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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 59. LONDON FILM FESTIVAL, BFI I DI GIOVANNI OTTONE I 2015

London Film Festival 2015:

I premiati e i nuovi film

Miglior film a “Chevalier”, di Athina Rachel Tsangari
Miglior regista di opera prima a Robert Eggers per “The Witch”
Miglior documentario a “Sherpa”, di Jennifer Peedon

 

DI GIOVANNI OTTONE

"Sherpa" Jennifer Peedon

Sherpa Jennifer Peedon

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La 59e edizione del “BFI London Film Festival (LFF)”, svoltasi dall’7 al 18 ottobre, è stata inaugurata da Suffragette, un avvincente dramma d’epoca, opera seconda della britannica Sarah Gavron. Un’opera che propone la storia di un gruppo di donne di diversa estrazione sociale, militanti per il diritto di voto  e per l’emancipazione femminile a Londra nel 1912, in un’epoca contrassegnata dal duro moralismo post-vittoriano e dalla triste condizione lavorativa delle donne proletarie. Al centro della vicenda vi è Maud (Carey Mulligan, molto credibile) una ventenne che fin dall’adolescenza lavora in una grande lavanderia industriale. Il film registra la sua progressiva presa di coscienza, anche a costo di entrare in contrasto con il marito che alla fine la costringe a lasciare il loro alloggio e le impedisce di vedere il suo bambino. Maud diventa membro di un gruppo militante di suffragette, legate da forte solidarietà reciproca, di cui fanno parte personaggi  ricordati dalla Storia, come la farmacista Edyth Ellin (Helena Bonham Carter) e Emily Davison (Natalie Press), ispirato dalla mitica leader Emmeline Pankhurst (Meryl Streep). Perseguitate dall’abile e implacabile ispettore di polizia Steed (Brendan Gleeson), che alterna arresti violenti e blandizie per ottenere che qualcuna diventi suo informatore, e deluse dal tenace rifiuto del governo di riconoscere il  diritto di voto alle donne, le attiviste compiono atti clamorosi di protesta pagando un prezzo molto alto. Il film è convincente grazie ad un’ottima ricostruzione dell’epoca  in termini scenografici, di costumi, di mentalità e di rapporti sociali e ad una scrittura puntuale che definisce con chiarezza i personaggi. La scansione  narrativa evita in larga parte la deriva pietista e retorica e definisce un ritmo intenso ed efficace in cui si mescolano suspence ed emozioni. Steve Jobs dell’inglese Danny Boyle, ha concluso il Festival. Si tratta di un ritratto a tutto tondo del famoso geniale imprenditore americano, uno dei principali protagonisti della rivoluzione digitale, attraverso la progettazione e il lancio dei computer della Apple, l’azienda leader da lui fondata. Boyle non cade nella tentazione di una minuziosa ricostruzione storica della vita di Jobs. Al contrario, pur prendendo spunto dalla fortunata biografia di Walter Isacson, sceglie una struttura narrativa innovativa centrata sul lancio di tre  prodotti chiave: il Macintoshn el 1984, il NeXT Cube nel 1988 e l’IMac nel 1988. Ne risulta un ritratto penetrante che mette a fuoco la speciale percezione del protagonista (Michael Fassbender, che sa renderne la cinetica energia), riguardo le esigenze di comunicazione tra le persone in un’epoca di grandi cambiamenti e lo sfruttamento al meglio della tecnologia, ma anche le sue fobie e idiosincrasie, in un intreccio accattivante e frenetico tra sfera pubblica e ambito privato. Un film concepito con intelligenza, a partire dall’incisiva sceneggiatura di Aaron Sorkin, e tutto costruito su dialoghi incalzanti e sull’enfatizzazione dei momenti decisionali, anche a costo di invenzioni e manipolazioni, allo scopo di coinvolgere emotivamente lo spettatore, ma evitando in larga parte la mitizzazione agiografica. E senza dubbio un’opera valorizzata da un eccellente cast molto affiatato che comprende anche Seth Rogen, Jeff Daniels, Kate Winslet e Katherine Waterston.


