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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 60. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID I DI GIOVANNI OTTONE I 2015

SEMINCI di Valladolid 2015

Un grande Festival per il 60° anniversario

Espiga de Oro a Rams (Islanda)
Premio del Pubblico a Mustang (Francia)

 

 

DI GIOVANNI OTTONE

"45 Years", Andrew Haigh

45 Years Andrew Haigh

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La "60e Semana Internacional de Cine (SEMINCI) de Valladolid", svoltasi dal 24 al 31 ottobre, ha celebrato l’anniversario del Festival senza particolare glamour, optando per l’usuale stile serio, ricercato, e al tempo stesso amichevole, e approntando un programma veramente ricco e interessante che ha rappresentato pienamente la storia e la tradizione del Festival che da sempre valorizza il cinema d’autore soprattutto quando è rivolto a  un’audience matura. E ha registrato una partecipazione di pubblico e di critici spagnoli e europei più ampia rispetto alle passate edizioni. In effetti la SEMINCI è il secondo Festival internazionale cinematografico più importante che si svolge annualmente in Spagna.

La "Sezione Ufficiale" competitiva, comprendente 22 lungometraggi, ha incluso, tra gli altri, alcuni film di qualità già presentati anteriormente quest'anno ai Festival di Berlino, Cannes, Locarno, Venezia, Montréal e Toronto. Ha compreso varie anteprime europee e anche tre  nuovi film spagnoli. Due di essi sono stati presentati in anteprima mondiale. La adopción, di Daniela  Fejerman, argentina, radicata in Spagna, è un dramma di coppia, ambientato in un Paese dell’Europa orientale. Racconta il calvario di una coppia di trentenni catalani, interpretati da Nora Navas e Francesc Garrido, che, durante le vacanze di Natale, si recano in Lituania per cercare di adottare un bambino e si trovano, in un Paese coperto di neve, a lottare contro ogni tipo di ostacolo burocratico, tra incomprensioni, continui tentativi di truffa e ricatti. Un film sicuramente sentito, essendo nato da un’esperienza autobiografica della stessa regista,  ma pieno di stereotipi e con una drammatizzazione  solo a tratti efficace. Incidencias, dei catalani José Corbacho e Juan Cruz, è una commedia per il grande pubblico, interpretata da un cast di noti attori spagnoli: tra gli altri citiamo Lola Dueñas, Ernesto Alterio, Aida Folch e Carlos Areces. Racconta, con un buon ritmo, ma con una comicità grossolana, scontata e frusta, la disavventura di un variopinto gruppo di passeggeri che si trovano su un treno che il 31 dicembre, partito da Barcellona e diretto a Madrid, alle 16:30 si arresta in mezzo alla campagna per cause imprecisate. Poco a poco in ognuno dei protagonisti emergono i peggiori lati caratteriali e comportamentali. Il terzo film, L’artèria invisible, del catalano Pere Vilà Barceló,  già in concorso al recente Montréal Film Festival, è un dramma familiare molto pretenzioso, ma confuso e irrisolto. Ambientato in una cittadina catalana, escrive l’itinerario di progressiva caduta e annichilazione di un politico quarantenne che aspira a diventare sindaco. Vicenç (Álex Brendemühl) è un uomo sempre controllato, dominato dalla paura di sbagliare, e incapace di stabilire un vero rapporto affettivo con la moglie Carme (Nora Navas) che è ossessionata dal desiderio di avere un figlio. Quando il protagonista cade in una trappola,  venendo accusato da una sconosciuta di un tentativo di abuso sessuale,  varie contraddizioni deflagrano. Peraltro  la vicenda si avvita su sé stessa senza offrire una convincente caratterizzazione dei personaggi e mostrando gravi incertezze tra un approccio osservazionale freddo e alcune velleità sociologiche e moralistiche. Analizziamo di seguito i film premiati e quelli più significativi.

Rams Grimur Hakonarson

"Rams " Grimur Hakonarson

 

La Espiga de Oro al miglior film lungometraggio è stata attribuita a Hrútar (Rams), opera seconda dell’islandese Grímur Hákonarson. Allo stesso film è stato assegnato il Premio de la Juventud, mentre ad Hákonarson è stato conferito il Premio ex aequo al miglior nuovo regista. Si tratta di una commedia drammatica  con una evidente impronta morale umanitaria. La vicenda si svolge in Islanda in una valle isolata dove vive una comunità di allevatori di pecore e di montoni con tradizioni secolari. Gummi (Sigurdur Sigurjónsson) e Kiddi (Theodór Júlíusson)  sono due anziani fratelli in conflitto da 40 anni. Vivono fianco a fianco, essendo le loro proprietà contigue, si occupano delle rispettive greggi e comunicano tra loro mediante brevi missive affidate al cane di Kiddi che fa la spola tra loro. Durante l’annuale concorso per premiare il miglior montone, gestito dal comitato della valle, i due possono misurare la loro rivalità e vengono spesso alternativamente premiati per la qualità dei loro preziosi  ovini appartenenti a un ceppo antichissimo. Benché si vedano da lontano quotidianamente e conducano la stessa vita di fa5ticosa routine, non si parlano da quarant’anni.

