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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 68. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI LOCARNO I DI GIOVANNI OTTONE I 2015

Festival di Locarno 2015

Un cinema  non molto innovativo

Un concorso internazionale irregolare e controverso che ha privilegiato commedie e drammi poco incisivi e ha presentato pochi autori convincenti. Vince “Right Now, Wrong Then”, del prolifico coreano Hong Sang-Soo

 

DI GIOVANNI OTTONE

Hong Sang Soo

Hong Sang Soo

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Il 68° Festival del Film Locarno, svoltosi dal 5 al 15 agosto 2014, nella terza edizione curata dal Direttore Artistico Carlo Chatrian, ha confermato la sua tradizionale struttura. L’impressione generale è stata quella di un Festival troppo attento al pubblico svizzero nelle sue diverse espressioni linguistiche. Ne è prova la presenza nelle varie sezioni di troppi film francesi mediocri e di maniera, specie drammini politically corrects, molti film tedeschi di genere, politico e / o thriller, pretenziosi o viziati da estetica televisiva e, nella sezione “Piazza Grande”, le “perle” di alcuni film, uno dei quali già presentato a gennaio al Sundance Film Festival, che sproloquiano vanamente su noti temi di relazioni interpersonali e familiari e di disagio esistenziale. La volontà di accattivarsi il pubblico svizzero sembra venire dall’orientamento volitivo del Presidente Marco Solari a cui corrisponde la debolezza condiscendente del Direttore Artistico Carlo Chatrian, coadiuvato da un comitato di selezione incerto nelle valutazioni e nel tracciare programmi coerenti. In generale esaminando le sezioni principali (Piazza Grande, Concorso Internazionale, Cineasti del Presente, Sign of Life e Fuori Concorso), si può affermare che la presenza del cinema d’autore di finzione più innovativo e sperimentale è  apparsa confinata e contenuta. Proprio la sezione “Cineasti del Presente”, storicamente destinata ad ospitare  i lungometraggi più  qualitativamente significativi  di giovani autori del panorama internazionale, ha presentato, in maggioranza, opere deboli e irrisolte. Al contrario si deve segnalare la buona qualità e l’originalità creativa di vari documentari selezionati nelle sezioni collaterali non competitive. Ne citiamo alcuni: Chi, del cinese Qiu Jongjiong; Contre-pouvoirs, dell’algerino Malek Bensmaïl; I sogni del lago salato, di Andrea Segre; Kaki kouba, del giapponese Sôda Kazuhiro; Kiev / Moscow Part 1, dellla russa Elena Khoreva; Topophilia, delll’americano Peter Bo Rappmund; The Ground We Won, del neozelandese Christopher Pryor.

Guibord s'en va-t-en guerre

"Guibord s'en va-t-en guerre" Philippe Falardeau

 

Anche quest’anno non è mancato il piatto forte dedicato al grande pubblico, ovvero la solita selezione-contenitore polivalente di lungometraggi della “Piazza Grande”: in maggioranza commedie piuttosto scontate e/o grottesche, film di buoni sentimenti e drammi a sfondo politico.  Ne citiamo solo alcuni, in positivo e in negativo, non avendo potuto vedere 7 dei 19 nuovi lungometraggi presentati. Guibord s’en va-t-en guerre, del quarantenne canadese Philippe Falardeau (già autore di Monsieur Lazhar nel 2011), è una commedia ricca di humour e senza grandi pretese, ma genuinamente brillante. Racconta la vicenda di un parlamentare indipendente di una contea del Québec settentrionale, uomo tranquillo e di basso profilo, che si trova ad essere decisivo nella votazione per la partecipazione del Canada a una “guerra umanitaria” in Medio Oriente. Si susseguono episodi esilaranti: pressioni illecite e gustosi confronti con gli elettori e i gruppi di interessi economici ed etnici, nonché conflitti e schermaglie nella famiglia del deputato Guiborg.

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Nel cast, molto ben assortito, spiccano Patrick Huard, Irdens Exantus e Suzanne Clément (attrice regolarmente presente nei film di Xavier Dolan). Amnesia, di Barbet Schroeder, già visto quest’anno al Festival di Cannes, è un dramma convincente, ambientato a Ibiza, con Marthe Keller, Max Riemelt e Bruno Ganz. Un film che affronta senza retorica il retaggio irrisolto del nazismo mettendo a confronto generazioni diverse di tedeschi. Heliopolis, terzo film del brasiliano Sérgio Machado, è tratto da una storia vera. Narra la vicenda di Laerte (Lázaro Ramos), un violoncellista negro di umili origini, ma di grande talento, che si impegna per entrare a far parte della prestigiosa orchestra sinfonica di São Paulo. Nel frattempo accetta di insegnare in una scuola pubblica di una favela dove si è formata una piccola orchestra di adolescenti strappati con fatica al crimine e all’emarginazione. Un’opera che testimonia bene l’attuale “autosufficienza culturale” ghettizzante del cinema brasiliano, tra dramma prevedibile, pochi spunti realistici, molti clichés e qualche vera emozione. Molto deludente è invece Bombay Velvet, del talentuoso indiano Anurag Kashyap, finora autore di thriller originali e geniali. È un dramma d’epoca che racconta la travolgente ascesa nel gran mondo degli affari e del potere e la tragica perdizione e  roboante fine di un giovane criminale,  cresciuto nei bassifondi, a Bombay, negli anni ’60. Un melodramma con tinte thriller che imita smaccatamente e malamente film americani quali Cotton Club, Casinò e Scarface, grottesco, decorativo e largamente inefficace nel generare vere emozioni nello spettatore. Un film artificioso, piatto e pieno di  stereotipi scontati, nonostante le ricche scenografie. In aggiunta un cast male assortito.