Il LFF è il più importante Festival cinematografico che si svolge in un’area metropolitana in Europa ed è da sempre rivolto al pubblico. Inoltre costituisce anche un notevole trampolino di lancio, a livello continentale, per la distribuzione commerciale di diversi film d’autore già presentati e/o premiati in altri importanti Festivals del 2015, tra cui Sundance, Berlino, Cannes, Toronto e Venezia. Peraltro annovera pure la presenza di nuovi film, in particolare molte tra le opere prime di giovani autori, quest’anno bel 67, i documentari, ben 47, e di film d’autore molto rappresentativi delle comunità estere presenti nella metropoli, come la indiana, la cinese e quelle dei Paesi del Medio Oriente. Anche quest’anno il programma è stato ampio, avendo presentato ben 238 lungometraggi features films e 182 cortometraggi, prodotti da 71 Paesi. La qualificazione internazionale viene anche da altri dati rilevanti: 16 World Premières, 8 International Premières e 40 European Premières, nell’ambito dei lungometraggi. I film sono formalmente raggruppati in varie sezioni, con denominazioni curiose che si riferiscono, in qualche modo, al genere: Galas; Love; Debate; Laugh; Thrill; Cult; Journey; Sonic; Family; Shorts: Experimenta; Treasures.


Oltremodo significativa la presenza di 11 film italiani,  molti dei quali presentati nel corso dell’anno in altri Festival e collocati  nelle varie sezioni della rassegna londinese: Arianna, di Carlo Lavagna; Sangue del mio sangue, di Marco Bellocchio; A bigger splash, di Luca Guadagnino; Il gesto delle mani, il documentario di Francesco Clerici; Il ragazzo invisibile, di Gabriekle Salvatores; Latin lover, di Cristina Comencini; Mediterranea, di Jonas Carpignano; Youth, di Paolo Sorrentino; L’attesa, di Piero Messina; Vergine giurata, di Laura Bispuri; la splendida versione restaurata di Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti.

Guibord s'en va-t-en guerre

"Chevalier" Athina Rachel Tsangari

 

Clare Stewart, Direttore Artistico al suo quarto mandato, ha confermato la struttura del Festival e quindi anche la scelta di 3 sezioni competitive. La “Official Competition” ha compreso 13 lungometraggi (in gran parte già presentati ai Festival di Cannes, Venezia, Locarno, Toronto e Pusan) e, tra questi, 3 anteprime europee. Chevalier, della greca Athina Rachel Tsangari, ha ottenuto il Premio quale miglior film del concorso ufficiale. Si tratta di un dramma con struttura teatrale  quantunque ambientato su un lussuoso yacht che solca il Mar Egeo. Al centro della vicenda vi sono sei uomini, di età compresa tra 30 e 40 anni, professionisti appartenenti alla cinica e benestante classe media ateniese e avventurieri che lottano per farne parte. Dopo le battute iniziali che registrano sano svago sportivo e armonia dettata da vincoli di amicizia, nel corso di una serata in cui giocano a carte e chiacchierano inizia un confronto senza esclusione di colpi.Uno di loro lancia l’esca iniziale affermando che una persona può essere il migliore in un determinato campo specifico, ma non può esserlo in assoluto.

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Da quella  provocazione nasce la decisione di un gioco crudele per stabilire chi può definirsi il migliore in assoluto fra loro. Vengono stabiliti una serie di test in cui ciascuno valuta gli altri e viceversa  sulla base di un punteggio con criteri concordati. Quindi iniziano a giudicarsi in una gara di paragoni. Ne risulta un confronto spietato, con continue recriminazioni, l’emergere di segreti e di rancori tra individui che pare si frequentino da anni e momenti di inaudita violenza verbale, fino al confronto fisico. Ma arrivati al porto del Pireo, e individuato il vincitore della singolare tenzone, i protagonisti, che sembravano essere divenuti acerrimi nemici, si accomiatano quasi amichevolmente. Athina Rachel Tsangari propone un tentativo di dissezione dell’ego maschile e un ritratto dell’antagonismo tra uomini, complicato da contrasti personali e di classe e da una disanima di ideali di gusto, sessualità e successo nella vita, con vaghi rifermenti alla realtà sociale e politica contemporanea greca. Tuttavia, nonostante una certa eleganza e rigore formale, il film conferma la deriva negativa della cosiddetta new wave del cinema greco in atto da un paio di lustri. Un cinema, a cui appartengono anche i  lavori di Avranas e di Lanthinos, costruito per provocare il pubblico con situazioni e immagini contundenti. In sostanza   anche questo film rappresenta la volontà di manipolare  strumentalmente la crisi economica che attanaglia la Grecia, offrendo falsi dramma o commedie dark, costruiti con stile manierista e con sfoggio di toni umoristici paradossali e assurdi, marcati da temi nevrotici e ossessivi, pesante intellettualismo e simbolismi e viziati da una sorta di violenza morbosa e gratuita.