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Quando la scrapie, la letale virosi nervosa degenerativa, colpisce il gregge di Kiddi, minacciando l’intera vallata, le autorità e i veterinari decidono di abbattere tutti gli animali della zona per contenere il contagio e l’epidemia. È una condanna a morte per gli allevatori, per cui le pecore costituiscono la principale fonte di reddito, e, essendo all’inizio dell’inverno, molti liquidano le loro proprietà e abbandonano la loro terra. Ma Gummi e Kiddi non si arrendono e, separatamente, ognuno di loro cerca di salvare le rispettive greggi nascondendole con vari stratagemmi. Fino ad una svolta tragica in cui la loro acredine dovrà cedere il passo a sentimenti e azioni inediti. Nonostante una indubbia significativa  e brillante descrizione documentaristica di usi e costumi di una comunità che vive in un’area  campestre periferica dell’isola, il film è abbastanza mediocre. In effetti la comicità, a tratti sardonica, risulta scontata e la rappresentazione stereotipata dello spirito di resistenza degli allevatori e  il profilo di buoni sentimenti e di relazioni amorevoli tra uomini e montoni non riescono ad emozionare.

La Espiga de Plata è stata assegnata a Mustang, opera prima  della turca, trapiantata da anni in Francia, Deniz Gamze Ergüven. Allo stesso film  sono stati  attribuiti sia il Premio del Pubblico, sia quello della Giuria dei critici della FIPRESCI, mentre alla Ergüven è stato  conferito il Premio ex aequo al miglior nuovo regista. È un’opera realizzata con l'intenzione di mostrare la difficoltà di essere donna nella Turchia attuale, sempre più conservatrice e sessuofoba. In una cittadina sulla costa del Mar Nero cinque sorelle adolescenti, orfane fin dall'infanzia, sono sotto la custodia della nonna. Dopo la partecipazione a una baldoria “scandalosa” sulla spiaggia con i compagni maschi della scuola, interviene lo zio Erol che stabilisce nuove regole per loro. Nonostante le vacanze estive, inizia una segregazione forzata in casa con abbigliamento castigato, privazione di telefono e computer e educazione alle arti domestiche femminili: cucinare, cucire, rassettare. Ma le “eroine” compiono vari atti di ribellione. Poi le sedicenni Selma e Sonay vengono accasate con matrimoni combinati. Purtroppo il film segue la logica del “cinéma grand publique”, ben lontana dall' attuale cinema turco d'autore basato sulla faticosa ricerca  di identità. Deniz Gamze Erguven, mescola stereotipi da commedia di costume, situazioni poco credibili ed episodi drammatici trattati superficialmente.

 

Mustang Deniz Gamze Guven

"Mustang" Deniz Gamze Ergüven

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Alla giapponese Naomi Kawase è stato assegnato il Premio alla miglior regia per il suo film An.  Si tratta di un adattamento dell’omonimo romanzo di Durian Sukegawa. Un melodramma fastidiosamente edificante, pseudo poetico e notevolmente pretenzioso.  Il titolo del film si riferisce ad un passato di fagioli rossi usato come pasta dolce per riempire le frittelle dorayaki. La vicenda si svolge in una tranquilla cittadina di provincia all’inizio della primavera. Sentaro (Masatoshi Nagase), un quarantenne solitario, malinconico e taciturno, per non dire scontroso, gestisce, con scarso entusiasmo, un piccolo chiosco dove prepara e vende dolcetti e snacks tradizionali. Un giorno Tokue (Kirin Kiki), un’eccentrica e gentile settantenne, gli si presenta e, mostrandosi insistente, lo persuade ad assumerla come assistente. L’uomo, dopo averla inizialmente respinta, finisce per accettarla perché gli ha fatto assaggiare deliziose speciali frittelle dorayaki. In breve Tokue gli insegna il segreto di una preparazione casalinga della pasta an e in breve la clientela si dimostra entusiasta e si moltiplica. Kawase si dilunga nel mostrare i rituali della preparazione delle pancake dorayaki. Poi un giorno Tokue non si presenta al lavoro. Sentaro, accompagnato da Wakara (Kyara Uchida), una cliente, studentessa sedicenne, affascinata dalla benevolenza di Tokue, scoprirà che  la donna nasconde un triste passato di disdicevole ostracismo sociale. A partire dal suo esordio con Moe no suzaku (1997), Naomi Kawase propone, film dopo film, una riflessione apparentemente semplice, ma ricca di significati reconditi, su alcuni temi fondamentali: la vita e la morte, la simbiosi tra uomo e natura, la memoria di un luogo, il ciclo della vita. I suoi film prendono costantemente spunto da elementi autobiografici e da ricordi di gioventù. Purtroppo dopo  Hotaru (2000), un’opera complessa, ma affascinante, che esplora i conflitti tra le tradizioni e la complessità alienante della vita moderna, giocando sulle dicotomie dialettiche presenza - assenza, memoria del passato - smarrimento di fronte all’incertezza e all’imprevedibilità del futuro, il suo cinema ha subito una netta involuzione assumendo un carattere spiccatamente narcisista e manierista, pomposo e pretenzioso.

An Naomi Kawase

"An" Naomi Kawase

 

Anche in An, come già in Mogari no mori (The mourning forest) (2007), in Hanezu no tsuki (Hanezu) (2011) e in Still the water (2014), Kawase propone  una poetica impressionista, ingannevolmente minimalista, con un intreccio ricco di sottotesti ai limiti della farraginosità. Al centro del film vi è un intreccio di relazioni artificiosamente complicate, improntate alla tolleranza e a una solidarietà umana gonfia di retorica. Al tema del cibo  genuino, variante di un topos classico della regista, l’ambientazione naturalistica incontaminata, si giustappongono le passioni umane e il tortuoso itinerario di un uomo vinto dal rimorso e dal dolore. La sua redenzione è determinata dall’incontro con una donna anziana, umile e saggia, che cela un segreto. Tra l’altro la rappresentazione dell’ incontro, e dell’atipica relazione di stima, tra i due è enfatizzata con alcuni stucchevoli clichés, tra atmosfere di stampo New Age e scintillanti ciliegi in fiore.. La messa in scena denota uno sguardo contemplativo, viziato da inutili formalismi.