Il “Concorso Internazionale”, comprendente 19 lungometraggi, di cui due opere prime, tutte in prima mondiale, eccetto quattro in prima internazionale, ha presentato un mix  non molto riuscito di registi veterani o maturi, noti beniamini dei Festivals (Otar Iosseliani, Chantal Akerman, Hong Sang-soo),  autori di opere dignitose, quantunque nel segno di una continuità, insieme a un redivivo, che ha proposto un film confuso e stancamente ripetitivo (Andrzej Zulavski) e di opere di registi quarantenni, in larga parte di genere drammatico, deludenti e piene di stereotipi (Josh Mond, Pascale Breton, Bakur Bakuradze) o pretenziose e viziate da evidenti autocompiacimenti, spesso costruite ad hoc per ingraziarsi la Giuria e / o per provocare il pubblico con situazioni e immagini “disoneste” e contundenti (Athina Rachel Tsangari, Rick Alverson, Julio Hernández Cordón, Ben Rivers e i dieci registi svizzeri di Heimatland,  film catastrofista e pseudo provocatorio, con tinte horror), accanto a un paio di autori di film interessanti, ma irrisolti o ambigui (Sina Ataeian Dena e Avishai Sivan), a pochi registi che hanno realizzati film coraggiosi o  incisivi e convincenti (Pietro Marcello, Vimukthi Jayasundara, Hamaguchi Ryusuke, Alex van Wanderman) e a una sola opera di eccellente fattura (O Futebol, del quarantenne brasiliano, radicato in Spagna, Sergio Oksman).

La Giuria,  guidata dall’attore tedesco Udo Kier, ha ignorato gran parte di film qualitativamente più significativi. Ha conferito il Pardo d’Oro al film di Hong Sang-soo, premiato per la seconda volta in tre anni: in effetti aveva già ottenuto nel 2013 il  Pardo per la miglior regia con Our Sunhi. Il Premio speciale della Giuria è stato conferito a Tikkun, dell’israeliano Avishai Sivan, mentre il Pardo per la miglior regia è andato a Andrzej Zulawski, autore di Cosmos. Da notare che, per i due premi attribuiti al film di Hong Sang-soo e gli altri due assegnati al film di Avishai Sivan, hanno sicuramente influito le presenze tra i 5 componenti della Giuria dell’attrice coreana Moon So-ri, da anni attrice preferita del regista coreano, e del regista israeliano Nadav Lapid. In aggiunta, nel caso del premio a Zulawski, occorre considerare la ben nota imbarazzante attività di lobbying del produttore del suo film, il portoghese Paulo Branco.

Jigeumeun matgo geuttaeneum teullida (Right Now, Wrong Then), scritto e diretto dal cinquantenne coreano Hong Sang-soo, ha ottenuto sia il Pardo d’Oro al miglior film sia Premio per la miglior interpretazione maschile, attribuito a Jung Jae-young, protagonista del film. Si tratta di una divertente commedia con una struttura narrativa ricercata, venata da uno humour fine e gradevole, non privo di sottigliezze retoriche. Una vicenda che si articola attraverso un incontro occasionale, un goffo corteggiamento e un’abortita love story tra Ham Chun-su, un regista quarantenne di Seoul, piuttosto noto (che è reticente sul fatto di essere sposato), recatosi a presentare un suo film in una città di provincia, e Yoon Hee-jung, una pittrice ventenne, ex modella. Lo stratagemma di Hong Sang-soo è quello di raccontare la stessa storia due volte, inserendo piccole, ma determinanti variazioni che modificano significativamente il senso e l’epilogo dell’incontro.

 

Right Now, Wron Then Hong Sang Soo

"Right Now, Wron Then" Hong Sang Soo

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Ne risultano due film in uno, con un meccanismo narrativo  molto simile a quello di Sliding Doors o di Smoking / No smoking. Il regista ripropone ancora una volta la sua nota dialettica amorosa basata su storie semplici, che si reggono su giochi di incomprensioni,  piccole bugie e candide aspettative, quasi sempre deluse, condite da dialoghi brillanti e situazioni teatrali. Un cinema della parola che riecheggia il cinema francese della post Nouvelle Vague, con riferimenti a Rohmer e a Lelouch, e anche quello di Woody Allen, ma saldamente ancorato a  tipologie umane e a contingenze specificamente coreane. I suoi film offrono spunti tragicomici deliziosi, attraverso l’osservazione dei comportamenti  e la presentazione di strani incidenti in cui pare che la realtà si vendichi di fronte alle omissioni e alle  menzogne ipocrite dei protagonisti. Ne emerge un’idea della composizione dei contrasti interni alle relazioni attraverso una filosofia di ricerca di momenti di felicità conditi da buon cibo e abbondanti libagioni alcooliche.  Anche questo film, come i precedenti di Hong Sang-soo (ne ricordiamo solo alcuni tra i più recenti, Hahaha e Oki’s Movie, del 2010, The day he arrives, del 2011, e Our Sunhi, del 2013), ripropone l’universo e i temi che gli sono cari ovvero le relazioni  che coinvolgono studenti delle scuole di cinema e registi e, soprattutto, la centralità di una figura femminile e il disagio degli uomini attorno a lei che tentano invano di manipolarla. Peraltro non pare molto innovativo e nemmeno il più riuscito tra quelli del regista coreano. Basti pensare al suo raffinato Jayueui Onduk (Hill of Freedom), presentato alla  Mostra del Cinema di Venezia del 2014:  un’eccellente dramatic comedy che configura una delicata love story e, al tempo stesso, offre un ritratto non convenzionale e molto stimolante  delle differenze e  delle affinità antropologiche, culturali e comportamentali che esistono tra coreani e giapponesi.