Lo statunitense Robert Eggers, regista di The Witch, ha ricevuto il Sutherland Award, Premio al miglior regista, nella sezione “First Feature Competition”, che ha allineato 12 lungometraggi opere prime, anch’essi già presentati in altri importanti Festivals di quest’anno (tra cui quelli di Cannes, Venezia e Toronto) e, tra questi, 2 anteprime europee. The witch è un dramma - horror d’epoca che reinventa le regole del genere con grande creatività, offrendo una suspence genuina, ma anche una notevole dimensione del contesto culturale. La storia si svolge nel New England, nel 1630. Una famiglia molto devota di coloni inglesi viene allontanata dalla comunità di calvinisti puritani, quaccheri, a cui appartiene,  sulla base di  pregiudizi e di contrasti personali. Padre (Ralph Ineson), madre (Kate Dickie) e i quattro figli si stabiliscono in un appezzamento di terra isolato ai limiti di una foresta, abitano in una modesta casa rustica con annesso recinto per gli animali e conducono una dura esistenza di autosufficienza. Tuttavia ben presto si accorgono che le loro coltivazioni di ortaggi deperiscono.

 

Right Now, Wron Then Hong Sang Soo

"The Witch" Robert Eggers

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Poi anche tra gli animali che allevano, capre, polli e maiali, si notano stranezze. La figlia maggiore sedicenne Thomasin (Anya Taylor- Joy) si addentra nella foresta e fantastica su presenze occulte. I due bambini più piccoli la accusano di intesa con le streghe. Poi un giorno Caleb (Harvey Scrimshaw), il fratello minore dodicenne, scompare. Inizia una ricerca disperata del ragazzo e contemporaneamente cresce un clima di tensione e di paranoia isterica in cui i contrasti si accentuano tra il padre moralista e testardo e la madre che recrimina di aver abbandonato l’Inghilterra. Poi Caleb si ripresenta, ma appare in trance. Nonostante suppliche e preghiere si scatena una forza malefica soprannaturale che  sconvolge la casa e la famiglia. Nella sua opera prima Eggers dimostra grande talento e maturità nella scrittura, nella  rappresentazione  scenica visionaria e nella direzione degli attori. Da un lato configura un quadro molto convincente di un universo culturale tetro, chiuso e bigotto che  condurrà nel 1690 al famoso processo alle streghe di Salem. Dall’altro confeziona un’accurata ambientazione scenografica in cui si mescolano realismo, originali trucchi visivi e ammirevoli effetti speciali. E articola, attraverso un sapiente uso di inquadrature e di lenti deformanti, un’escalation che conduce a sequenze che trasudano soluzioni enigmatiche, sorprendenti trasformazioni e vero terrore.

Sherpa  Jennifer Peedom

"Sherpa" Jennifer Peedom

 

Il Grierson Award per il miglior documentario, nella  sezione “Documentary Competition”, che ha compreso 12 documentari, alcuni dei quali presentati in precedenza in altri prestigiosi Festival, ma anche 2 world premières, è andato a Sherpa, dell’australiana Jennifer Peedom. È uno straordinario ritratto del gruppo etnico che vive in Nepal, nelle vallate fra le montagne dell’Himalaya, ad oltre 3.000 metri di altitudine. Una popolazione i cui uomini sono i più esperti scalatori del mondo, utilizzati da oltre 60 anni come guide e portatori dalle spedizioni di climbers stranieri per raggiungere la sommità dell’Everest e delle altre vette. Jennifer Peedom racconta con efficacia ed empatia la condizione molto difficile dei maschi sherpa, affrontando varie problematiche: i gravi  rischi di salute derivanti dalla necessità di rimanere in altissima quota per lunghi periodi; le relazioni complicate  con gli scalatori stranieri spesso privi di considerazione per loro; le difficoltà nei rapporti familiari. In particolare documenta le conseguenze di una terribile tragedia: la morte di 16 sherpa travolti da una valanga durante una spedizione nell’aprile 2014.

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Segnaliamo inoltre alcuni nuovi film qualitativamente significativi, molti dei quali provenienti dal Festival di Toronto e presentati in anteprima mondiale nelle sezioni “Galas”, “Official Competition” e “First Feature Competition”. Trumbo, dello statunitense Jay Roach, è un biopic che propone la vicenda umana e professionale di Dalton Trumbo (l’eccellente Bryan Cranston) uno degli sceneggiatori  di  miglior talento e di maggior retribuzione di Hollywood. Il protagonista, nel 1947, dopo essersi dichiarato comunista e aver rifiutato di testimoniare contro i suoi colleghi  presso la “Commissione parlamentare sulle Attività Antiamericane”, presieduta dal  famigerato senatore McCarthy, fu condannato a un anno di carcere e poi inserito in una blacklist e bandito dagli studios per un decennio. Costretto a scrivere copioni con vari pseudonimi, riuscì a sopravvivere e a mantenere la famiglia con la complicità di un produttore di B-movies (John Goodman) che ne apprezzava e ne sfruttava il talento. Un film che, a partire dall’ottima sceneggiatura di John McNamara, esibisce una magnifica ricostruzione d’epoca e una stimolante caratterizzazione dei personaggi.

