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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 68. CANNES FILM FESTIVAL 2015 I VINCE IL CINEMA FRANCESE I DI GIOVANNI OTTONE I 2015

FESTIVAL DI CANNES 2015

 

vince il cinema francese,
ma l’ossessione di premiare i temi “sociali” non convince

 

 

DI GIOVANNI OTTONE

"Dheepan" di Jacques Audiard

Cannes 2015

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Il Palmarès del Festival di Cannes 2015 denota una tendenza molto negativa. Per la prima volta da anni si sarebbero verificate interferenze significative da parte dei vertici del Festival. Secondo indiscrezioni di stampa (ad esempio il quotidiano francese Libération) il nuovo Presidente Paul Lescure, fondatore di Canal +, nonché amico personale del Presidente della Repubblica François Hollande e il Delegato Generale Thierry Fremaux, avrebbero condizionato pesantemente la Giuria, presieduta dagli accondiscendenti noti registi americani, i fratelli Joel e Ethan Coen. Vi sarebbe stato l’invito a premiare con la Palme d’Or “un film con valenze universali, che desse un messaggio sociale positivo e federativo, ovvero unanimemente condivisibile”. D’altronde è noto che la Presidenza di Hollande, un politico indeciso, ondivago, presuntuoso e incapace, ha portato la Francia ad una stagione di crisi politica, sociale ed economica piuttosto preoccupante rispetto all’ambizione del Paese a livello internazionale. Inoltre secondo un’inchiesta divulgata proprio il 24 maggio da TF1, il più seguito canale televisivo francese, i francesi considererebbero il  Festival di Cannes inaccessibile, per il 76%, ed élitista per il 73% degli intervistati. Peraltro tale valutazione è contestabilissima considerato l’ampio accesso alle sale di Cannes, dove si svolgono le réprises di tutti i film delle varie sezioni del Festival, garantito alle migliaia di spettatori che acquistano i biglietti o ottengono facilmente l’accredito presso le associazioni dei cinéphiles.

Ne risulta che i vertici del Festival di Cannes si sono fatti carico di un’urgente necessità politica di rendere il Festival più “popolare” presso l’opinione pubblica nazionale e di garantire un’affermazione del prodotto culturale francese (e si deve aggiungere una  cerimonia di premiazione che è sembrata una brutta parodia degli Oscar di Hollywood e, per di più, presentata tutta in lingua francese senza traduzione, stile “cortile di casa”). Fremaux ha quindi  inserito nella Competizione Ufficiale ben cinque lungometraggi di registi francesi, oltre ai molti altri lungometraggi con co-produzione francese. Poi la Giuria ha emesso il suo verdetto: un Palmarès in cui si nota un filo rosso di riconoscimento e valorizzazione di film con tematiche “sociali” e “umanitarie”. In effetti ben 3, dei 7 Premi da attribuire ai lungometraggi, sono andati a film francesi, ampiamente inquadrabili nella categoria “cinéma grand publique”: Palme d’Or, miglior film a Dheepan di Jacques Audiard; miglior interpretazione maschile a Vincent Lindon, protagonista di La loi du marché di Stéphane Brizé; miglior interpretazione femminile ex-aequo a Emmanuelle Bercot, protagonista di Mon roi, di Maïwenn. Dheepan è una parabola esistenziale non priva di una buona descrizione psicologica della coppia di protagonisti, un uomo e una donna trentenni di etnia Tamil, fuggiti insieme a una ragazzina dalla terribile guerra etnica in Sri Lanka, che si fingono coniugi e approdano in una squallida banlieu parigina dominata dalle gangs violente dei trafficanti di droga. Tuttavia Audiard, pur superando il grossolano approccio paradigmatico del suo precedente De Rouilles et d’os (2012), caratterizzato da una spiccata strumentalità delle situazioni rappresentate che punta a suscitare facili emozioni nello spettatore e da con un ritratto antropologico deviante che enfatizza una subcultura e una (a)moralità di matrice sottoproletaria caratterizzata da valori vitalistici “forti”, indulge ancora troppo nelle soluzioni stereotipate, ad effetto o moralistiche e nello scontato e ambiguo modello dell’eroismo virile.