Tikkun Avishai Sivan

"Tikkun" Avishai Sivan

 

Tikkun, terzo film del trentenne israeliano Avishai Sivan ha conquistato sia il Premio speciale della Giuria sia la Menzione speciale per la fotografia a cura di  Shai Goldman. Si tratta di un dramma familiare ambientato nella comunità ultraortodossa degli Haredim. Narra la storia di Haim-Araron, un ventenne molto studioso che trascorre le giornate,  fino a notte inoltrata, nella scuola religiosa yeshivah, chino sui testi del Talmud e della Torah. Un giorno, stremato dalla fatica e dal digiuno, dopo una doccia, è vittima di un grave collasso con perdita di coscienza e arresto cardiaco. I paramedici del servizio di emergenza tentano invano di rianimarlo, ma poi desistono. A quel punto suo padre, disperato, si getta su di lui e continua il massaggio cardiaco. Inaspettatamente Haim-Aaron si riprende e, dopo un periodo di osservazione in ospedale, viene dimesso e torna a casa.

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Tuttavia dopo l’episodio il giovane comincia ad interrogarsi su sé stesso, sul suo corpo e sulla sua vita. Perde interesse negli studi e si comporta in modo strano, essendo turbato da desideri fisici e dubbi morali. La narrazione si avvita su sé stessa, con suggestioni surreali e spaesamenti poco chiari, fino ad un finale molto ambiguo in cui pare che la liberazione consista nel lasciar procedere la presunta volontà divina. Il film, realizzato in bianco e nero, è interessante e molto curato a livello estetico, ma risulta irrisolto e pasticciato, quasi a voler cercare un incerto equilibrio tra rappresentazione critica e volontà di rispetto della logica e delle ragioni degli ultraortodossi, derivandone un depotenziamento della proposta drammatica.

Happy hour, del trentenne giapponese Hamaguchi Ryusuke ha ottenuto sia il Premio per la migliore interpretazione femminile, assegnato alle quattro attrici protagoniste, Tanaka Sachie, Kikuchi Hazuki, Mihara Maiko e Kawamura Rira, sia la Menzione speciale per la sceneggiatura scritta dallo stesso regista con Nohara Tadashi e Okamoto Hideyuki. Il film, della durata di 317’, pur configurandosi come un serial televisivo, offre un impianto narrativo e un’estetica squisitamente cinematografici. La vicenda, ambientata a Kobe, riguarda l’amicizia di quattro donne trentenni: Jun, Akari, Sakurako e Fumi. Per tutte loro esiste un problema di relazione coniugale. Gli uomini, mariti o amanti, non sembrano in grado di comprendere le esigenze femminili e sono inaffidabili o perché antepongono il lavoro e rigidi concetti di responsabilità alla famiglia o perché intrappolati in una logica chiusa e formalistica del vincolo matrimoniale, senza dare spazio a veri affetti e sentimenti, oppure perché sono convinti della loro capacità di manipolare o sottomettere le loro partner.

 

Happy hour Hamaguchi Ryusuke

"Happy hour" Hamaguchi Ryusuke

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Ryusuke punta a caratterizzare psicologicamente i personaggi dipanando una sottile descrizione delle loro contraddizioni personali e affettive. Documenta, senza essere didascalico, il progressivo deterioramento del clima di fiducia reciproca tra le protagoniste man mano che si trovano a fronteggiare le rispettive crisi familiari. Da questo punto di vista si notano le affinità con  maestri del cinema giapponese del passato, quali Mikio Naruse e Kenji Mizoguchi, o del presente, come Hirokazu Kore-eda. Ma si può riconoscere anche un approccio paragonabile, pur in contesto culturale molto diverso, a quello di Olive Kitteridge (2014), il magnifico serial diretto dalla regista americana Lisa Cholodenko e prodotto dalla rete televisiva HBO, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2014. Peccato che la seconda parte del film presenti una serie di eventi, con articolazioni in parte astruse e contorte, che provocano spesso una suspence artificiosa. Tuttavia, nel complesso, Ryusuke  costruisce uno stimolante mosaico di temi che riflettono contraddizioni specifiche della cultura e dei costumi familiari giapponesi. Riesce a dosare humour, amarezza e malinconia, fino all’epilogo, in cui emergono i sentimenti più reconditi per evidenziare l’essenza dei legami al di là delle criticità. Non un happy end, ma una realistica apertura alla vita futura. Al fascino del film, che non risulta mai claustrofobico, contribuiscono il raffinato uso della telecamera, con una combinazione di piani diversi, e la fotografia di Kitagawa Yoshio.

Cosmos Andrzej Zulavski

"Cosmos" Andrzej Zulavski

 

Cosmos, di Andrzej Zulavski, veterano polacco, radicato da decenni in Francia, ha ottenuto il Pardo per la miglior regia. Zulavski ha diretto questo film a 15 anni di distanza dall’ultimo realizzato, La Fidelité (2000). Si tratta dell’adattamento dell’omonimo romanzo del polacco Witold Gombrowicz, uno dei più noti e ostici scrittori del secolo scorso. Un testo definito dall’autore “un thriller metafisico”, con una trama enigmatica in cui  la formazione della storia di uno studente di Varsavia, in vacanza a Zakopane, si antepone e interpone all’evoluzione della stessa, fra  motivi e simboli che si ripetono in uno sviluppo delirante che rasenta la follia. Zulavski, che curiosamente ha girato a Sintra in Portogalo, con un cast di attori francesi, portoghesi e svizzeri (Jonathan Genet, Sabine Azéma, Jean-François Balmer, Johan Libéreau, Victória Guerra, Clémentine Pons e Andy Gillet), ha costruito un’opera confusa, verbosissima e molto datata.