 

Trumbo Ray Roach

"Trumbo" Ray Roach

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Brooklyn, dell’irlandese John Crowley, è un dramma esistenziale ambientato nel dopoguerra, alla fine degli anni ’40. Racconta la vicenda di una ventenne di condizione modesta proveniente da un piccolo centro dell’Irlanda ed emigrata a New York, dove trova impiego come commessa in un grande magazzino. Dopo  qualche tempo Ellis (Saoirse Ronan) si ambienta perfettamente e si innamora di un giovane idraulico italo-americano, onesto e lavoratore. Costretta a tornare temporaneamente in patria a causa di una tragedia familiare e  corteggiata dall’erede di una famiglia di imprenditori, si trova in una condizione di grave incertezza circa la scelta da compiere. Un’opera piuttosto convenzionale, tra sottile malinconia e rovelli sentimentali, abbastanza dignitosa e gradevole, ma priva di una convincente scansione drammatica nonostante la sceneggiatura di Nick Hornby.

Les Chevaliers Blancs Joachim Lafosse

"The Lady in the Van" Nicolas Hytner

 

The Lady in the Van, dell’ inglese Nicholas Hytner, è una gustosissima commedia drammatica, molto british. Adatta una fortunata piéce teatrale, del 1999, del notissimo Alan Bennett, beniamino del West End londinese e autore anche della sceneggiatura del film che racconta parte della sua vita. La protagonista è un’irriverente, energica, scontrosa e stramba settantenne, Miss Mary Shepherd (la straordinaria Maggie Smith) che, nei tardi anni ’60, vive in un vecchio van  stazionando nelle strade di Camden, un antico e tranquillo quartiere residenziale londinese. La donna, che occulta molti segreti, nonostante sia povera e molto trasandata, conserva una buffa dignità, ma non rinuncia a compiere atti di rivalsa contro chi la infastidisce o la disprezza.  Dopo averlo conosciuto, impone una relazione di amicizia ad Alan Bennett (Alex Jennings), recentemente trasferitosi a Camden. Lo scrittore, sceneggiatore e regista teatrale, gentile, moderatamente nevrotico e  omosessuale molto discreto, essendo mosso da pietà, le consente di parcheggiare temporaneamente il minibus nel vialetto di ingresso della sua residenza.

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Ma il tempo trascorre e Mary non se ne va. Tra i due nasce uno strano sodalizio di inconfessata mutua dipendenza e di interesse reciproco tra anime solitarie: un’inconsueta relazione che continua per ben 15 anni, fino alla morte di Mary. Il film è ricco di humour intelligente e di episodi esilaranti. Prospetta una genuina caratterizzazione umanista dei personaggi e offre un fine sguardo ironico  sulla società inglese dell’epoca, tra classismo e welfare state, rifuggendo la facile retorica.

The program,  del noto regista britannico Stephen Frears, è un dramma che ricostruisce la clamorosa ascesa e la tragica caduta di Lance Armstrong (Ben Foster). Si tratta del corridore in bicicletta americano, diventato un mito per aver sconfitto il cancro e per aver vinto sette Tour de France consecutivi tra il 1999 e il 2005. Ma successivamente fu smascherato per aver organizzato non solo un allucinante programma di doping per sé e per il suo team U S Postal Service, ideato dal medico italiano Michele Ferrari (Guillaume Canet), ma anche un sistema di intimidazioni e connivenze nel mondo del ciclismo professionistico. Il film si sviluppa con un accattivante e frenetico ritmo narrativo che combina fiction e ampio footage, con riprese emozionanti delle tappe dei Tour. Al tempo stesso sviluppa di pari passo l’inchiesta dell’unico giornalista sportivo, David Walsh (Chriss O’Dowd) che sospettò sempre il doping di Armstrong. Tuttavia risulta  condizionato da un eccesso di intenti didascalici e i personaggi appaiono troppo stereotipati.