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I dialoghi pacati, gli insistenti silenzi e le attese esaltano l’universo emozionale e percettivo dei personaggi. La regista conferma il suo stile peculiare con prevalenza di piani sequenza e di long shots. La macchina da presa a mano effettua lenti movimenti, stimolando lo spettatore all’osservazione dei piani che seguono lo spostamento dei corpi. In sostanza è un film chiaramente volto ad accattivare  e a commuoverlo, ma sostanzialmente incapace di rappresentare sentimenti credibili e di trasmettere vere emozioni.

45  Years, terzo film del britannico Andrew Haigh ha ottenuto il Premio alla miglior attrice per la protagonista Charlotte Rampling. È un thriller dell’anima che vorrebbe comunicare intensità, ma purtroppo si perde in lunghi dialoghi abbastanza scontati e in un gioco di colpe presunte, confessioni tardive, recriminazioni, sofferenza mal espressa e ipocrita riconciliazione È ambientato in un piccolo centro della campagna inglese dove tutti si conoscono. Descrive la crisi di un’anziana coppia borghese benestante che vive in una  magnifica residenza nella campagna inglese e si appresta a celebrare, con una grande festa, l’anniversario di 45 anni di matrimonio. I protagonisti, Kate e Geoff Mercer sono interpretati dalla stessa Charlotte Rampling e da Tom Courtenay, professionalmente ammirevoli, ma non particolarmente memorabili e affiatati in questo caso.  Ne risulta un melodramma stiracchiato e melenso che, nonostante le contorsioni psicologiche, non suscita mai vere emozioni.

Fúsi (Virgin Mountain), quarto film del quarantenne islandese Dagur Kári, ha conquistato il Premio al miglior attore per il protagonista Gunnar Jónsson. È una commedia drammatica minimalista, con godibilissimi e intelligenti spunti comici. La vicenda si svolge in una piccola cittadina islandese, nel corso di un inverno gelido. Il protagonista è Fúsi (Gunnar Jónsson) , un omone quarantatreenne,  che pesa ben oltre il quintale e vanta una statura da giocatore di basket, con un barbone che incornicia un volto con una straordinaria mimica facciale, che alterna preoccupazione, mortificazione, sorpresa e segni di felicità infantile. Un tipo semplice, ingenuo, timido e introverso, bloccato in una sorta di limbo tra adolescenza ed età adulta, ma gran lavoratore, servizievole e fondamentalmente buono. Vive con la madre anziana, ama la musica black metal, coltiva la passione delle battaglie più famose della Seconda Guerra Mondiale che ricostruisce con modellini di soldatini, tank e cannoni e lavora nel locale aeroporto come  addetto al trasporto dei bagagli.

 

Virgin Mountain Dagur Kari

"Virgin Mountain" Dagur Kari

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Essendo considerato poco brillante e pronto a livello intellettuale, Fúsi è diventato l’obiettivo preferito dei colleghi che si burlano spesso di lui con scherzi a volte ben poco simpatici. Al contrario gli capita di trovarsi benissimo a giocare con gli adolescenti. La sua vita si svolge secondo una malinconica routine priva di sorprese e di  inconvenienti, mangiando sempre lo stesso cibo e trascorrendo ore e ore nella stanza dove si diletta con i suoi modellini bellici. Finché un giorno in occasione del suo compleanno riceve dalla mamma, come regalo, un coupon invito per una scuola di danza. Una sera, dopo varie esitazioni, vi entra e inizia a partecipare ai corsi di balli sudamericani e moderni.  In quel luogo conosce Sjöfn (Ilmur Kristjánsdóttir), una trentenne vivace e gentile, ma misteriosa: un’altra anima solitaria che rivelerà i segni di precedenti importanti traumi psicologici. Nel frattempo, senza realmente volerlo, diventa amico e confidente di Hera (Franziska Una Dagsdóttir), una dodicenne sognatrice che si è trasferita recentemente con suo padre in un alloggio  nello stesso caseggiato dove  lui risiede. Fúsi sembra dare inizio a una svolta nella sua vita con nuove relazioni, ma si trova coinvolto in un susseguirsi di “drammatici” malintesi. Dagur Kári costruisce un ritratto poetico e amaro, ricco di sfumature. Propone una dialettica dei comportamenti e dei sentimenti in felice equilibrio tra la fiaba moderna e la parabola laica caratterizzata da emozioni trattenute e priva di intenti didascalici. Il suo sguardo empatico non è mai banale e  lo humour è sottile e imprevedibile. Riecheggia temi e personaggi di film di altri noti autori scandinavi: Roy Andersson, Bent Hamer e Aki Kaurismaki.