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Un film in cui la proverbiale concitazione provocatoria e ossessiva del regista e i suoi noti detours manieristi si coniugano con una serie di penose trovatine surreali e con simbologie e segni  ripetutiti in forma iterativa, all’insegna di ambigui dualismi. Zulavski insegue malamente le suggestioni del cinema di Raúl Ruiz e di Valeria Sarmiento e vorrebbe imitare i toni poetici di Alain ResnaisMa ne è ben lontano. Quindi ci offre una commedia di stampo teatrale, strampalata e noiosa, che  articola una trama tanto pasticciata e implausibile da essere quasi impossibile da ricostruire logicamente. Un astruso teatro dell’assurdo condito da continui giochi di parole. I due protagonisti, Witold e Fuchs,  l’uno studente di diritto e l’altro ex impiegato in una casa di moda parigina, entrambi problematici, si trovano a trascorrere  qualche giorno nella  villa tra i boschi di una famiglia di strambi borghesi impoveriti, trasformata in pensione. Tra nevrosi, gelosie, ipocrisie, incomprensioni, presagi inquietanti, passioni frustranti, sostituzioni di persona, accelerazioni deliranti, citazioni letterarie a sproposito, paccottiglia, falsi misteri e grotteschi “delitti”, il film si trascina stancamente verso un finale “aperto”, o meglio un doppio finale (con l’aggiunta di un terzo, il backstage sui titoli di coda), in cui Witold sembra non distinguere i suoi desideri e la realtà.

Al contrario segnaliamo i film più convincenti e di qualità, esclusi dal Palmarès. Chant d’hiver, del veterano Otar Iosseliani, è un delizioso racconto ambientato nell’usuale uggioso inverno parigino. In un microcosmo, un settore di un quartiere residenziale borghese, si muovono nobili proletarizzati, ladruncoli, prostitute e barboni senzatetto, perseguitati da poliziotti intolleranti, ma anche loschi maneggioni, borghesi “moralisti”, pronti ad approfittarsi dei più deboli, e politicanti corrotti. Un teatrino di personaggi buffi e poetici o viscidi e grotteschi che  interagiscono tra piccole beghe, dispetti e soprusi, ma anche attraverso storie d’amicizia e tenere passioni amorose. Un mondo senza particolari scrupoli morali, in cui i non borghesi sono legati da vincoli di solidarietà e di tolleranza reciproca e amano i piccoli piaceri della vita, collezionare oggetti, degustare vini e discutere del più e del meno.

 

Chant d'Hiver Otar Iosseliani

"Chant d'Hiver" Otar Iosseliani

Ma sullo sfondo incombono sempre gli abusi dei violenti che li umiliano con  varie prevaricazioni. I prepotenti di oggi sono eredi dei delinquenti del passato che  il regista rappresenta nel prologo del film mostrando, sempre in forma comica, ma comunque contundente, le efferatezze del Terrore durante la Rivoluzione Francese e le terribili razzie, predatorie e assassine, nei confronti della popolazione civile da parte di un esercito invasore (non si fatica a riconoscere il riferimento alle gesta di soldati russi inviati a invadere la Georgia durante la crisi e la guerra lampo dell’agosto del 2008). Iosseliani riconferma pienamente il suo talento. Combina naturalezza, creatività e realismo sui generis, esprimendo una  poetica personalissima, ma di grande impatto sociale, senza cadere mai nel moralismo. I suoi film mostrano modelli di umanità e scene di vita in cui l’individuo libero e creativo è schiacciato e vittima del potere. Sono racconti inclassificabili, semplici, costellati da simbolismi leggeri, ma efficaci e, spesso, velati da una sottile amarezza, al di là dei siparietti comici. Propongono un modello di umanità che rifiuta il lavoro sistematico, dimentica i doveri e deve fare i conti con la stupidità circostante. Si caratterizzano per uno stile curato e fluido al tempo stesso. Spicca uno humour molto originale che si nutre dell’osservazione minuziosa e divertita dei personaggi, veri anarchici sempre alle prese con iniziative stravaganti o impegnati in invenzioni di marchingegni ingegnosi. Come nei suoi film precedenti (citiamo Les favoris de la lune del 1984, La chasse aux papillons del 1992, Brigands, chapitre VII del 1996, Adieu, plancher des vaches! del 1999, Lundi matin del 2002 e Chantrapas del 2010) la particolare suggestione deriva dai movimenti e dai gesti con cui i personaggi manifestano i loro desideri e le loro passioni segrete. I dialoghi sono scarsi e a volte le parole non sono ben intelligibili (segno del rifiuto della logica informativa e/o didascalica) mentre i rumori, i suoni e certi stacchi musicali hanno un gran peso (la sonorizzazione è successiva, registrata a parte e montata con cura a posteriori, mai in diretta).

