiche. Peraltro è un opera in cui il racconto poco a poco cede il passo al virtuosismo formale e alla raffinata stilizzazione. La protagonista della storia è la bellissima nobile trentenne Nie Yinniang (Shu Qi). La donna torna in famiglia, nella provincia di Weibo, dopo anni di esilio durante i quali è diventata adepta di una setta di giustizieri guidata da una suora taoista. La sua missione segreta è quella di assassinare il  potente governatore di Weibo ribelle all'imperatore. Ma l’uomo da uccidere è suo cugino Tian Ji'an (Chang Chen), che in passato lei aveva amato senza poterlo poi sposare.

 

Torino Film Festival

"The Assassin (Nie Yinniang)" Hou Hsiao-hsien

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Quindi Nie Yinniang diventa un’ombra sfuggente e silenziosa, enigmatica e ribelle. Il film, concepito e preparato nel corso di 10 anni, è in realtà un melodramma crepuscolare che fa emergere sottilmente la contraddizione tra il dovere, ovvero la fedeltà al ruolo di sicario e i sentimenti, quindi il rispetto per la persona amata. E in termini più generali la dicotomia tra l’obbedienza alle  norme comportamentali statuite e la fedeltà al proprio codice morale. Le scene dei combattimenti volanti sono in fondo marginali, limitate e relativamente poco spettacolari perché prevale la dialettica psicologica e l'intrigo politico che impegnano i personaggi. È un’opera meravigliosa in termini di messa in scena rigorosa, prevalentemente notturna, con fasi di suggestiva lentezza, con magnifici long shots dall'esterno all'interno del palazzo e intensi millimetrici piani sequenza, e accelerazioni folgoranti e inebrianti. Presenta le transizioni dello screen format di proiezione per rispecchiare le fasi del viaggio di Nie Yinniang. Si passa dallo straordinario bianco e nero molto contrastato con il formato 1:1,37 nel prologo al colore splendente ed espressivo a cui corrisponde il formato 1:1,66, ad eccezione di tre unici piani che presentano un pittoricismo sorprendente e occupano interamente lo schermo con formato panoramico 1:1,85, quando la protagonista arriva a Weibo. Da segnalare inoltre  la fotografia ricca di contrasti e gli squisiti flash cinetici utilizzati con parsimonia durante le sequenze d’azione, frutto della geniale professionalità di Mark Lee Ping Bing, cinematographer  storico di Hou, ma anche i costumi ricchissimi e  la recitazione  eccellente dell’intero cast.

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"Nasty baby" Sebastián Silva

 

Nasty baby, sesto  lungometraggio del cileno Sebastián Silva, è stato realizzato e prodotto negli USA.  La vicenda si svolge a Brooklyn, New York, e propone il ritratto di un gruppo di presuntuosi bohemians, che si dibattono tra lavori precari ed esperienze artistiche di dubbia qualità,  con la costante difficoltà a mantenere le loro costose abitudini per essere alla moda. Al centro dell’intreccio vi è una coppia di maschi gay trentenni formata dal nevrotico Freddy (lo stesso Sebastián Silva), un artista di origini latinoamericane, e dal più bonario Mo (Tunde Abebimpe) che è afroamericano. Freddy è ossessionato dal desiderio di avere un figlio, al punto di costruire una video performance pop surreale basata sui neonati. I due convincono la loro carissima amica Polly (Kristen Wiig) a sottoporsi ad inseminazione artificiale con lo sperma di quello tra loro che risulta più fertile per rimanere incinta. Fantasticano su un futuro bambino con tre genitori. Il loro appartamento in una vecchia casa d’epoca è il crocevia di un va e vieni di eccentrici amici e conoscenti. 