 

The Program Stephen Frears

"The Program" Stephen Frears

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Beeba Boys Deepa Mehta

"Beeba Boys" Deepa Mehta

 

Beeba boys, di Deepa Mehta, regista indiana sessantenne  radicata da molte decadi in Canada, è un eccellente gangster  movie ambientato a Vancouver. Offre il ritratto di una banda criminale  denominata “bravi ragazzi”: giovani di religione Sikh, figli di emigrati indiani dal Punjab, che cercano di imporsi con metodi sanguinari nel traffico di droga e armi. Agli ordini del trentenne Jeet Johar (Randeep Hooda), bello, narciso, arrogante e spietato,  appaiono curatissimi nell’aspetto, sfoggiano abiti sgargianti all’ultima moda, SUV e amanti bianche e amano il glamour e il denaro facile. Si conoscono dall’adolescenza e sono ossessionati dal loro codice d’onore che prevede lealtà reciproca e disponibilità al sacrificio  a favore del capo e dei fini comuni. Usano metodi spicci, comprese uccisioni efferate, per contendere il primato alla banda rivale, sempre di Sikh, guidata dal maturo moghul criminale Don Robbie Grewal (Gulshan Grover).

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Il film percorre un’escalation in cui si mescolano accenti entusiasti, spunti epici e momenti disperati, in occasione di assassini e di vendette incrociate, ma anche sottili trame di sospetti e tradimenti fino allo showdown finale. Deepa Metha, che si è ispirata a veri fenomeni criminali e a inchieste giornalistiche sul tema, propone una narrazione che coglie pienamente le modificazioni intervenute  negli ultimi 15 anni nel panorama sociale e culturale di Vancouver dove gruppi etnici di immigrati asiatici hanno imposto i loro forti connotati identitari e una discriminazione razzista al contrario, rifiutando la pacifica logica del melting pot della società canadese. Al tempo stesso, pur optando per un ritmo incalzante, con alta tensione e toni coloratissimi, e orchestrando con grande perizia brillanti scene di azione, accompagnate da una straordinaria colonna sonora di musica Bhangra hip-hop, sceglie di illustrare anche la dimensione familiare, e i legami con la tradizione di rispetto per i genitori e religiosa, di Jeet e dei suoi accoliti. Dirige al meglio un cast molto affiatato di attori indiani e orientali, alcuni dei quali canadesi. Riecheggia Goodfellas di Martin Scorsese, a volte cita Scarface, di Brian De Palma, ma soprattutto si collega al nuovo cinema indiano dei gangster movies d’autore che annovera registi consacrati  quali Vishal Bhardwaj e Anurag Kashiap.

Bone Tomahawk, opera prima del trentenne statunitense S. Craig Zahler, è un sorprendente western atipico. Ambientato a Bright Hope, una piccola cittadina del Wild West, nell’epoca successiva alla Guerra Civile Americana,  racconta una storia solo apparentemente classica, con personaggi tipici del genere, riecheggiando film notissimi, ad esempio The Seachers e The Hills have Eyes. Quando Samantha (Lili Simmons), moglie del medico Arthur O’Dwyer (Patrick Wilson), viene rapita da una misteriosa banda di Indians, quattro uomini partono a cavallo per ritrovarla: lo sceriffo Franklin Hunt (Kurt Russel), il suo anziano aiutante Chicory (Richard Jenkins),  l’avventuriero dandy John Broder (Matthew Fox) e lo stesso O’Dwyer, benché reduce da una frattura alla tibia, con la gamba ancora steccata. Dopo una serie di inquietanti episodi, accompagnati da spunti grotteschi, gli intrepidi “eroi” si trovano a fronteggiare i rapitori: una banda di poche decine di indigeni regrediti all’epoca preistorica, acerrimi nemici della civilizzazione, animati da forza sovrumana e asserragliati in un’area sperduta che proteggono strenuamente, con un astuto sistema di vigilanza.

 

Bone Tomahawk  S. Craig Zahler

"Bone Tomahawk" S. Craig Zahler

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Sono individui  terribilmente efferati e praticano il cannibalismo nei confronti dei nemici annientati. S. Craig Zahler reinventa i canoni del western inserendovi motivi horror, con grande creatività e  straordinario e ibrido immaginario visivo. Non utilizza effetti speciali, preferendo antiche tecniche di make up e scenografiche, ma in qualche modo riecheggia i film dei fratelli Coen, proponendo una suspence irresistibile, condita da estrema violenza a e disperazione.