Bella e perduta, di Pietro Marcello, documentarista campano trentenne, è un film inclassificabile, molto suggestivo e imperfetto, a metà strada tra documentario antropologico, ritratto biografico e finzione surreale. Una meditazione poetica con momenti bellissimi, immagini  forti, suggestive e allegoriche e grande sensibilità ambientale, nonostante una certa confusione narrativa e il montaggio incerto e precario curato da Sara Fgaier. La vicenda è ambientata nella provincia di Caserta, nella famigerata “terra dei fuochi”, un territorio vittima dello scempio causato dall’operato criminale dei clan della camorra. Il protagonista è un semplice pastore, il cinquantenne Tommaso Cestrone, che alcuni anni fa decise di occuparsi volontariamente della Reggia di Carditello, una sontuosa residenza di campagna dei reali borbonici abbandonata al degrado e al sistematico saccheggio (e solo  nel 2013 è stata acquistata dallo Stato con l’obiettivo, non ancora pienamente attuato, di un restauro conservativo e dell’apertura al pubblico come struttura museale).

 

Bella e Perduta Pietra Marcello

"Bella e Perduta" Pietra Marcello

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Marcello dà spazio alle motivazioni di Cestrone che racconta l’indifferenza delle autorità locali e di intellettuali, borghesi illuminati e giornalisti e le minacce e gli attentati vandalici subiti (danneggiamenti alla sua auto, incendio della roulotte dove dormiva e avvelenamento delle capre). Quindi documenta la sua attività di pulizia e di custodia del sito  a proprie spese, con l’aiuto di suo figlio. Ma poi  il pastore, proprio alla vigilia dell’intervento dello Stato, subì un infarto e morì. Marcello immagina che il suo protagonista lasci in eredità un giovane bufalo a cui aveva posto il nome di Sarchiapone. A questo punto il film si converte in una “parabola magica”. Compare un Pulcinella, storica maschera napoletana, che, obbedendo alle ultime volontà di Cestrone, preleva il bufalo per salvarlo e lo porta con sé viaggiando verso nord. Sarchiapone è un bufalo parlante (la voce è quella di Elio Germano) e si intende bene con Pulcinella. Ma i loro destini si divideranno. Marcello ha scritto, con la collaborazione di Maurizio Braucci, e diretto un’elegia ricca di significato, amara, ma non predicatoria. Ha voluto enfatizzare il ruolo degli umili onesti e la “saggezza” dei servi, utilizzando le metafore della maschera e dell’animale. Ha scelto di girare in pellicola con raffinate rielaborazioni digitali, curate in postproduzione dalla Cineteca di Bologna, alternando sequenze realistiche che ricordano il cinéma vérité e altre naturalistiche, ovattate e oniriche. Propone anche integrazioni con footage, materiali di repertorio e filmati amatoriali. Anche questo film, come il suo precedente La bocca del lupo (2009), la storia di un uomo, della sua compagna e della memoria di una città, è un’opera che mostra una spiccata valenza autoriale, personale, umanista e per nulla pretenziosa.

O Futebol Sergio Oksman

"O Futebol" Sergio Oksman

 

O Futebol, di Sergio Oksman, quarantenne brasiliano radicato definitivamente in Spagna da vent’anni, è un documentario atipico. Si tratta di un eccellente diario intimo riguardante la relazione tra un padre e un figlio che non si incontrano da molto tempo. Ma il film coglie anche pienamente la grave crisi identitaria e culturale che sta vivendo attualmente il Brasile. La vicenda coinvolge lo stesso regista e suo padre Simão, un settantenne che vive a São Paulo. Sergio (che assume anche la veste di narratore con frequenti commenti in voice over) decide di trascorrere un periodo con suo padre nella città dove è nato e dove ha trascorso la giovinezza.  Nel corso di un primo breve incontro nell’estate del 2013, dopo oltre vent’anni di lontananza, i due decidono di rivedersi nel giugno del 2014, durante Coppa del Mondo di calcio che si svolge in Brasile ed è stata preparata con enorme aspettativa di trionfo. Sergio spera di poter assistere alle partite con il genitore come avveniva quando era bambino ed insieme si recavano a vedere  la squadra paulista del Palmeiras.

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Il film descrive un padre e un figlio adulti a São Paulo durante un evento epocale per i brasiliani. Tuttavia, nonostante le giornate siano contrassegnate dalle  didascalie informative sugli incontri di cartello, il calcio giocato è praticamente invisibile e fin da subito  emerge la centralità della complessa vicenda esistenziale di Simão. È un uomo profondamente amareggiato, malinconico e a volte sarcastico, che si è rifugiato nel lavoro. Gestisce una piccolissima azienda di riparazione di apparecchiature elettroniche e biomedicali e si alza tutti i giorni alle sei del mattino. Quindi, pur essendo appassionato di calcio e ricordando perfettamente e di continuo la Coppa del Mondo del 1954 e quella del 1974, non ha tempo per assistere alle partite. Come moltissimi abitanti di São Paulo, la megalopoli capitale economica del Brasile (dove tutti lavorano, ma il costo della vita è più caro e dove si devono fronteggiare enormi problemi di disservizi e di traffico, oltre a un clima che garantisce almeno 250 giorni di pioggia all’anno), deve preoccuparsi di lavorare sempre per pagare i conti. Poco a poco emerge l’origine dell’infelicità di quest’uomo: si è separato dalla moglie dopo appena 5 anni di matrimonio e quindi ha vissuto in una stanza d’albergo per almeno 15 anni. Il figlio Sergio cerca di convincerlo ad assistere ad almeno una partita allo stadio, ma riesce solo ad ottenere di recarsi in auto con lui a guardare dall’esterno il grande nuovo impianto. Nel frattempo alcuni scorci ci mostrano la gente comune, i paulistanos che assistono alle partite nei bar e nei piccoli ristoranti, interessati solo alle “imprese” della nazionale verdeoro. Poi Simão subisce un infarto e viene ricoverato in terapia intensiva. Sergio va a trovarlo, ma il padre minimizza e sembra riprendersi. Nel frattempo la popolazione incredula assiste alla disfatta del Brasile, sconfitto 7 – 1 dalla Germania, umiliato ed escluso dalla finale. Ma poi Simão scompare dal film. Discretamente lo spettatore viene a sapere che è morto. Sergio guida l’auto del padre, girando a vuoto nella città. Poi mostra le poche cose che Simão conservava nel suo ufficio. Ma c’è ancora spazio per registrare la profonda antisportività dei brasiliani che, in strada e nei bar, esultano quando in finale l’Argentina è sconfitta dalla Germania che conquista la Coppa. Oksman ha raccontato con grande sensibilità una vicenda personalissima con esito tragico, ma, in nessun momento ha optato per il melodramma. Trattandosi di sé stesso e di suo padre riesce certamente a  mostrarci la loro rinnovata comprensione oltre il trauma della separazione, ma soprattutto ci racconta moltissimo sul Brasile. Ne emerge un Paese in cui, in generale, i padri e i figli hanno relazioni problematiche. Ma soprattutto chi viene dall’Europa (è il caso di Sergio) percepisce la triste situazione di un popolo chiuso in un universo culturale autoctono, con rituali e un immaginario immutabili, condizionato da assurdi trionfalismi e attualmente alla deriva, aggredito dalla crisi economica e dalla sfiducia di fronte alla corruzione dilagante. Dai discorsi di Simão si  notano assurdi pregiudizi e lo scetticismo verso tutto ciò che va oltre la sua quotidianità: gli altri popoli e gli altri Paesi sono entità curiose, strane o incomprensibili. Un piccolo film, semplice, onesto e genuinamente emozionante, con una messa in scena calibrata e curata e un approccio chiaramente finzionale, nei limiti del possibile.