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Si assiste a una girandola di situazioni comiche, dai plurimi tentativi di inseminazione di Polly ad una rocambolesca visita fuori città al domicilio dei genitori tradizionalisti di Mo per informarli dei progetti della coppia. Nel frattempo Freddy è sotto pressione per organizzare una mostra dei suoi lavori, la video performance citata e opere con tecnica mista, molto azzardati e provocatori, che dovrebbe svolgersi in una delle gallerie d’arte più conosciute. Poi, giorno dopo giorno, i protagonisti iniziano ad essere molestati da un vecchio negro homeless un po’ svitato, che staziona in strada e non perde occasione per attaccare briga e insultare inquilini e passanti. Finché una sera accade un fatto tragico che  potrebbe mettere in crisi e in pericolo le loro esistenze. Sebastián Silva costruisce un film sorprendente, coraggioso e intelligente. Si tratta di una satira feroce di una tipologia umana e di un modo di vivere e di pensare, con miti maniacali e comportamenti bizzarri, molto riconoscibili e presenti nelle metropoli degli USA. Ma soprattutto appare convincente l’inaspettata svolta drammatica e “politica”, in senso lato, del film. In effetti il regista, al di là di uno humour molto particolare, con tratti acidi e paradossali, propone una riflessione importante, del tutto aliena da ogni retorica moralista, sulla fragilità delle coscienze e sui limiti della convivenza e della tolleranza nella società statunitense.

Brooklyn, dell’irlandese John Crowley, è un dramma esistenziale ambientato nel dopoguerra, alla fine degli anni ’40. Racconta la vicenda di una ventenne di condizione modesta proveniente da un piccolo centro dell’Irlanda ed emigrata a New York, dove trova impiego come commessa in un grande magazzino. Dopo qualche tempo Ellis (Saoirse Ronan) si ambienta perfettamente e si innamora di un giovane idraulico italo-americano, onesto e lavoratore. Costretta a tornare temporaneamente in patria a causa di una tragedia familiare e  corteggiata dall’erede di una famiglia di imprenditori, si trova in una condizione di grave incertezza circa la scelta da compiere. Un’opera piuttosto convenzionale, tra sottile malinconia e rovelli sentimentali, abbastanza dignitosa e gradevole, ma priva di una convincente scansione drammatica nonostante la sceneggiatura di Nick Hornby.

 

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"Brooklyn" John Crowley

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"London Road" Rufus Norris

 

London Road, opera seconda del britannico Rufus Norris, è tratto dall’omonima opera teatrale musical di successo, prodotta nel 2011 dal National Theatre di Londra. Riguarda il caso dello “strangolatore del Suffolk”, autore  di efferati omicidi di cinque prostitute di strada che  operavano a Ipswich, una tranquilla cittadina inglese. I protagonisti, lavoratori e pensionati, sono i residenti di London Road, epicentro della vicenda. Le testimonianze alla polizia, e le conversazioni tra loro sul da farsi, diventano  melodie e intermezzi musicali, mentre si svolgono le indagini fino al processo finale al colpevole e in seguito, quando tutti insieme riescono a migliorare il luogo dove vivono. Un film atipico, abbastanza gradevole, che alterna snodi drammatici e sensibilità poetica e si regge su sapienti coreografie e sulle virtuose interpretazioni di un cast  molto affiatato di noti attori inglesi.


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Te prometo anarquía, del guatemalteco Julio Hernández Cordón è un dramma stereotipato e grossolano, ambientato a Ciudad de Mexico. Racconta la vicenda di due diciottenni, amici d’infanzia: uno di famiglia molto ricca e l’altro proletario, figlio della domestica di casa. Trascorrono il tempo  scorazzando con i loro skate boards, bighellonando, usando droghe e frequentando feste e parties. Legati da una profonda amicizia  che sconfina nel sesso,  organizzano un traffico di vendita di sangue, dopo aver arruolato amici e poveracci, per fare soldi e spassarsela. Fino a quando   combinano un affare con una gang di narcotraficantes, con esiti tragici. Nonostante qualche squarcio documentaristico interessante sui recessi oscuri della metropoli, il film è abborracciato e grottesco, soprattutto nel momento drammatico clou. In aggiunta i due protagonisti non attori recitano sopra le righe con esiti del tutto mediocri, non essendo affatto guidati e diretti.