Paulina Santiago Mitre

"Desierto" Jonas Cuaron

 

Desierto, opera seconda del trentenne messicano Jonás Cuarón, è un convincente “hunt and revenge thriller” ambientato in una zona desertica della frontiera tra Messico e Stati Uniti. Racconta l’allucinante  incubo di un gruppo di immigranti illegali messicani che, dopo aver attraversato il confine a bordo di un camion, in seguito alla rottura dell’automezzo sono costretti a proseguire a piedi in territorio statunitense guidati dal trafficante, il coyote. All’improvviso si trovano ad essere bersagliati dalle fucilate di uno sconosciuto vigilante razzista (Jeffrey Dean Morgan), che si muove velocemente su un pick up, su cui è issata la vecchia bandiera dei Confederati sudisti, ed è accompagnato da un cane pastore belga addestrato a inseguire e uccidere le prede umane. L’uomo persegue implacabilmente i malcapitati e li ammazza uno ad uno. Poi si dedica a inseguire gli ultimi due sopravvissuti: il trentenne Moises (Gael García Bernal) e la giovane Adela (Alondra Hidalgo).

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Jonás Cuarón reinterpreta al meglio le regole del genere e sfrutta efficacemente in termini visivi le caratteristiche naturali della location desertica. Costruisce un meccanismo incalzante di “caccia dei topi da parte del gatto” carico di una tensione a tratti insostenibile, fino al confronto finale articolato in modo ingegnoso. Un film che promana anche un genuino senso di tristezza e di tragica disperazione, concentrandosi sulla lotta per la sopravvivenza e ponendo sullo sfondo gli spunti sociali e politici, pur presenti.

Room, del regista irlandese Lenny Abrahamson, è un dramma  molto contundente e ricco di sfumature, dallo strazio alla speranza, dalla suspence  alla vertigine di una nuova vita. Il film adatta l’omonimo romanzo della irlandese - canadese Emma Donohue che è anche autore della sceneggiatura. All’inizio della vicenda  una madre (Brie Larson) è tenuta prigioniera dall’età di 17 anni in una casupola, con Jack (Jacob Tremblay) il suo bambino di cinque anni, che è nato in cattività e quindi non ha mai visto il mondo esterno. Nel corso di circa un’ora lo spettatore assiste allo svolgersi della relazione tra i due: la madre si sforza di motivare il bambino raccontandogli  le cose del mondo che lui non conosce e stimolando la sua fantasia. L’unico loro visitatore è il  loro rapitore nonché padre del piccolo Jack (Sean Bridgers). Poi un giorno, con uno stratagemma, la donna riesce a ottenere che il loro carceriere, credendo che il bambino sia morto, lo porti via e lo trasporti nel bagagliaio di un pick up avvolto in un tappeto per sbarazzarsene.

 

Room Lenny Abrahamson

"Room" Lenny Abrahamson

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Ma ad un incrocio Jack riesce a fuggire, viene soccorso da un passante e, nonostante sia stordito da travolgenti nuove sensazioni, riesce a dare indicazioni valide alla polizia. L’aguzzino fugge, mentre la donna viene liberata. Da quel momento il film documenta, con  fine sensibilità non retorica, un lento processo di recupero del mondo reale, non privo di contraddizioni, per madre e figlio. I due sono interdetti e impauriti di fronte all’assalto mediatico della stampa e delle televisioni e non si trovano veramente a loro agio nella casa dei genitori della donna (Wliimm H. Macy e Joan Allen). Lenny Abrahamson dimostra sia notevole talento nella costruzione drammatica e nella descrizione della psicologia dei personaggi sia creatività nel trasformare un angusto  spazio confinato in un’opportunità per l’invenzione visiva.

Beeba Boys Deepa Mehta

"Very Big Shot" Mir-Jean Bou Chaaya

 

Very Big Shot, opera prima del libanese Mir-Jean Bou Chaaya, è una commedia nera che accoppia, con genuino umorismo, crime thriller e satira sociale. In effetti il regista articola un’abile combinazione di toni per calare lo spettatore, senza inutili complicazioni sociologiche, nel complesso puzzle culturale, politico e religioso, molto contraddittorio e seducente, del Libano contemporaneo. Tre fratelli si trovano coinvolti in un confronto armato. Uno dei loro avversari viene ucciso. Jad assume la colpa e subisce la condanna a cinque anni di prigione. Nel  frattempo suo fratello Ziad, il vero colpevole, si mette al servizio di una gang criminale e  trasforma la modesta panetteria di famiglia in deposito e centro di smistamento di droga: consegne a domicilio di pizze “speciali” che nel cartone contengono bustine di cocaina. Tuttavia aspira a  reinvestire i fondi del narcotraffico per aprire un ristorante chic e per gestirlo con Jad, ricompensandolo per il sacrificio compiuto.