No home movie, di Chantal Akerman, è un documentario semplice e raffinato al tempo stesso. Offre il ritratto dell’anziana madre della regista, una donna forte e coraggiosa, nei mesi precedenti la sua scomparsa. Un’opera atipica, in cui l’atto di filmare in condizioni diverse e con mezzi diversi costruisce, proprio attraverso la discontinuità, una originalissima comunicazione madre - figlia che ottiene il risultato di conferire spessore alla memoria e ai ricordi. In effetti la Akerman combina lunghe sequenze girate nel confortevole appartamento borghese di Bruxelles, dove vive sua madre (o meglio dove la vecchiaia l’ha confinata) e dove con lei intavola conversazioni sul passato e sulla quotidianità  del presente, e frequenti conversazioni via skype in cui  comunica con  lei mentre si trova all’estero, a Los Angeles o al Festival di Venezia. L’anziana donna, sollecitata dalla figlia, si racconta, con un meccanismo di rivelazione progressiva.

 

No home movie Chantal Akerman

"No home movie" Chantal Akerman

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Ricorda la sua infanzia in una famiglia ebrea costretta a fuggire dalla Polonia nel 1938 per evitare i pogrom. Approdati in Belgio e incapaci di valutare il pericolo incombente del nazismo furono deportati in campo di concentramento ad Auschwitz. Ma non si tratta di una cronaca arida. Da un lato si nota la difficile ricerca di empatia tra madre e figlia. Ma dall’altro le sensazioni emergono negli interstizi del non detto, osservando questa donna dignitosa che si aggira nelle stanze dell’appartamento o viene accudita dalle badanti, fino alle pudiche sequenze in cui è immobilizzata su una chaise longue e  si esprime a fatica. Akerman ha realizzato un film, prevalentemente in interni, alternando molte inquadrature fisse e vari piani sequenza contemplativi. Ha riproposto, attraverso una sottile combinazione di segni e di dettagli, molti motivi della sua poetica (presenti nei suoi film più riusciti, ad esempio Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles del 1975 e Là-bas del 2006): la solitudine, l’isolamento, lo sradicamento e il vuoto esistenziale.  In effetti riconosce apertamente che sua madre è stata una fonte di ispirazione per molti dei suoi film, avendo sempre tenuto presente l’esperienza della prigionia ad Auschwitz a cui la donna è sopravvissuta. In questo senso il film va oltre (e  probabilmente rifiuta) la rappresentazione intima di una relazione madre - figlia, assumendo piuttosto la connotazione della registrazione di una quotidianità solo apparentemente tranquilla e pacifica e funzionando come strumento di auto riflessione. Non è solo la madre che racconta di sé, ma è anche la figlia, spesso assente e lontana, che ne testimonia, e ne ricorda con affetto, la presenza attraverso immagini di una vita che si sta esaurendo, catturate prima che sia troppo tardi, e alternate a paesaggi disabitati (quelli visti dalla Akerman nel corso dei suoi viaggi e  ripresi nelle videoinstallazioni presentata alla Biennale Arte di Venezia).

Dark In the White Light " Vimukthi Jayasundara

"Dark In the White Light " Vimukthi Jayasundara

 

Sulanga gini aran (Dark In the White Light), quarto lungometraggio del trentenne cingalese Vimukthi Jayasundara, prosegue coerentemente l’itinerario poetico ed estetico dei suoi   film precedenti (The forsaken land del 2005, Between Two Worlds del 2009 e Mushrooms del 2011). Vale a dire che il regista  manifesta, in una forma molto personale, la volontà  di  rappresentare i devastanti effetti delle divisioni politiche, e del conflitto bellico che  ha dilaniato per decenni lo Sri Lanka, sulla psiche e sull’esistenza di persone comuni. Il film propone un clima diffuso di prevaricazione e di violenza, descrivendo quattro personaggi controversi sul piano esistenziale e morale: un giovane monaco buddhista in cerca di verità spirituali; uno studente  di medicina che testa i suoi limiti; un losco trafficante di organi; un chirurgo apparentemente stimato, ma in realtà complice del trafficante e cinico stupratore seriale di donne indifese adescate durante escursioni notturne a bordo di un’auto costosa guidata dal suo domestico - autista.