 

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"Te prometo anarquía" Julio Hernández Cordón

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Commentiamo anche un paio tra i documentari più significativi presentati nella sezione TFFDoc.

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"Jesuis le peuple" Anna Roussillon

 

Je suis le peuple, opera prima della francese Anna Roussillon, cresciuta a Il Cairo, è stato girato in un piccolo villaggio sconosciuto in un’area rurale posta 700 chilometri a sud di Il Cairo. Offre un ottimo ritratto senza veli di un microcosmo in cui gli abitanti percepiscono in forma attenuata e, in parte, distorta le contorsioni politiche avvenute dal 2011 ad oggi: la rivolta di Piazza Tahrir e la destituzione di Mubarak; l’ascesa del Partito della Fratellanza Musulmana, la sua incapacità a governare e la destituzione del Presidente Morsi; l’ascesa del Generale Al Sisi, poi divenuto Presidente della Repubblica con votazione popolare. Un sorprendente spaccato che fa conoscere  la realtà di un’economia di sussistenza e piccolo commercio e di una società, con tradizioni che si tramandano da generazioni, che  si apre lentamente  a nuove prospettive.



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Li wen at East Lake, quarto film del cinese Li Luo, è ambientato in una delle aree più suggestive della grande città di Wuhan, un luogo minacciato dalla speculazione edilizia e dalla costruzione di nuovi parchi di divertimento e di un nuovo aeroporto. Li combina bene elementi documentaristici e finzionali in un mix non privo di amara ironia. Il personaggio principale è un poliziotto quarantenne cinico e maniacale che, con riluttanza, ricerca un presunto squilibrato. Una lucida riflessione sulle questioni dell’identità e della sopravvivenza nella Cina contemporanea.   


 

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"Li wen at East Lake" Li Luo

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Dedichiamo anche una menzione di merito a un eccellente film presentato nella sezione Onde.

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"Cemetery of splendor(Rak ti khon kaen)" Apichatpong Weerasethakul

 

Rak ti khon kaen (Cemetery of splendor), del thailandese Apichatpong Weerasethakul, riconferma l’originalità di un autore di grande talento, la cui poetica si basa sulle relazioni tra uomo e ambiente-natura e su legami forti con il territorio onirico e gli ambiti spirituale e soprannaturale. Tuttavia è un film che rappresenta in qualche modo una cesura di approccio narrativo, e in parte di scelte stilistiche, nel suo cinema, pur nella continuità della lettura a vari livelli di elementi filosofici, mitologici e religiosi. Infatti, se si considera che il suo  lungometraggio immediatamente precedente, Mekong Hotel (2012), un’opera ibrida che si presenta come un documentario contaminato da un progetto di finzione irrealizzato, conteneva riferimenti alle dolorose e contrastanti tematiche sociali e politiche del presente e degli ultimi decenni in Thailandia, questo film può essere letto come una prosecuzione, molto mediata, di interesse per quelle questioni.