Aurora  Rodrigo Sepulveda

"Aurora" Rodrigo Sepulveda

 

Aurora, terzo film del cileno Rodrigo Sepúlveda, ha ottenuto il Premio alla miglior sceneggiatura, scritta dallo stesso regista. È un dramma al femminile basato su una vicenda reale avvenuta in Cile, in una cittadina industriale della costa settentrionale, nel 2003. Racconta la storia di un’ossessione che si trasforma in un’inusuale battaglia civile, configurando un complesso e profilo psicologico e riuscendo a inquadrarlo in un convincente contesto culturale e sociale. La protagonista è Sofía Olivari (Amparo Noguera), una seria e austera insegnante elementare quarantenne sposata con Pedro (Luis Gnecco), un uomo fedele e comprensivo. La donna è infelice e frustrata per non aver potuto generare figli e, appoggiata dal consorte, ha richiesto da tempo di adottare un bambino. Un giorno legge sul giornale la notizia del ritrovamento di una neonata morta in una discarica della spazzatura. Profondamente colpita  dalla vicenda si affeziona a quella creatura morta (definita guagua nel linguaggio comune in Cile), che lei ha deciso di chiamare Aurora, e inizia una testarda battaglia legale per adottarla e per poterla quindi seppellire degnamente.

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Di fronte a questa richiesta considerata stravagante, gli uffici preposti rispondono che, secondo le contraddittorie norme vigenti, non può essere accettata se i medici non riescono a stabilire con certezza che la neonata sia nata viva, altrimenti deve essere considerata un oggetto inanimato che non può ottenere il permesso per la sepoltura. Rodrigo Sepúlveda descrive con accenti naturalistici sia le dinamiche della coppia formata da Sofía e da Pedro sia  l’estenuante lotta  della donna contro la burocrazia, i funzionari statali e le autorità sanitarie per ottenere quell’anomala adozione. Opta per una rappresentazione senza veli della determinazione, ma anche del travaglio psicologico, della donna e della progressiva devastante modificazione delle sue relazioni con  il marito, gli amici e i conoscenti. Fino a mostrare la deriva di lucida  ostinazione, che porta Sofía a promuovere una campagna contro l’abbandono di feti e neonati frutto di aborti clandestini. Ma al tempo stesso riesce a delineare il sentimento non ipocrita di compassione che la anima. E non si può evitare di considerare anche un possibile sottinteso riferimento politico alla necessità di non essere indifferenti di fronte alla sorte di qualsiasi essere umano abbandonato o desaparecido. Ne risulta un melodramma non privo di alcune discutibili esagerazioni retoriche e intenti didascalici, ma sostanzialmente onesto in termini di scrittura e visivamente efficace.

Tikkun, terzo film del trentenne israeliano Avishai Sivan ha conquistato Premio per la miglior fotografia, curata da Shai Goldman. Si tratta di un dramma familiare ambientato nella comunità ultraortodossa degli Haredim. Narra la storia di Haim-Aaron, un ventenne molto studioso che trascorre le giornate, fino a notte inoltrata, nella scuola religiosa yeshivah, chino sui testi del Talmud e della Torah. Un giorno, stremato dalla fatica e dal digiuno, dopo una doccia, è vittima di un grave collasso con perdita di coscienza e arresto cardiaco. I paramedici del servizio di emergenza tentano invano di rianimarlo, ma poi desistono. A quel punto suo padre, disperato, si getta su di lui e continua il massaggio cardiaco. Inaspettatamente Haim-Aaron si riprende e, dopo un periodo di osservazione in ospedale, viene dimesso e torna a casa. Tuttavia dopo l’episodio il giovane comincia ad interrogarsi su sé stesso, sul suo corpo e sulla sua vita. Perde interesse negli studi e si comporta in modo strano, essendo turbato da desideri fisici e dubbi morali. La narrazione si avvita su sé stessa, con suggestioni surreali e spaesamenti poco chiari, fino ad un finale molto ambiguo in cui pare che la liberazione consista nel lasciar procedere la presunta volontà divina. Il film, realizzato in bianco e nero, è interessante e molto curato a livello estetico, ma risulta irrisolto e pasticciato, quasi a voler cercare un incerto equilibrio tra rappresentazione critica e volontà di rispetto della logica e delle ragioni degli ultraortodossi, derivandone un depotenziamento della proposta drammatica.

 

Tikkun Avishai Sivan

"Tikkun" Avishai Sivan

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Commentiamo quindi alcuni del film più significativi della sezione ufficiale.
Dheepan, del francese Jacques Audiard, ha inaugurato il Festival. È una parabola esistenziale non priva di una buona descrizione psicologica della coppia di protagonisti, un uomo e una donna trentenni di etnia Tamil, fuggiti insieme a una ragazzina dalla terribile guerra etnica in Sri Lanka, che si fingono coniugi e approdano in una squallida banlieu parigina dominata dalle gangs violente dei trafficanti di droga. Tuttavia il regista, pur superando il grossolano approccio paradigmatico del suo precedente De Rouilles et d’os (2012), caratterizzato da una spiccata strumentalità delle situazioni rappresentate che punta a suscitare facili emozioni nello spettatore e da un ritratto antropologico deviante che enfatizza una subcultura e una (a)moralità di matrice sottoproletaria, nutrita da valori vitalistici “forti”, indulge ancora troppo nelle soluzioni stereotipate, ad effetto o moralistiche e nello scontato e ambiguo modello dell’eroismo virile.