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Attorno a loro i paesaggi e la società sembrano caratterizzati da un clima di indifferenza. Siamo di fronte a un dramma atipico ed enigmatico, con tinte surreali e filosofiche. Jayasundara costruisce un puzzle di personaggi e di situazioni. Opta per il minimalismo e la frammentazione narrativi, mescolando immagini dei corpi, rese dalla magnifica fotografia di Channa Deshapriya e improntate a un crudo realismo, meditati long takes, scarsi movimenti di macchina e scene stilizzate di violenza e di disperazione. La narrazione  configura dilemmi cruciali, sulla vita, sulla morte e sul dolore e offre allo spettatore vari spunti provocatori, senza  spiegare nulla, né proporre risposte, ma anche senza indulgere in sterili simbolismi. Emerge l’alienazione dei personaggi rispetto all’ambiente circostante, ma anche la loro incapacità nell’assumere comportamenti univoci e la loro sofferenza che li porta all’omicidio o alla perdizione autodistruttiva. Il ritmo del film è sincopato, con effetti ipnotici e stranianti. Ne deriva una continua tensione emotiva che si stempera solo in un finale affabulatorio.

Schneider vs. Bax, del sessantenne olandese Alex van Warmerdam, è un thriller atipico, o meglio una tragicommedia nera, buffa e crudele, molto intelligente, divertente ed efficace. Il regista ripropone coerentemente tematiche e stile già presenti nei suoi due lungometraggi più recenti, decisamente riusciti: The last days of Emma Blank (2009) e Borgman (2013). Il suo cinema dissacrante, alla cui origine vi sono felici esperienze teatrali negli anni ’70 e ’80, mescola  abilmente comicità e crudeltà, farsa e suggestioni horror, dolore e vitalismo, senza riferimenti a un qualsiasi ethos. Offre un quadro caustico ed efficace delle contraddizioni di classe, delle questioni del potere e degli elementi di avidità e di ipocrisia presenti in una società capitalisticamente avanzata che dovrebbe essere egemonizzata da una borghesia avveduta e moderna. Il film configura un gioco perverso di prede e predatori, che si scambiano continuamente i ruoli, orchestrato da un improbabile burattinaio che sarà egli stesso vittima della propria macchinazione.

 

Schneider vs. Bax Alex Van Warmerdam

"Schneider vs. Bax" Alex Van Warmerdam

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Schneider (Tom Dewispelaere) è un sicario quarantenne. L’uomo si presenta come un tranquillo piccolo imprenditore borghese e nasconde la sua attività alla bella moglie Lucy che lo adora e che lo circonda di attenzione e ai suoi incantevoli bambini, nonché ad amici e conoscenti. Il giorno del suo compleanno riceve una chiamata da Mertens, che ha un incarico per lui. Schneider  vorrebbe rifiutare perché ha promesso alla moglie di aiutarla con i preparativi della festa. Mertens assicura che si tratta di un lavoro importante e facile: l’obiettivo è Ramon Bax (lo stesso regista), uno scrittore sessantenne che vive da solo in un piccolo  cottage isolato in una zona di laghi e paludi. Il killer accetta l’ingaggio. Bax, dal canto suo, si sta riprendendo da una nottata a base d alcool e sostanze stupefacenti. In un lampo di lucidità, si ricorda che sta per arrivare la figlia e mette alla porta senza tanti complimenti la sua amante, Nadine. Quindi arriva Francisca, una trentenne depressa e infelice. Non sapendo come soccorrere la figlia, per tirarla su il padre le offre vari farmaci e droghe, ma la donna è contraria ad assumerli. Nel frattempo lo stesso Mertens avvisa Bax dell’arrivo di Schneider e gli chiede di uccidere il sicario. Quindi inizia la rocambolesca sfida tra i due uomini. Rispetto ai suoi film precedenti già citati Alex van Warmerdam ha contenuto i motivi surreali e connotato gli elementi bizzarri in termini certamente caricaturali, ma più squisitamente assimilabili a tipici aspetti  antropologici e culturali della classe media olandese. Tutti i personaggi nascondono piccoli segreti e dimostrano  uno spiccato egocentrismo e una dissociazione a livello affettivo ed emotivo. Peccato che l’epilogo del film risulti un poco affrettato e pasticciato, essendo troppo condizionato dai canoni del genere thriller. Nel complesso Van Warmerdam dimostra di aver ben compreso la lezione di Ionesco e del “Teatro dell’Assurdo”, reinterpreta i clichés e gioca brillantemente sugli equivoci, seguendo un’ispirazione di fondo, la satira sociale che si avvale di elementi del genere noir, ed evitando gli inutili psicologismi. La sua messa in scena è accurata e presenta ottime soluzioni creative,  esilaranti sorprese e gustosi dialoghi che mescolano humour caustico e insensatezza.