Cannes 2015

"Mon roi" Maïwenn

 

Mon roi, uno dei peggiori film del Concorso, è un melodramma stiracchiato, verboso, mal recitato e pieno di situazioni prosaiche. Un film prolisso che racconta, con fastidiosa mancanza di distanza e concitazioni paradossali, non emozionandoci mai, il doloroso itinerario di una quarantenne sposata per amore a un individuo narcisista, megalomane e fedifrago. La loi du marché è un dramma sociale che percorre il deprimente itinerario di ricerca di un lavoro da parte di un cinquantenne, operaio carrellista in un ipermercato, rimasto disoccupato con un figlio disabile a carico. Un film che ripropone, con minor efficacia, una storia simile a Deux jours, une nuit (2014), dei fratelli belgi Jean-Pierre & Luc Dardenne, un dramma esistenziale a forte valenza sociale con al centro la perdita del lavoro. Anche Brizé, come i Dardenne, opta per il racconto artificioso, sconfinando in un moralismo umanitario didascalico piuttosto univoco, sterile e retorico e rinunciando a confezionare un vero thriller dell’anima. Un film ben lontano da precedenti ben più efficaci e credibili sullo stesso tema come Ressources humaines (1999) e L’emploi du temps (2001), di Laurent Cantet.

Altri 2 Premi sono stati attribuiti a due film di autori nati negli anni ’70, esordienti nel Concorso Ufficiale. Due riconoscimenti di cui si stenta a credere perché del tutto dissonanti rispetto al valore dei film. Il Premio della Giuria è andato allo pseudo provocatorio, pasticciato, noioso e ricattatorio The Lobster del greco Yorgos Lanthimos, che conferma il suo gusto a favore di una certa “pornografia della violenza” e il suo humour paradossale piuttosto penoso. Propone una  parabola su una futuristica società distopica che perseguita i singles. Un film con un cast di star internazionali probabilmente valorizzato con lo scopo di sostenere un altro Paese colpito pesantemente dalla crisi economica. Il Premio alla miglior sceneggiatura è stato assegnato al messicano Michel Franco per il suo Chronic, un compitino appiattito su noti stereotipi tematici di Hollywood, costruito sulla presenza e sulla  recitazione, troppo narcisista ed enfatica, di Tim Roth ed evidentemente apprezzato per il suo profilo “umanitario” e forse anche per il finale moralistico. Anche il Premio all’interpretazione femminile ex-aequo a Rooney Mara, per Carol, dell’americano Todd Haynes, che esclude inesplicabilmente dal riconoscimento la co-protagonista del film Cate Blanchett, è una bizzarria. Un Premio che comunque non valorizza affatto uno dei migliori film del Concorso, un melodramma d’epoca, con fine disanima psicologica dell’universo femminile e del contesto sociale e culturale  nella New York degli anni ’50, che ripropone la qualità del precedente film di Haynes, Far from Heaven (2002).

Cannes 2015

Regista Hou Hsiao-Hsien

 

A contraltare, il Premio alla miglior regia al taiwanese Hou Hsiao-hsien, autore di un film, co-prodotto dai cinesi, esteticamente magnifico e con una messa in scena di gran valore, seppur con un plot contraddittorio e poco credibile. Tuttavia questo riconoscimento è probabilmente anche un omaggio alla forza economica dell’industria cinematografica cinese come lo fu l’Orso d’Oro della Berlinale 2014. E comunque Il Premio alla miglior regia si poteva tranquillamente  attribuire con pieno merito anche a Jia Zhang-ke o a Paolo Sorrentino o a Todd Haynes, in una ipotetica classifica di merito.  In quanto al Gran Premio della Giuria all’unica opera prima del Concorso, Saul Fia, del trentenne ungherese László Nemes, si tratta di un film che non poteva essere ignorato. In effetti è un’opera che ha messo d’accordo pressoché unanimemente la maggioranza della critica e il pubblico per la sua originalissima rappresentazione del contesto dei campi di concentramento nazisti con una messa in scena davvero notevole.