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Inviato in Siria per un ultimo incarico, la consegna di un carico di anfetamine del valore di un milione di dollari, riesce a impossessarsene eliminando i possibili testimoni e fa credere alla gang di esserne stato derubato. Poi, con la complicità dei fratelli, Joe e Jad, uscito dal carcere, organizza un  ingegnoso e stupefacente sistema per poter esportare la droga sottratta e per rivenderla  nel Kurdistan irakeno. Allo scopo deve diventare produttore cinematografico. Quindi sfrutta la passione di Charbel, un loro amico giovane filmmaker privo di vero talento, per girare un film sentimentale: la storia di un amore contrastato tra due giovani, un cristiano e una musulmana. Very Big Shot è ricco di trovate esilaranti, si sviluppa con un  ritmo narrativo incalzante e declina arditamente i canoni dei generi, proponendo comportamenti e abitudini catturati dal vivo nel contesto levantino.

3000 Nights, opera prima di finzione della documentarista palestinese cinquantenne Mai Nasri, offre il tragico ritratto delle condizioni di un gruppo di detenute palestinesi ed ebree in una prigione di massima sicurezza in Israele. Il film, ambientato a Nablus nel 1980, propone una galleria di personaggi tra cui spicca l’insegnante Layal (Maisa Abd Eladi). La donna, accusata del reato di terrorismo e condannata a una lunga detenzione per aver aiutato un reo fuggitivo, scopre di essere incinta e rifiuta la pressante richiesta di suo marito affinché abortisca, partorendo una bambina mentre si trova in carcere. La regista descrive le relazioni in carcere optando per un  misto di realismo e di naturalismo ad effetto. Ne emergono vari episodi di solidarietà tra le detenute palestinesi e di contrasto paranoico con le carcerate israeliane, che appaiono rozze e razziste, nonché le angherie e i ricatti ad opera delle truci agenti di custodia femminili in risposta a uno sciopero della fame attuato da palestinesi e arabe per protestare contro il duro sistema interno di controllo.

 

Room Lenny Abrahamson

"3000 Nights" Mai Nasri

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Fino al clou di una violentissima rivolta scoppiata  in seguito all’uccisione di una reclusa durante l’ora d’aria, colpita da una fucilata di un soldato di guardia sparata per sedare una rissa avvenuta in cortile durante l’ora d’aria. Il film è interessante e a tratti drammaticamente efficace rispetto al tema della dignità delle detenute, ma lo sguardo appare troppo unilaterale e i personaggi sono in gran parte stereotipati.

Beeba Boys Deepa Mehta

"Wedding Doll" Nitzan Gilady

 

Wedding Doll, opera prima dell’israeliano Nitzan Gilady, è un eccellente dramma esistenziale con al centro uno struggente personaggio femminile sullo sfondo di un paesaggio che sembra interagire con i suoi sentimenti. Hagit (Moran Rosenblatt) ha 24 anni e vive con sua madre Sarah (Asi Levi) in un modesto appartamento in una cittadina sita su un promontorio nella parte meridionale del deserto del Negev. La giovane donna presenta un modesto ritardo mentale che non le impedisce di vivere con gli altri, ma è anche dotata di un indole caparbia ed è fiera della propria  indipendenza. Ama perdersi in fantasie romantiche che non riesce a separare dalla vita reale. In particolare sogna il matrimonio e  coltiva una passione smodata per gli abiti da sposa che lei stessa copia dalle riviste, riproducendoli, con modifiche creative, in bozzetti e modelli cartacei che tappezzano la sua camera. Sarah, donna ancora piacente, è addetta alle pulizie in un hotel di lusso. Vive uno stress continuo, divisa  l’indole iperprotettiva nei confronti della figlia e il desiderio di trascorrere più tempo fuori casa con il suo nuovo amante.

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Hagit è impiegata in attività manuali presso una piccola azienda familiare che produce rotoli di carta igienica. I padroni la apprezzano per la sua costante apparente serenità e per la dedizione al lavoro. Omri (Roy Assaf), trentenne figlio del titolare della fabbrichetta, accetta l’adulazione di Hagit e finisce per intrecciare con lei un rapporto sentimentale, non essendo pienamente cosciente di quanto la giovane sia orgogliosa e influenzabile. Appare sincero, ma non  osa portare alla luce  il loro legame perché sa che non potrebbe essere accettato né dai suoi genitori né dai suoi amici. Quindi mantiene la relazione nella clandestinità. Nitzan Gilady propone un film molto sensibile e maturo  riguardante problematiche costantemente presenti nel cinema israeliano del nuovo millennio, aggiungendosi ad opere di altri registi, femmine e maschi, quali ad esempio Roni e Shlomi Elkabetz, Keren Yedaya, Asaf Korman e Shira Geffen, che hanno realizzato notevoli ritratti femminili e melodrammi familiari. A partire da una sceneggiatura puntuale e ricca di sfaccettature rispetto alle contraddizioni sociali e culturali, prospetta un melodramma che offre un’accurata caratterizzazione dei personaggi, sensibilità, emozioni genuine e notevoli qualità estetiche, evitando inutili psicologismi e la tentazione di uno show down finale ad effetto.