Thithi Raam Reddy

"Thithi" Raam Reddy

 

Da segnalare un paio di film della sezione “Cineasti del Presente”. Thithi, opera  di esordio del venticinquenne indiano Raam Reddy, ha ottenuto sia il Pardo d’Oro al miglior film di questa sezione sia lo Swatch First Feature Award, Premio per la miglior opera prima, considerati i lungometraggi di esordio di tutte le sezioni. Si tratta di una commedia intelligente e brillante, percorsa da uno humour molto gustoso, che cattura con genuinità costumi e comportamenti dell’India rurale. In effetti il film, parlato in lingua kannada, è ambientato in un villaggio del Karnataka, il grande stato dell’India meridionale. La vicenda si sviluppa al momento della morte improvvisa del patriarca di una famiglia di contadini: Century Godda, il bisnonno, è scomparso alla veneranda età di 101 anni. I suoi discendenti maschi, il figlio, il nipote e il pronipote reagiscono in modi diversi all’evento.  Il figlio maggiore Gadappa è un ometto anziano che non ha mai lavorato e ama manifestare la sua indole pacifica e anarcoide: passeggia serenamente  nei campi  mendicando i famosi bidi  che fumaaccanitamente e sorseggiando whisky e brandy.

Reagisce con indifferenza alla notizia della morte del padre e fa attendere tutto il villaggio nel momento di  dare avvio alle celebrazioni funerarie e alla cremazione, compito che spetta proprio a lui. Intanto Thamanna,  suo figlio, un tipo meschino e materialista, cerca di vendere illegalmente i cinque acri di terreno appartenuti a Century Gowda, sebbene la proprietà sia ora passata a suo padre. Il figlio di Thamanna, Abhi, è invece un adolescente sfrontato e irresponsabile, occupato solamente a corteggiare una bella coetanea. Il film segue i tre personaggi principali articolandosi in vari episodi che ne coinvolgono altri.  Poco a poco scaturisce un ricco quadro di relazioni e di aneddoti. Le varie  vicende si intrecciano fino a  culminare nel Thithi di Century Gowda,  l’ultimo rituale funebre fune­bre in cui la fami­glia, a undici giorni dalla morte di un parente, invita tutto il vil­lag­gio a una cele­bra­zione che  pro­pizi  il futuro del defunto. Raam Reddy ha dimostrato di aver appreso la miglior tradizione autoriale del cinema indiano, coniugando un fresco neorealismo e un’intelligente, precisa e specifica rappresentazione antropologica, sociale e caratteriale, senza scadere mai nel bozzettismo. Configura una parabola vitale, che fonde naturalmente  comicità e dramma popolari, semplice e raffinata, priva di qualsiasi accezione allegorica o moralistica e animata da un cast di magnifici attori non professionisti.

Le grand jeu, opera prima  scritta e diretta da Nicolas Parisier, francese appena quarantenne, è un thriller - noir a a sfondo politico molto intrigante. Un film per il grande pubblico, ma costruito con intelligenza, reinterpretando i canoni del genere e senza proporre viziose soluzioni di maniera o sorprese strumentali. Al centro della vicenda vi è Pierre Blum (Melvil Poupaud) uno scrittore  quarantenne che dopo il primo romanzo di successo dedicato alla generazione dei militanrti contro la globalizzazione, pubblicato nei primi anni duemila, si trova in un’impasse esistenziale e creativa e lascia che sua vita vada alla deriva. Dopo oltre 10 anni, ormai divorziato e  ridotto a vivere in una  squallida soffitta, incontra casualmente ad un party Joseph Paskin (André Dussollier) un sessantenne elegante, misterioso, e carismatico. L’uomo che ammette di essere un “facilitatore” di manovre e intrighi tra corpi dello stato, servizi segreti e potentati economici a livello internazionale, convince, con abili lusinghe, Pierre a diventare il ghost writer  di un saggio politico “scomodo” e provocatorio.

 

Le Grand Jeu Nicolas Parisier

"Le Grand Jeu" Nicolas Parisier

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Il libro, edito in forma che l’autore resti anonimo, ottiene vasta risonanza. È un inno alla rivolta e, uno strumento per una guerra politica che Pierre non conosce e, soprattutto, non può controllare. Ben presto il protagonista  intuisce che Joseph non l’aveva cercato casualmente. Capisce di essere stato manipolato e di essere in pericolo e cerca, senza convinzione, di opporsi a un destino inesorabile. Esitante e  indeciso, accetta infine di rifugiarsi in campagna presso una comunità di ecologisti radicali e  intreccia una liason con Laura (Clémence Posey), una trentenne affascinante e sicura di sé che  sembra volerlo aiutare. La suspence incalza fino ad un epilogo inquietante proprio perché lascia solo intuire i contorni del mistero. Nicolas Parisier intreccia abilmente motivi politici che risultano molto attuali (ricordano dossiers e scandali oscuri, sordidi e irrisolti, anche per le omissioni dello stato e della polizia e dei servizi segreti, avvenuti in Francia e in Italia, che ci sono familiari) e la descrizione malinconica e non retorica delle carenze e dello sradicamento di una generazione di quarantenni, già attivi politicamente, e bruciati dal confronto con  i giochi del potere. Da un lato si notano preziosi riferimenti estetici e scenografici ai noirs classici del cinema francese degli anni ’70 e al cinema di Chabrol e di Ozon, dall’altro emerge un approccio moderno che ricorda, pur con le dovute differenze, El Estudiante, l’ottimo film di esordio dell’argentino Santiago Mitre, laddove si punta sulla contrapposizione tra la soggettività del protagonista, che vive emozioni contrastanti, e l’ambivalenza dei personaggi che lo circondano. Parisier dimostra grande sicurezza nell’orchestrare un film di atmosfere, con una messa in scena accurata e una felice combinazione di ritmi, e  nel dirigere un cast di ottimi attori rouge

 

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68. FESTIVAL INT. DEL FILM DI LOCARNO

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05 - 15 / 08 / 2015

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