In sostanza la Giuria, presieduta dai Coen, ha completamente ignorato quelli che a nostro giudizio sono stati i migliori film del Concorso. Una selezione competitiva che comunque, pur promuovendo diverse nuove entrées di registi più giovani, alcuni dei quali in passato ospitati solo nella sezione “Un Certain Regard” del Festival, è stata qualitativamente inferiore, in termini di genuino cinema d’autore, rispetto alle ultime edizioni degli scorsi anni del Festival. Sono stati evidentemente non apprezzati altri film, più o meno riusciti, che hanno posto al centro i temi dei legami di famiglia e della lealtà verso chi si ama, spesso fornendo approcci e letture realmente originali e inserite nella complessa dialettica dell’epoca contemporanea. Ci sembra quindi assurdo aver escluso dal Palmarès, nell’ordine di valore, i seguenti film.

Cannes 2015

"Youth", Paolo Sorrentino

 

Mountains may depart, del cinese Jia Zhang-ke, un quasi capolavoro, melodramma emozionante, con magistrale messa in scena e fotografia, squisita costruzione drammatica dei personaggi protagonisti, intimamente sofferenti per la conseguenza delle loro azioni, e lucida capacità di evidenziare i gravi squilibri nella vita della gente comune dovuti al vertiginoso sviluppo economico distorto e alla globalizzazione in Cina. Youth, dell’italiano Paolo Sorrentino, un affresco di personaggi che ripropone, con maggior controllo, la fine “cultura pop” dell’autore e l’approccio e lo stile de La grande bellezza. Un film caratterizzato da umorismo finissimo, felice creatività di situazioni e immagini, ottima direzione degli attori (Harvey Keitel e soprattutto Michael Caine sono eccellenti, molto superiori a Vincent Lindon che in

Cannes 2015

"La loi du Marché", Stéphane Brizé

 

La loi du marché ha sempre la stessa espressione), messa in scena matura e originale e editing eccezionale. Purtroppo si deve ricordare anche la feroce e volgare campagna mediatica, costruita su anacronistiche o aprioristiche valutazioni morali denigratorie nei confronti di Sorrentino e del suo cinema, inscenata, durante il Festival, da buona parte dei critici italiani e da giornali e riviste francesi tra i più blasonati, come Libération, Les Inrockuptibles e i Cahiers de Cinéma. Umimachi Diary, del giapponese Kore-eda Hirokazu, un dramma familiare intimista che ripropone temi e atmosfere presenti nei suoi precedenti film e descrive, con delicatezza mai retorica, il complesso processo di avvicinamento tra le quattro donne protagoniste. Un’opera che riecheggia i ritmi, la narrazione tra le linee e l'umanesimo del maestro Yasujiro Ozu e, in sintesi, ci parla di nostalgia e di rimpianto e dei momenti della vita, indicandocene significato e caducità. Un film con una scelta dei tempi delle inquadrature e un montaggio magistrali.

Cannes 2015

"Hrutar", Grimur Hakonarson

 

Anche il Palmarès della sezione “Un Certain Regard”, attribuito dalla Giuria presieduta da Isabella Rossellini, mostra più ombre che luci. Il Premio Un Certain Regard al miglior film è andato a Hrútar (Rams), dell’islandese Grímur Hákonarson, una commediola davvero mediocre, con una comicità scontata e un profilo di buoni sentimenti e di relazione amorevole tra uomini e montoni. Il Premio della Giuria è stato assegnato a Zvizdan, del croato Dalibor Matani?, un film dignitoso, ma modesto, che riunisce tre storie di amori proibiti,  durante tre decadi, ambientate in due villaggi di confine dove domina il conflitto interetnico tra serbi e croati. Il Premio al miglior regista è stato assegnato al giapponese Kiyoshi Kurosawa per Journey to the shore, un originale melodramma che si basa sulla relazione tra una trentenne e il fantasma del marito annegato che ricompare e la conduce in un viaggio in luoghi diversi che è una peregrinazione spirituale.