Wedding Doll Nitzan Gilady

"Wedding Doll" Nitzan Gilady

 

Wedding Doll, opera prima dell’israeliano Nitzan Gilady, è un eccellente dramma esistenziale con al centro uno struggente personaggio femminile sullo sfondo di un paesaggio che sembra interagire con i suoi sentimenti. Hagit (Moran Rosenblatt) ha 24 anni e vive con sua madre Sarah (Asi Levi) in un modesto appartamento in una cittadina sita su un promontorio nella parte meridionale del deserto del Negev. La giovane donna presenta un modesto ritardo mentale che non le impedisce di vivere con gli altri, ma è anche dotata di un indole caparbia ed è fiera della propria  indipendenza. Ama perdersi in fantasie romantiche che non riesce a separare dalla vita reale. In particolare sogna il matrimonio e  coltiva una passione smodata per gli abiti da sposa che lei stessa copia dalle riviste, riproducendoli, con modifiche creative, in bozzetti e modelli cartacei che tappezzano la sua camera. Sarah, donna ancora piacente, è addetta alle pulizie in un hotel di lusso. Vive uno stress continuo, divisa  l’indole iperprotettiva nei confronti della figlia e il desiderio di trascorrere più tempo fuori casa con il suo nuovo amante. Hagit è impiegata in attività manuali presso una piccola azienda familiare che produce rotoli di carta igienica.

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I padroni la apprezzano per la sua costante apparente serenità e per la dedizione al lavoro. Omri (Roy Assaf), trentenne figlio del titolare della fabbrichetta, accetta l’adulazione di Hagit e finisce per intrecciare con lei un rapporto sentimentale, non essendo pienamente cosciente di quanto la giovane sia orgogliosa e influenzabile. Appare sincero, ma non  osa portare alla luce  il loro legame perché sa che non potrebbe essere accettato né dai suoi genitori né dai suoi amici. Quindi mantiene la relazione nella clandestinità. Nitzan Gilady propone un film molto sensibile e maturo  riguardante problematiche costantemente presenti nel cinema israeliano del nuovo millennio, aggiungendosi ad opere di altri registi, femmine e maschi, quali ad esempio Roni e Shlomi Elkabetz, Keren Yedaya, Asaf Korman e Shira Geffen, che hanno realizzato notevoli ritratti femminili e melodrammi familiari. A partire da una sceneggiatura puntuale e ricca di sfaccettature rispetto alle contraddizioni sociali e culturali, prospetta un melodramma che offre un’accurata caratterizzazione dei personaggi, sensibilità, emozioni genuine e notevoli qualità estetiche, evitando inutili psicologismi e la tentazione di uno show down finale ad effetto.

Degradé, dei fratelli palestinesi Tarzan e Arab Nasser è una commedia drammatica al femminile. Nella striscia di Gaza il piccolo negozio di coiffeuse di Christine vede riunito un gruppo variegato di donne palestinesi: una quarantenne divorziata amara e scettica, una giovane che si prepara alle nozze con madre, sorella e suocera, una pettegola con un’amica integralista, una futura madre incinta. Nel frattempo una delle parrucchiere è fidanzata con un guerrigliero che fa il bullo, portando al guinzaglio un piccolo leone. Poi all'improvviso in strada è l'inferno: è iniziato l'attacco israeliano del 2014. Tutto questo film di esordio, chiaramente ispirato da Caramel (2007), della libanese Nadine Labaki, si svolge in uno huis clos ed è costruito sui dialoghi vivaci che intrecciano le brave attrici, tra cui spicca Hiam Abbass. Uno scenario di vita reale in condizioni molto difficili, ma la svolta drammatica è gestita con concitazione visiva inefficace. 

 

Degradé Tarzan e Arab Nasser

"Degradé" Tarzan e Arab Nasser

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Nahid Ida Panahanden

"Nahid" Ida Panahanden

 

Nahid, opera prima dell’iraniana Ida Panahanden, è un interessante dramma esistenziale che mette a nudo i nodi della condizione familiare e di quella femminile in Iran. Al centro della vicenda vi è Nahid, una trentenne divorziata e istruita che si trova in difficoltà economiche. Lavora in una copisteria e a domicilio, redigendo testi richiesti da clienti privati, ma non paga l’affitto dell’appartamento che occupa. Tuttavia non abbandona la mentalità piccolo borghese, non rinuncia a spese superflue e ha iscritto il figlio dodicenne Amir Reza a una scuola privata. Per timore di perdere la custodia del ragazzo, accetta un “matrimonio temporaneo” con Masoud, l'uomo che ama. Ahmad, il suo ex marito tossicodipendente, spalleggiato dalla famiglia, le rende la vita impossibile. Nasser, il fratello di Nahid, la accusa di immoralità. Nel frattempo Amir Reza mente sistematicamente, gioca d’azzardo e non frequenta le lezioni. E la vicenda, dopo molto strazio, non si risolve. Il film è ricco di dettagli credibili, ma purtroppo i personaggi sono  inquadrati in modo troppo unilaterale e la protagonista sembra più vittima della propria irresponsabilità e incapacità di decidere che del maschilismo dominante.