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In estrema sintesi si tratta di un’elegia “realista” e affabulatoria, ovvero un lamento codificato, malinconico, e a tratti insolitamente gioioso e venato di humour autoparodistico, riguardo l’incertezza politica e le tragiche contraddizioni sociali contemporanee  presenti nel suo Paese che è intimamente turbato e inquieto a causa di ferite antiche e recenti. Propone una storia, in parte criptica e oscura (per chi è alieno rispetto alla spiritualità buddhista e a storia e mitologia autoctone), basata su un complesso racconto di contaminazione tra sogno e realtà, tra visioni, miti e riti magici, con un affascinante sottofondo squisitamente umanistico e velatamente politico. Una vicenda enigmatica sospesa tra visibile e invisibile, tra materiale e immateriale, scandita da un flusso ipnotico, raffinato e sottilmente malinconico di immagini, accuratamente, ma non rigidamente, composte, rumori attutiti e conversazioni calme e gentili. Weerasethakul è tornato a Khon Kaen, la cittadina della regione di Isan, nel nord-est del Paese, nelle campagne prossime al Laos, dove ha trascorso la sua infanzia. Giova infatti ricordare che il suo precedente film Sang sattawat (Syndromes and a Century) (2006), che configura una complessa realtà di tempo, memoria ed attrazione degli opposti, comprende due storie similari, entrambe ambientate in un ospedale, ma in luoghi e spazi differenti, e che nella prima di queste vediamo un ospedale luminoso, situato proprio a Khon Kaen, in un’area rurale piacevole e soleggiata. Anche al centro di Cemetery of splendor vi è un ospedale allestito provvisoriamente nei locali precedentemente occupati da una scuola e l’epoca è quella estiva. Nell’amplissimo padiglione, lindo e ordinato, sono allineati  una quarantina di letti disposti sui lati maggiori. Tutti i ricoverati sono giovani militari affetti dauna misteriosa malattia del sonno, apparentemente incurabile, nonostante un trattamento sperimentale notturno con collegamento dei pazienti semicomatosi a strani apparecchi tubiformi fosforescenti che mutano ritmicamente di colore. Jenjira (Jenjira Pongpas Widner), una sessantenne ex infermiera, claudicante per i postumi di un grave incidente che le ha lasciato una gamba martoriata e più corta di 10 cm. rispetto all’altra, viene accettata come assistente volontaria dei pazienti. Nel corso del sua primo turno di lavoro decide di prendersi cura in particolare di Itt (Banlop Lomnoi), un soldato forte e attraente a cui nessuno fa visita.  Durante i giorni successivi la donna conosce Keng (Jarinpattra Rueangram), una ventenne anch’essa  accettata dalle infermiere che, essendo una medium, usa  le sue facoltà psichiche per leggere i pensieri e la memoria dei degenti e quindi per aiutare le famiglie ad entrare in contatto con i loro congiunti addormentati (alcuni dei quali, peraltro, manifestano brevi temporanee riprese della coscienza). Peraltro, secondo quanto viene rivela a Jenjira, lei non può garantire che le famiglie apprendano solo ciò che vorrebbero ascoltare. In breve le due donne diventano amiche e trascorrono molto tempo a conversare, durante i pasti e mentre