Un film con regia, atmosfere e direzione degli attori di buona qualità, ma che perde di intensità a causa di elementi prolissi. Il Premio Un Certain Talent è andato a Comoara (Treasure), del romeno Corneliu Porumbuiu, una co-produzione Romania - Francia. Una favoletta moderna, del tutto mediocre e a tratti irritante, costruita per accattivare il pubblico. Il Premio de l’Avenir è stato assegnato ex-aequo a due opere prime: Nahid, dell’iraniana Ida Panahandeh, un ritratto femminile drammatico dove purtroppo i personaggi sono  inquadrati in modo troppo unilaterale e la protagonista sembra più vittima della propria irresponsabilità e incapacità di decidere che del maschilismo dominante; Masaan, dell’indiano Neeraj Ghaywan, un convincente dramma esistenziale che mette ben a fuoco le contraddizioni nell’India attuale tra discriminazioni di casta, pregiudizi, corruzione e contrasti culturali nelle famiglie e tra le generazioni. Purtroppo la Giuria ha ignorato altri film molto significativi di questa sezione. Taklub, del filippino Brillante Mendoza, vero erede del grande Lino Brocka, è un film eccezionale, a metà strada tra il cinéma vérité, il documentario sociale e il melodramma. Una storia che sintetizza, con una lucidità straordinaria,  la tragedia di milioni di filippini  la cui vita è perenne dolore e resistenza alla disperazione. Un'opera in presa diretta, secca, genuina, umanissima e visivamente grandiosa. Chauti Koot (The Fourth Direction), dell’indiano Gurvinder Singh, è un notevole dramma - thriller a sfondo politico, ambientato nel Punjab, durante gli anni ’80, all’epoca della dura tensione tra Hindus e Sikhs. Un film che configura magistralmente, con ottima regia, un clima di paura e paranoia nella gente comune vessata dai gruppi di guerriglieri Kalistani Sicks e dai militari delle forze speciali indiane. One floor below, del romeno Radu Muntean, è un convincente thriller che evidenzia lucidamente le contraddizioni patologiche nei comportamenti delle persone tuttora presenti in Romania, residuo di decenni di regime dittatoriale comunista. Shameless (Mu - Roe - Han), del coreano Oh Seung-uk, è un thriller sporco, duro eriuscito. E anche un melodramma, dominato dalle passioni, in cui alla fine i due protagonisti sono entrambi  perdenti. Un film che ripropone con originalità i canoni del genere, costruendo con cura un epilogo potente intriso di romanticismo beffardo. The other side, dell’italiano Roberto Minervini, girato in Louisiana, è un eccellente dramma esistenziale, una contaminazione tra documentario e finzione. Un film che mostra, con eccezionale empatia, ma senza retorica o manipolazione, la disperazione esistenziale di individui consumati dalla dipendenza dalle amfetamine o intrappolati nella subcultura dell’assedio da parte di un ipotetico nemico istituzionale da fronteggiare con il continuo allenamento militare. La faccia oscura degli Stati Uniti filmata con una regia magnifica e una qualità estetica strabiliante. In quanto invece a Cemetery of splendor, del thailandese Apichatpong Weerasethakul, si tratta di un film con grandi valori estetici in termini di atmosfera, regia e fotografia, ma la storia che propone, basata su un complesso e spesso criptico racconto di contaminazione tra sogno e realtà, tra visioni, miti e riti magici, risulta in gran parte oscura e irrisolta.

Di seguito i nostri giudizi estremamente sintetici e in molti casi negativi, sugli altri film presenti nelle tre sezioni della selezione ufficiale.

SEZIONE “COMPETTION OFFICIELLE” :

Cannes 2015

"Mia Madre", Nanni Moretti

 

La tête haute (fuori concorso), di Emmanuelle Bercot, è un dramma sociale, piuttosto grossolano, che inneggia al sistema  della giustizia francese dedicato al recupero di giovani delinquenti. Il racconto dei racconti, di Matteo Garrone, è un fantasy falso barocco che oscilla malamente tra richiami a Cronenberg e a Monicelli, con trovate di dubbia creatività, cast internazionale e parlato assurdamente in inglese, facendo scempio del suo riferimento letterario: un film sbagliato e pretenzioso. Mia madre, di Nanni Moretti, è un film confuso e mal montato, che mescola precariamente autobiografia, commedia, temi sociali e dramma familiare. The sea of trees, di Gus van Sant, ambientato ai piedi del Monte Fuji, in Giappone (ma girato in Massachussetts), è un dramma esistenziale pasticciato, poco credibile e pieno di stereotipi.