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De ce eu? (Why me?), terzo film del romeno Tudor Giurgiu, è un discreto thriller politico, ambientato nell’odierna Bucarest dove prosperano malaffare e corruzione. Un’opera che ricorda, in qualche modo, il clima cupo e la denuncia civile presenti nei notevoli drammi - thriller a sfondo politico realizzati in Italia da Damiano Damiani negli anni ’60 e ’70. Al centro della vicenda vi è  il trentenne Christian Panduru (Emilian Oprea), un giovane e ambizioso giudice istruttore. Un uomo di ceto modesto, pignolo e onesto, deciso a farsi strada  come docente universitario e  come magistrato al Palazzo di Giustizia. Un giorno viene incaricato di indagare un delicato caso di corruzione a carico di un magistrato più anziano, ritenuto scomodo dai vertici per come ha svolto le sue istruttorie. Christian è sorpreso, ma in fondo lusingato e conscio dei possibili effetti positivi che quel mandato potrebbe avere sulla sua carriera futura. Quindi conduce l’inchiesta con il massimo impegno e, nonostante l’accusato protesti la sua innocenza e le prove siano quasi inconsistenti, cede alle pressioni dei suoi superiori e propone di aprire il processo. Tuttavia, proseguendo le indagini, Christian, poco a poco, scopre un  quadro ben più ampio: una losca rete delinquenziale che coinvolge politici, funzionari pubblici e giudici corrotti.

 

Why me ? Tudor Giurgiu

"Why me ?" Tudor Giurgiu

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Quando decide di incriminare i veri colpevoli finisce per capire di essere stato manipolato e subisce il boicottaggio feroce dei suoi superiori che lo escludono dalle indagini e dalla carriera. Il film è ben costruito e abbastanza ben interpretato, quantunque non sempre efficace nelle svolte narrative. Da segnalare lo sforzo di evidenziare anche il contesto di un Paese, la Romania, in cui, a 26 anni dalla caduta del regime comunista e nonostante un certo boom economico persistono oscure trama di potere orchestrate da apparati statali.

Beeba Boys Deepa Mehta

"Beeba Boys" Deepa Mehta

 

Beeba boys, di Deepa Mehta, regista indiana sessantenne  radicata da molte decadi in Canada, è un eccellente gangster  movie ambientato a Vancouver. Offre il ritratto di una banda criminale  denominata “bravi ragazzi”: giovani di religione Sikh, figli di emigrati indiani dal Punjab, che cercano di imporsi con metodi sanguinari nel traffico di droga e armi. Agli ordini del trentenne Jeet Johar (Randeep Hooda), bello, narciso, arrogante e spietato,  appaiono curatissimi nell’aspetto, sfoggiano abiti sgargianti all’ultima moda, SUV e amanti bianche e adorano il glamour e il denaro facile. Si conoscono dall’adolescenza e sono ossessionati dal loro codice d’onore che prevede lealtà reciproca e disponibilità al sacrificio a favore del capo e dei fini comuni. Usano metodi spicci, comprese uccisioni efferate, per contendere il primato alla banda rivale, sempre di Sikh, guidata dal maturo moghul criminale Don Robbie Grewal (Gulshan Grover). Il film percorre un’escalation in cui si mescolano accenti entusiasti, spunti epici e momenti disperati, in occasione di assassini e di vendette incrociate, ma anche sottili trame di sospetti e tradimenti fino allo showdown finale.

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Deepa Metha, che si è ispirata a veri fenomeni criminali e a inchieste giornalistiche sul tema, propone una narrazione che coglie pienamente le modificazioni intervenute  negli ultimi 15 anni nel panorama sociale e culturale di Vancouver dove gruppi etnici di immigrati asiatici hanno imposto i loro forti connotati identitari e una discriminazione razzista al contrario, rifiutando la pacifica logica del melting pot della società canadese. Al tempo stesso, pur optando per un ritmo incalzante, con alta tensione e toni coloratissimi, e orchestrando con grande perizia brillanti scene di azione, accompagnate da una straordinaria colonna sonora di musica Bhangra hip-hop, sceglie di illustrare anche la dimensione familiare, e i legami con la tradizione di rispetto per i genitori e religiosa, di Jeet e dei suoi accoliti. Dirige al meglio un cast molto affiatato di attori indiani e orientali, alcuni dei quali canadesi. Riecheggia Goodfellas di Martin Scorsese, a volte cita Scarface, di Brian De Palma, ma soprattutto si collega al nuovo cinema indiano dei gangster movies d’autore che annovera registi consacrati  quali Vishal Bhardwaj e Anurag Kashiap.

La sezione competitiva "Punto de Encuentro" ha presentato 13 lungometraggi (8 opere prime e 5 opere seconde), molti dei quali in anteprima europea. Ne commentiamo  alcuni.

Two Nights Till Morning Mikko Kuparinen

"Two Nights Till Morning" Mikko Kuparinen

 

Il Premio al miglior film è stato assegnato a 2 yötä aamuun (Two Nights Till Morning), opera seconda del finlandese Mikko Kuparinen. Si tratta di un dramma romantico ricco di sfumature, originale e raffinato, che va oltre i canoni del genere per esplorare l’universo emozionale dei due protagonisti. I protagonisti sono due trentenni bloccati in un lussuoso hotel di Vilnius a causa di un improvviso black out dei voli aerei dovuto alla dispersione di ceneri nell’atmosfera di tutto il Nord Europa a causa di una massiva eruzione di un vulcano in Islanda. Jaako (Mikko Nousiainen), finlandese, è un DJ di fama internazionale: un professionista abituato a continui spostamenti nel mondo con  la sua équipe e, dopo il divorzio, profondamente legato alla sua bambina di sei anni che a Helsinki è accudita dalla nonna. Caroline (Marie-José Croze) è un architetto rappresentante di un importante studio parigino e incaricata di perfezionare un cruciale contratto per l’arredamento interno del nuovo aeroporto della capitale lituana. È una donna apparentemente forte, ma lacerata dalla difficoltà di chiudere la relazione di lunga data, ormai esaurita, con la sua compagna che la attende a Parigi e non si rassegna.