Citiamo quindi altri notevoli nuovi film d’autore presenti nelle sezioni tematiche non competitive. Fifty, opera seconda del nigeriano Biyi Bandele, è un elegante e non banale melodramma con al centro quattro donne cinquantenni dell’élite sociale e professionale di Lagos. Aligarth, del regista indiano Hansal Mehta è un capolavoro. È un  dramma emozionante, costruito con estrema sensibilità e qualità. Ricostruisce la vicenda realmente accaduta di un professore universitario indiano: la sospensione dal servizio dopo un’indebita intrusione nel suo alloggio e la scoperta del suo orientamento omosessuale, il successivo controverso processo in tribunale per essere riammesso e la sua morte misteriosa. The People versus Fritz Bauer, del tedesco Lars Kraume, è un convincente e avvincente thriller politico, ambientato  nella neonata Repubblica Federale tedesca nell’immediato dopoguerra, alla fine degli anni ’40. Al centro della  storia vi è l’anziano procuratore generale dello Stato che cerca di  arrestare i criminali nazisti, essendo boicottato da colleghi e alti funzionari. Quindi assume la coraggiosa decisione di informare il Mossad israeliano circa la sua scoperta del fatto che Adolf Eichman si nasconde in Argentina. Take me to the River, opera prima dello statunitense Matt Sobel, è un dramma familiare, ricco di implicazioni psicologiche ed esistenziali. Racconta la visita di un sedicenne omosessuale e dei suoi genitori,   giunti dalla California, al clan dei loro parenti  conformisti in Nebraska. Wednesday 04:45, opera seconda del greco Alexis Alexiou, è un  dramma - thriller urbano un poco prolisso, ma ben costruito. Mescola realismo, suspence, scetticismo e tragedia esistenziale e disgregazione sociale. Ne è protagonista un cinquantenne proprietario di uno dei club di jazz più rinomati e antichi di Atene, ma indebitato con un mafioso romeno che lo perseguita. The Boy, opera prima dello statunitense Craig William Macneill, è un eccellente dramma - thriller  con al centro un bambino sociopatico di nove anni che vive con il padre depresso in un motel isolato, con scarsissimi clienti, in una zona collinare, ai bordi  della strada. Un film che evita i clichés del genere e costruisce la tragedia attraverso una narrazione minimalista e il lento accumulo di motivi poetici e horror. Observance, opera prima di Joseph Sims-Dennett, inglese trapiantato in Australia, è un thriller - horror molto intrigante perché costruisce un’atmosfera surreale e fantastica unica, interponendo realtà, incubi e visioni premonitorie. Il protagonista è un trentenne condizionato dalla recente morte del figlio e dalla conseguente disgregazione del suo matrimonio. L’uomo viene ingaggiato, da un committente con cui comunica solo per telefono, per sorvegliare una giovane donna. La osserva e  ne ascolta le conversazioni giorno e notte quando lei è nel suo alloggio, appostato in un appartamento abbandonato collocato proprio di fronte. King Jack, opera prima di Felix Thompson, australiano trapiantato negli USA, è un interessante coming of age film molto efficace in termini di ambientazione e di  inquadramento adolescenziale. Alterna toni lirici e momenti di vera brutalità e crudeltà. Nel corso  di un week end estivo il protagonista, il quindicenne Jack che vive in una cittadina americana, deve badare  a un cugino più piccolo e deve fronteggiare un bullo, piccolo delinquente che lo  perseguita. Red Leaves, opera prima dell’israeliano Bazzi Gete, è un convincente dramma familiare ambientato nella comunità dei Falasha, gli etiopi di religione ebraica emigrati in Israele. Al centro della vicenda vi è un orgoglioso patriarca settantenne rimasto vedovo che si scontra con la falsità e l’immoralità dei propri figli rouge

 

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59. LONDON FILM FESTIVAL, BFI

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7 - 18 / 10 / 2015

San Sebastian International Fim Festival

BFI London Film Festival 2015

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