Louder than bombs, di Joachim Trier, è un dramma  familiare girato negli USA con cornice psicologica molto precaria, appiattito su schemi e tematiche tipiche di Hollywood, tra lutto, ostilità latenti e sensi di colpa. Sicario, di Denis Villeneuve, è  un discreto film di genere thriller poliziesco, scorrevole e ben girato, ma con evidenti limiti nel plot e nella recitazione degli attori. Marguerite e Julien, di Valérie Donzelli, è una favola sull’incesto con mescolanza di epoche storiche, non priva di idee nella messa in scena, ma troppo dispersiva e irregolare: un tentativo volonteroso, ma non riuscito. Valley of love, di Guillaume Nicloux, è un dramma esistenziale, molto pretenzioso e poco convincente, sul senso di colpa di due maturi genitori entrambi attori (Gérard Depardieu e Isabelle Huppert, non proprio a loro agio), convocati nella Death Valley californiana da una lettera del figlio morto suicida, che assicura loro un incontro per una catarsi parapsicologica. Macbeth, di Justin Kurzel, ennesimo adattamento della tragedia di Shakespeare, con ambientazione e costumi verosimilmente in tono con l’epoca storica e dialoghi  che riproducono quelli del testo letterario, è troppo decorativo e precariamente stravolgente rispetto alla figura di Lady Macbeth (Marion Cotillard quasi grottesca).

SEZIONE  “HORS COMPETITION et SEANCES SPECIALES”:

Mad Max: Fury Road, di George Miller è un western post apocalittico mozzafiato, del tutto geniale in termini di rilettura del canone dell’eroe solitario coreografie action, uso del paesaggio, montaggio, e soprattutto non è un banale remake  di nessuno dei della precedente omonima trilogia (1979, 1981 e 1985). A tale of love and darkness, di Natalie Portman, dignitoso, non manicheo e parlato in ebraico, ma piuttosto accademico e abbastanza convenzionale, adatta l’omonimo romanzo di Amos Oz e ricrea Gerusalemme all’epoca della nascita dello stato di Israele. Amy, di Asif Kapadia, è un documentario straordinario su Amy Winehouse, una  fra i cantanti e gli autori di jazz - blues più dotati e innovativi dell' ultimo decennio: un'opera molto viva e venata di malinconia. Oka, di Souleymane Cissé, è un ottimo documentario che propone una genuina ricostruzione della storia e dell’eredità culturale della famiglia dell’artista stesso.

SEZIONE “UN CERTAIN REGARD”:

An, di Naomi Kawase, è un melodramma fastidiosamente edificante, narcisista e manierista, pseudo poetico e pretenzioso. chiaramente volto a commuovere il pubblico, ma sostanzialmente poco credibile e superficiale nella riproposizione dei temi abituali: la vita e la morte, la simbiosi tra uomo e natura, la memoria di un luogo. Las elegidas, di David Pablos,  offre il ritratto di un’adolescente forzata alla prostituzione con l’inganno della seduzione da parte di un giovane appartenente a una famiglia - gang criminale: riecheggia Amat Escalante proponendo un dramma crudo e iperrealista, con al centro lo stravolgimento delle relazioni umane e dei desideri, ma si perde in una deriva consolatoria e moralista. Alias Maria, di José Luis Rugeles Garcia, propone il ritratto drammatico di una guerrigliera quattordicenne delle FARC rimasta incinta e determinata a non abortire: un’opera realista con un buon ritmo, ma non priva di incongruenze e stereotipi. Madonna, di Shin Su-Won, è un dramma- thriller ospedaliero, greve e retorico, controverso e pasticciato.