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Sono costretti a una sosta inaspettata in un Paese straniero e non si conoscono affatto. La sera del primo giorno si incontrano nel bar dell’hotel. Jaako è chiaramente attratto da Caroline. Lei è interessata a trovare una corrispondenza che la sollevi dalle ambasce affettive e  lavorative, ma esita e quindi frappone una barriera  dichiarando che non parla l’inglese. Comunque finiscono  la serata nella camera di Jaako e fanno l’amore. Ma all’alba Caroline vorrebbe andarsene. Poi lui la convince a restare e, svelato che lei parla anche l’inglese, iniziano a comunicare pienamente. Ne nasce una relazione controversa, tra scoperta reciproca, sincera passione e coscienza della labilità del momento. Un rapporto che dura due notti e tre giorni, fino alla dipartita per le rispettive destinazioni quando il traffico aereo viene ripristinato. Un finale  doloroso e non consolatorio, dettato dalla fedeltà alle proprie vite (quantunque Caroline decida di prendersi una vacanza e di non tornare a Parigi  dalla sua amante), ma che li lascia comunque legati da un’esperienza comune che forse non si è conclusa. Mikko Kuparinen descrive l’incontro e la breve e fortuita relazione amorosa  senza alcuna retorica, costruendo una stimolante e veridica dialettica sentimentale attraverso gesti, sguardi e comportamenti. Il film  rivela un tono meditativo, ma non freddo, essendo ben lontano dai modelli melodrammatici dei film di Claude Lelouch, ma anche dal fastidioso chiacchiericcio sentimentale di maniera e artificioso dei due film, molto sopravvalutati dalla critica, Before Sunrise (1995) e Before Sunset (2004), di Richard Linklater. Inoltre denota una suggestiva combinazione di sequenze in interni e di scorci esterni della città di Vilnius.

A 3000 layla (3000 Nights), opera prima di finzione della documentarista palestinese cinquantenne Mai Nasri, è andato il Premio del Pubblico tra i film di questa sezione. Il film offre il tragico ritratto delle condizioni di un gruppo di detenute palestinesi ed ebree in una prigione di massima sicurezza in Israele. Il film, ambientato a Nablus nel 1980, propone una galleria di personaggi tra cui spicca l’insegnante Layal (Maisa Abd Eladi). La donna, accusata del reato di terrorismo e condannata a una lunga detenzione per aver aiutato un reo fuggitivo, scopre di essere incinta e rifiuta la pressante richiesta di suo marito affinché abortisca, partorendo una bambina mentre si trova in carcere. La regista descrive le relazioni in carcere optando per un  misto di realismo e di naturalismo ad effetto. Ne emergono vari episodi di solidarietà tra le detenute palestinesi e di contrasto paranoico con le carcerate israeliane, che appaiono rozze e razziste, nonché le angherie e i ricatti ad opera delle truci agenti di custodia femminili in risposta a uno sciopero della fame attuato da palestinesi e arabe per protestare contro il duro sistema interno di controllo. Fino al clou di una violentissima rivolta scoppiata  in seguito all’uccisione di una reclusa durante l’ora d’aria, colpita da una fucilata di un soldato di guardia sparata per sedare una rissa avvenuta in cortile durante l’ora d’aria. Il film è interessante e a tratti drammaticamente efficace rispetto al tema della dignità delle detenute, ma lo sguardo appare troppo unilaterale e i personaggi sono in gran parte stereotipati.

 

3000 Nights" Mai Nasri

"3000 Nights" Mai Nasri

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Flocking Beata Gardeler

"Flocking" Beata Gardeler

 

Flocken (Flocking), opera seconda della svedese Beata Gärdeler, è un dramma - thriller basato su fatti realmente accaduti. Un’opera che evidenzia bene sia la crisi del modello svedese di civismo e di  rispetto degli altri, sia le contraddizioni a livello giovanile e i meccanismi della sopraffazione. La vicenda è ambientata in un piccolo centro nel nord della Svezia dove tutti si conoscono e sembrano uniti e dove pare prevalere uno spirito di fedeltà alle tradizioni del mondo rurale e un solido radicamento della pratica religiosa, con conseguente adesioni ai principi morali cristiani. La quindicenne Jennifer (Fatime Azemi) accusa Alexander (John Risto), un compagno di classe, di averla violentata. Peraltro la ragazza è sempre stata disinibita, segue la moda dark e non mostra segni di depressione. Inoltre appartiene a una famiglia di ceto inferiore e chiacchierata perché sua madre si è messa insieme ad un uomo più giovane. Ne deriva che la presunta vittima appare agli occhi di molti poco credibile. Il ragazzo al contrario appartiene a una famiglia del ceto medio benestante, gode fama di studente modello e di sportivo, frequenta la chiesa ed è ammirato e sostenuto da molti. La polizia e la magistratura svolgono le indagini con discrezione, ma Alexander nega la sua colpevolezza seppure palesando una certa rerticenza.