passeggiano negli spazi contigui all’ospedale. Un giorno Jenjira  scopre il diario di Itt, un quaderno che contiene strani scritti e schizzi. Stimolata dalle rivelazioni di due strane divinità,  che si presentano come attraenti giovani donne durante un rituale, secondo cui al di sotto dell’ospedale si troverebbero le vestigia di un’antica città reale, con palazzi e mausolei, Jenjira inizia a sospettare che la misteriosa malattia da cui sono affetti i soldati ricoverati sia connessa a quell’antico sito che in qualche modo li avrebbe defraudati della loro energia fisica. Ma al tempo stesso la donna racconta all’amica la sua storia e le sue sventure. Magia, romanticismo e sogni si mescolano  nell’orizzonte mentale di Jenjira che è alla ricerca di una profonda consapevolezza di sé e del mondo che la circonda. In effetti gran parte della seconda metà del film è dedicata ad una lunga conversazione tra le due donne che passeggiano in una foresta in un clima, grottesco, ma attraente, in cui si mescolano reale ed evocazioni surreali di luoghi del passato e di trasmigrazione di anime.Apichatpong Weerasethakul  ha realizzato un film con grandi valori poetici ed estetici in termini di atmosfera, regia e fotografia. Si esprime attraverso ellissi, ripetizioni e specularità e comunica una strana tranquillità frutto di emozione e di piacere visivo estremo. Ma a differenza dei suoi precedenti lungometraggi più significativi, Blissfully yours (2002), Tropical malady (2004) e Lung Boonmee raluek chat (Uncle Boonmee who can recall his past lives) (2010), il regista non predilige la materia fantastica, ma opta per una materializzazione “realista”, con un’importante caratterizzazione documentarista della reale condizione fisica di Jejira (che nella vita reale è stata davvero vittima di un grave incidente stradale con conseguenze invalidanti). Tuttavia innesta evocazioni che vanno oltre  quegli elementi visivi. Da un lato i soldati addormentati possono essere una metafora della paralisi del governo thailandese derivante dalle proteste, dalle violenze delle fazioni che si combattono, e dal colpo di stato mascherato voluto dal re, avvenuti negli ultimi anni. Dall’altro il presente del film occulta il passato, la storia, i ricordi, i miti arcaici, i rituali magici e anche la materia sconosciuta dei sogni, tutti elementi che lo spettatore è stimolato ad immaginare prestando attenzione alle conversazioni delle due protagoniste e a pochi saltuari momenti di trasfigurazione di immagini sacre, di trasmutazione degli individui e di possessioni spirituali. Weerasethakul sembra interessarsi più alle relazioni e agli scambi indicibili e invisibili tra ciò che è collocato al di sopra (l’ospedale) e ciò che starebbe al di sotto del limite del terreno (la città  reale e il cimitero), tra la veglia e il sonno, tra la vita e la morte, tra il reale e la coscienza o il soprannaturale (la possibile o fittizia lettura dei sogni e delle vite anteriori di sconosciuti da parte di Keng). E per dare il tono a queste antinomie sceglie di privilegiare i campi lunghi  e quelli generali, limitando i primi piani e i close ups e propone il consueto strabiliante lavoro sul sonoro.