Cannes 2015

"L'ombre des Femmes" Philippe Garel

 

Per quanto riguarda le Sezioni “Quinzaine des Réalisateurs” e “Semaine de la Critique” si rimanda ai film recensiti nelle seguenti schede di approfondimento. Tuttavia restano anche da segnalare altri 5 film  nella “Quinzaine. L’ombre des femmes, di Philippe Garrel, è un convincente film sull’amore e sul tradimento in una coppia di poveri artisti del cinema, un’opera venata da fine autoironia, con una messa in scena classica e originale al tempo stesso. Trois souvenirs de ma jeunesse, di Arnaud Desplechin, che ha ottenuto il Premio della SACD, propone il ritratto esistenziale di tre epoche della vita di un intellettuale, riecheggiando Truffaut, ma perdendosi in una rappresentazione fragile e verbosa dell’identità giovanile, tra suggestioni di maniera e abortiti toni poetici.Peace to us in our dreams, di Sharuna Bartas, è un dramma coniugale con tinte thriller, ricco di atmosfere, simbolismi, risvolti psicologici e speciale rapporto con la natura e, quantunque molto lento e piuttosto irrisolto, caratterizzato da un’emozionante messa in scena che riecheggia Tarkovski.

Much loved, di Nabil Ayouch offre il ritratto di un gruppo di giovani prostitute di Marrakech  che si sforzano di vivere la loro condizione con disinvolta leggerezza, ma scivola nei toni di maniera e nel dramma che si avvita su sé stesso. Green room, di Jeremy Saulnier, è un thriller claustrofobico, crudo e sporco che propone il ritratto dell’altra faccia degli USA, quella delle gangs di neonazisti che sfruttano il rock duro e lo smercio di droghe per attirare i giovani: un film che propina dosi di horror e suggestioni pulp, meno riuscito del suo precedente Blue ruin (2013), ma abbastanza efficace nei meccanismi della suspence. E ancora un film della “Semaine”. Coin locker girl, di HanJun-Hee, è un thriller claustrofobico, duro e torbido e  disperato nei risvolti psicologici, ambientato nella Chinatown della città costiera di Incheon, in Sud Corea: un esordio maturo con ottima e originale rielaborazione dei canoni del genere.


Infine  le nostre schede critiche di approfondimento di vari film di tutte le sezioni del Festival.

 

SEZIONE QUINZAINE DES REALISATEURS

SEZIONE COMPÉTITION OFFICIELLE

MOUNTAIN MAY DEPART,  di di Jia Zhang-Ke (Cina)

UMIMACHI DIARY, di Kore-eda Hirokazu (Giappone)

THE ASSASSIN, di Hou Hsiao-Hsien (Taiwan), Prix Best Director

Melodrammi orientali
Legami di famiglia e lealtà verso chi si ama nel mondo cinese e giapponese

Nella concorso ufficiale tre autori tra i più eminenti e caratterizzati del cinema cinese e giapponese attuale ne confermano la vitalità e la qualità sia narrativa che estetica. Le loro opere configurano eccellenti melodrammi, più profondi e moderni di molti film d'autore europei e americani, anche laddove la valenza viene occultata nelle pieghe di un cinema di genere, come nel caso di The assassin, di Hou Hsiao-Hsien. Inoltre i tre film mostrano un comune filo rosso che riguarda alcuni temi fondamentali delle pur diverse tradizioni culturali cinese e giapponese: l'importanza dei legami familiari e della lealtà verso chi si ama, parenti o amici. In aggiunta si segnalano gli intrecci di collaborazione molto significativi tra mondi che furono, e ancora sono, spesso in drammatico conflitto. In effetti l'Office di Takeshi Kitano ha coprodotto Mountains may depart, di Jia Zhang-Ke, il quale ha sempre dichiarato di essere stato influenzato da Hou Hsiao-Hsien.

Mountains may depart, che per noi è stato il miglior film della competizione, è un vero capolavoro. Rappresenta, dopo i precedenti film di Jia Zhang-Ke, Unknown pleasure (2002), The world (2004) e Still life 2006), un'ulteriore prova della sua capacità di evidenziare i gravi squilibri nella vita della gente comune dovuti al vertiginoso sviluppo economico distorto e alla globalizzazione prresenti in Cina. Come in A touch of sin (2013) lo stile è improntato al realismo stilizzato. Tuttavia in questo caso la violenza fisica è assente o autorepressa. Determinante risulta una squisita costruzione drammatica dei personaggi protagonisti, più intimamente sofferenti per la conseguenza delle loro azioni. La storia, divisa in tre parti, inizia nel 1999 a Fenyang, città natale di Jia, nello Shanxi. La ventenne Tao è corteggita da due amici d'infanzia: Zhang, proprietario di una stazione di servizio, e Liangzi, semplice operaio in una miniera di carbone in crisi. La donna, dopo un doloroso travaglio, sposa Zhang che diventerà un ricco capitalista ad Hong Kong.