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Sua madre non solo gli crede ciecamente, ma, dopo aver cercato di risolvere la questione con un semplice incontro conciliatorio tra i due giovani, mette in atto una campagna di discredito, di false accuse e di vero bullismo nei confronti di Jennifer, utilizzando i social network mediante un account inventato ad hoc. In breve l’intera comunità manifesta un  tenace boicottaggio nei confronti di Jennifer e della sua famiglia, considerati colpevoli di avere danneggiato l’immagine del  paesino. In un crescendo di episodi odiosi,  si arriva perfino a una specie di assalto con atti di vandalismo contro  la loro casa. La situazione è insostenibile e Jennifer viene colpevolizzata anche dal vicario luterano, dagli amici e persino da sua sorella.  Nel finale drammatico, un poco forzato, prima ancora che la giovane compia un atto irreparabile sarà Alexander a confermare la sua indole violenta e misogina.  La caratterizzazione ambientale del film è notevole grazie anche al sapiente utilizzo della tetra luce delle notti bianche scandinave e alla opzione per la penombra claustrofobica per le scene in interni. La narrazione si sviluppa con un’efficace scansione drammatica e una messa in scena rigorosa, cedendo poco agli stereotipi. Beata Gärdeler costruisce una credibile atmosfera di progressiva tensione e di potenziale violenza attraverso la semplice descrizione di aspetti materiali della quotidianità e dei comportamenti e scegliendo di non rivelare cosa è veramente successo tra Jennifer e Alexander. Dirige con sicurezza un cast ben affiatato ed evita quasi sempre inutili psicologismi e la strumentalizzazione delle situazioni volta a suscitare “emozioni forti” nello spettatore. Non propone un messaggio didascalico, ma lascia trasparire con chiarezza le logiche perverse e devastanti del pregiudizio, dell’ipocrisia e dell’esclusione sociale.

La sezione competitiva "Tiempo de Historia" che ha compreso 19 documentari lungometraggi, tra cui varie European Premières e alcune World Premières. Commentiamo un film, oltremodo significativo, che ha ottenuto il Secondo Premio da parte della Giuria di questa sezione: Je suis le peuple, opera prima della francese Anna Roussillon, cresciuta a Il Cairo. Il  documentario è stato girato in un piccolo villaggio sconosciuto in un’area rurale posta 700 chilometri a sud di Il Cairo. Offre un ottimo ritratto senza veli di un microcosmo in cui gli abitanti percepiscono in forma attenuata e, in parte, distorta le contorsioni politiche avvenute dal 2011 ad oggi: la rivolta di Piazza Tahrir e la destituzione di Mubarak; l’ascesa del Partito della Fratellanza Musulmana, la sua incapacità a governare e la destituzione del Presidente Morsi; l’ascesa del Generale Al Sisi, poi divenuto Presidente della Repubblica con votazione popolare. Un sorprendente spaccato che fa conoscere  la realtà di un’economia di sussistenza e piccolo commercio e di una società, con tradizioni che si tramandano da generazioni, che  si apre lentamente  a nuove prospettive.

 

Je suis le peuple Anna Roussillon

"Je suis le peuple" Anna Roussillon

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Menzioniamo inoltre la sezione "Spanish Cinema", che ha presentato 12 lungometraggi rappresentativi della produzione spagnola della presente stagione cinematografica 2014 - 2015. Diamo quindi notizia di due cicli tematici concepiti appunto per celebrare il sessantesimo anniversario della SEMINCI. Il primo, intitolato “Seminci, femenino singular”, ha  compreso 16 lungometraggi realizzati tra il 1977 e il 2012, da registe di vari Paesi con precisi profili autoriali, film presentati in precedenti edizioni del Festival. Citiamo alcune delle registe che hanno realizzato le opere presentate: Coline Serreau, Pilar Miró, Jane Campion, Susanne Bier, Marion Hansel, Icíar Bollaín, Doris Dörrie e Sally Potter. Il secondo, intitolato “Inéditos. Talentos del siglo XXI”, ha compreso 12 lungometraggi di registi, ormai divenuti affermati e premiati autori a livello internazionale, realizzati nell’ultimo ventennio e inediti in Spagna. Ne citiamo alcuni: River of Grass (1994), di Kelly Reichardt; Kasaba (1997), di Nuri Bilge Ceylan; Made in Israel (2001), di Ari Folman; L’uomo in più (2001), di Paolo Sorrentino; Dancing in the Dust (2003), di Asghar Farhadi. E ancora il piccolo ciclo - omaggio dedicato a Francis Ford Coppola e agli autori del Nuovo Cinema Americano o europei che hanno debuttato negli anni ’70 e ’80 e che sono stati influenzati dall’ormai veterano autore americano. Uno spazio che ha presentato 2 film di Coppola, Finian’s Rainbow (1968) e  The Rain People (1969), il documentario a lui dedicato Hearts of Darkness: A filmmaker’s Apocalypse (1991), di Fax Bahr, George Hickenlooper e Eleanor Coppola,THX 1138 (1971), di George Lucas e Hammett (1982), di Wim Wenders. Infine offriamo una citazione ad alcuni film della Retrospettiva dedicata alla cinematografia contemporanea del Paese ospite della SEMINCI di quest’anno: la Finlandia. Si tratta di alcuni drammi familiari veramente interessanti e riusciti nel descrivere profonde ragioni di crisi esistenziale e di distopia sociale:  Neitoperho (The Collector) (1997), di Auli Mantila; Paha perche (Bad Family) (2010), di Aleksi Salmenperä; Hyvä poika (The Good Son) (2011), di Zaida Bergroth; Kerron sinulle kaiken (Open up to me) (2013), di Simo Halinen.

 


 

 

 

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60. FESTIVAL SEMINCI DI VALLADOLID

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24 - 31 / 10 / 2015

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