Infine un commento a due film della sezione TorinoFilmLab.

Ni la terre ni le ciel (The Wakhan Front), opera prima del francese Clément Cogitore, è un film sulla guerra moderna, affascinante ed emozionante. Al tempo stesso è un dramma esistenziale e anche un thriller, con accenti misteriosi e vagamente horror, che mette a confronto due culture diverse. La vicenda si svolge nell’estate del 2014 in Afghanistan, nella regione nord- orientale del Wakhan, tra l’altopiano del Pamir e le altissime montagne della catena del Karakorum. Il capitano dell’esercito francese Antarès Bonassieu (Jérémie Renier) e la sua compagnia, perfettamente armata e attrezzata, sono impegnati in una missione di osservazione e pattugliamento in una remota vallata, alla frontiera con il Pakistan. Un ambiente aspro e brullo tra collinette rocciose, torrenti secchi ridotti a sentieri polverosi e calore. Sono sistemati in un piccolo e spartano campo base fortificato e gestiscono una postazione-bunker avanzata di controllo, in una baracca su un’altura, con turni di guardia continui diurni e notturni, non lontana da un villaggio afghano abbarbicato su un costone scosceso.

 

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"Ni la terre ni le ciel " Clément Cogitore

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Bonassieu dirige con fermezza il suo piccolo contingente, ma comprende bene le necessità e gli umori dei suoi uomini. A parte brevi schermaglie con  gruppi minoritari di guerriglieri talebani e periodiche visite al villaggio per beghe di capre uccise per sbaglio, la situazione è calma, in stallo. Dal bunker i soldati scrutano la vallata avvalendosi di potenti binocoli e comunicano via radio. Ma questa apparente routine  si interrompe quando due soldati di guardia sembrano sparire nel nulla. Dopo una ricerca vana, un’inchiesta tra i soldati che si erano alternati nella postazione e aspri confronti, con incomprensioni e vaghe minacce, con gli abitanti locali del villaggio, tentativi tutti senza esito, le misure di sicurezza vengono rafforzate. Nel frattempo alcuni soldati riferiscono strani sogni   riguardanti la sorte degli scomparsi. Ma, poco tempo dopo, una ulteriore nuova scomparsa di un militare spinge Antarès ad aprire una trattativa con i talebani.  In effetti ha scoperto che anche questi ultimi sono alla ricerca di uomini volatilizzatisi nel nulla. Dopo molte titubanze e senza fidarsi gli uni degli altri, i francesi e i talebani decidono infine di seguire le spiegazioni e i consigli di un vecchio religioso del villaggio. Quindi scavano insieme una buca per accedere a una grotta sotterranea dove gli uomini scomparsi sarebbero stati trascinati da alcuni spiriti maligni. Ma  chi scava non trova nulla e anzi rischia il delirio mentale. La tensione cresce e il capitano cerca spiegazioni razionali mentre si instaura un’angoscia metafisica. Cogitore ha presentato il suo film, con una certa dose di presunzione e di coraggio, come un’opera in cui John Ford incontra M. Night Shyamalan. In effetti inizialmente propone un convincente ritratto realista della vita quotidiana militare e utilizza perfettamente le tecnologie, come la camera termica e i visori a infrarossi, e l’ampiezza dello scenario naturale, per immergere lo spettatore  nel contesto e comunicare pienamente l’esperienza dei soldati. Ma, successivamente, innesta una  deriva surreale che gioca sulla contaminazione tra credenze e rituali antichissimi (non  ben identificabili e forse nemmeno veritieri) e suggestioni fantastiche, mai chiaramente esplicitate visivamente, che alludono alla rappresentazione dell’invisibile. Dimostra di sapere creare un’atmosfera misteriosa e inquietante e lavora al confine tra realismo e soprannaturale, psicologia, suspence e azione. In qualche modo ne deriva un’opera che mescola rischiosamente generi diversi, e che  comunica allo spettatore sensazioni simili a quelle che  si vivono leggendo il famoso romanzo “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati e chiedendosi chi sono quei nemici invisibili e quando si manifesteranno. Un film che coinvolge e confonde, aprendo interrogativi senza voler dare risposte, e perdendosi un poco solo nel finale, quando vi è un abuso di misticismo in pillole e di metafore astruse. Inoltre, pur con qualche limite, viene offerta anche una riflessione complessa e originale sul confronto tra la cultura occidentale, che si basa su razionalità e tecnologia, e quella orientale, che si nutre anche di credenze e di misteri

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"Tikkun" Avishai Sivan

 

Tikkun, terzo film del trentenne israeliano Avishai Sivan è un dramma familiare ambientato nella comunità ultraortodossa degliHaredim. Narra la storia di Haim-Aaron, un ventenne molto studioso che trascorre le giornate, fino a notte inoltrata, nella scuola religiosa yeshivah, chino sui testi del Talmud e della Torah. Un giorno, stremato dalla fatica e dal digiuno, dopo una doccia, è vittima di un grave collasso con perdita di coscienza e arresto cardiaco. I paramedici del servizio di emergenza tentano invano di rianimarlo, ma poi desistono. A quel punto suo padre, disperato, si getta su di lui e continua il massaggio cardiaco. Inaspettatamente Haim-Aaron si riprende e, dopo un periodo di osservazione in ospedale, viene dimesso e torna a casa. Tuttavia dopo l’episodio il giovane comincia ad interrogarsi su sé stesso, sul suo corpo e sulla sua vita. Perde interesse negli studi e si comporta in modo strano, essendo turbato da desideri fisici e dubbi morali.

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La narrazione si avvita su sé stessa, con suggestioni surreali e spaesamenti poco chiari, fino ad un finale molto ambiguo in cui pare che la liberazione consista nel lasciar procedere la presunta volontà divina. Il film, realizzato in bianco e nero, è interessante e molto curato a livello estetico, ma risulta irrisolto e pasticciato, quasi a voler cercare un incerto equilibrio tra rappresentazione critica e volontà di rispetto della logica e delle ragioni degli ultraortodossi, derivandone un depotenziamento della proposta drammatica rouge

 

 

 

 

 

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33. TORINO FILM FESTIVAL 2015

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20 - 28 / 11 / 2015

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