 

Cannes 2015

"Mountains my depart", Jia Zhang-Ke

Nel 2014 Tao, divorziata e rimasta a Fengyang, incontra per l'ultima volta Dollar, il figlio di sette anni affidato  dalla legge all'ex marito. Nel 2025 padre e figlio, Zhang e il diciottenne Dollar, emigrati in Australia, si scontrano e infine si separano perchè il giovane rifiuta la carriera e zsente di voler tornare in Cina per incontrare la madre. Jia ha utilizzato in parte sequenze-appunti girate in digitale nel 2001 e poi nel 2011. Il film presenta uno screen format quadrangolare (1:1,33) eccetto per l'ultima parte, collocata in un ipotetico futuro e parlata largamente in inglese, dove passa al widescreen panoramico (1:1,85). L'approccio è sottilmente partecipativo, la messa in scena, con combinazione di piani e inquadrature, è emozionante e la fotografia, curata dal fedele collaboratore Yu Lik-wai, è fantastica. 

Umimachi Diary (Our little sister), di Kore-eda Hirokazu, adatta un omonimo romanzo. Configura un dramma familiare intimista che ripropone temi e atmosfere presenti nei suoi precedenti film, il magnifico Still walking (2008), I wish (2011) e Like father, like son (2013). Tre sorelle ormai adulte, la maggiore e materna Sachi, Yoshino e Chika, appena maggiorenne, vivono insieme nella vecchia tradizionale casa di famiglia, nella cittadina costiera di Kamakura. Un giorno ricevono la notizia che loro padre, che non vedono da 15 anni dopo che le aveva abbandonate, si era trasferito e risposato, è morto. Con riluttanza si recano al funerale e incontrano Suzu, la loro sorellastra quattordicenne, che vive con la terza moglie del  defunto dopo la morte della propria madre. Le tre donne provano istintiva simpatia per l'adolescente riservata e sensibile e la accolgono nella loro casa.

 

Cannes 2015

"Umimachi Diary", Kore-eda Hirokazu

Il film descrive, con delicatezza mai retorica, il complesso processo di avvicinamento tra le quattro protagoniste: la progressiva scoperta dell'altro e la manifestazione di sentimenti repressi. Kore-eda riecheggia i ritmi, la narrazione tra le linee e l'umanesimo del maestro Yasujiro Ozu e non è mai convenzionale. Ci parla da sempre di nostalgia e di rimpianto e dei momenti della vita, indicandocene significato e caducità. La scelta dei tempi delle inquadrature e il montaggio, curato dallo stesso regista, sono sempre perfettamente funzionali alla descrizione degli stati d'animo. 

The assassin, di Hou Hsiao-Hsien, ha ottenuto il Premio alla miglior regia. Ispirato da un romanzo di genere cavalleresco chuanqi e ambientato in Cina nel IX secolo A. C., nell'epoca della decadenza  della famosa dinastia imperiale Tang, è apparentemente un curatissimo film di genere  wuxia, ovvero  epico avventuroso e di arti marziali. Peraltro fa emergere sottilmente la contraddizione tra fedeltà al ruolo di sicario e rispetto per la persona amata. La bellissima nobile trentenne Nie Yinniang torna in famiglia, nella provincia di Weibo, dopo anni di esilio durante i quali è diventata adepta di una setta di giustizieri guidata da una suora buddista. La sua missione segreta è quella di assassinare il governatore ribelle all'imperatore. Ma l’uomo da uccidere è suo cugino Tian Ji'an, che in passato lei aveva amato senza poterlo poi sposare. Il film, concepito e preparato nel corso di 10 anni, è meraviglioso in termini di costumi, messa in scena prevalentemente notturna, long shots dall'esterno all'interno del palazzo e piani sequenza, fotografia e recitazione.

 

Cannes 2015

"The Assassin", Hou Hsiao-Hsein

Le scene dei combattimenti volanti sono in fondo marginali, limitate e relativamente poco spettacolari perché prevale la dialettica psicologica e l'intrigo politico che impegnano i personaggi.

SEZIONE HORS COMPÉTITION ET SÉANCES SPECIALES

 


AMY, Asif Kapadia

Un documentario straordinario su Amy Winehouse, una  fra i cantanti e gli autori di jazz - blues più dotati e innovativi dell' ultimo decennio. Londinese di origini ebree, tra il 2003 e il 2010, con album come Franck e Back to Black e collaborazioni con i migliori artisti, ha dominato la scena mondiale. Ma Winehouse fu anche una donna fragile e sfruttata cinicamente dal padre e dall'ex marito. La sua vita fu marcata da disordini alimentari, depressione e una grave dipendenza da alcool e droghe pesanti: una condizione mai nascosta, fino alla tragica morte per overdose nel luglio 2011. L’anglo - indiano Kapadia, già autore dell’ottimo documentario Senna (2010), dedicato al noto campione della F1, ha assemblato magistralmente un'enorme mole di materiale di repertorio e footage e ha cucito insieme brani da un centinaio di interviste ad amici e parenti di Amy. Ne risulta un'opera molto viva e venata di malinconia. Una celebrazione mai di maniera di un'artista eccezionale, sconfitta da sé stessa.

SEZIONE UN CERTAIN REGARD

Cannes 2015

"Shameless" Oh Seung-uk

 

SHAMELESS (MU-ROE-HAN), di Oh Seung-uk (Sud Corea)
Un thriller sporco, duro e convincente. E anche un melodramma, dominato dalle passioni, in cui alla fine i protagonisti sono entrambi  perdenti. A Incheon il tenente di polizia trentenne Jung Jae-gon vuole arrestare Park Jun-gil, noto delinquente reo di  omicidio. Sa che l'assassino entrerà in contatto con la sua amante, Kim Hye-kiung, una donna ancora attraente, ma oppressa dai debiti e ridotta a lavorare in un infimo bar. Jung si spaccia per un ex compagno di cella di Park e, poco a poco, conquista la fiducia della donna, aiutandola a fronteggiare i creditori. Poi tra loro nasce un'attrazione, nonostante la fedeltà  della femme fatale verso l'amante ricercato. Il film ripropone con originalità i canoni del genere, costruendo con cura un epilogo potente intriso di romanticismo beffardo.

Cannes 2015

"Nahid" Ida Panahandeh

 

NAHID, di Ida Panahandeh (Iran), Promising Future Prize ex-aequo
Un esordio interessante che mette a nudo i nodi della condizione familiare e di quella femminile in Iran. Nahid, trentenne divorziata e istruita, è in difficoltà economiche. Lavora in una copisteria e a domicilio, redigendo testi richiesti da clienti privati, ma non paga l’affitto dell’appartamento che occupa. Tuttavia non abbandona la mentalità piccolo borghese, non rinuncia a spese superflue e ha iscritto il figlio dodicenne Amir Reza a una scuola privata. Per timore di perdere la custodia del ragazzo, accetta un “matrimonio temporaneo” con Masoud, l'uomo che ama. Ahmad, il suo ex marito tossicodipendente, spalleggiato dalla famiglia, le rende la vita impossibile. Nasser, il fratello di Nahid, la accusa di immoralità. Nel frattempo Amir Reza mente sistematicamente, gioca d’azzardo e non frequenta le lezioni. E la vicenda, dopo molto strazio, non si risolve.  Purtroppo i personaggi sono  inquadrati in modo troppo unilaterale e la protagonista sembra più vittima della propria irresponsabilità e incapacità di decidere che del maschilismo dominante.

Cannes 2015

"Taklup" Brillante Mendoza

 

TAKLUB (TRAP), di Brillante Mendoza (Filippine), Ecumenical Jury Special Mention
Un film eccezionale, a metà strada tra il cinéma vérité, il documentario sociale e il melodramma. Una storia che sintetizza, con una lucidità straordinaria,  la tragedia di milioni di filippini  la cui vita è perenne dolore e resistenza alla disperazione. Un anno dopo il passaggio del supertifone Haiyan nella città costiera di Tacloban il popolo  sopravvive in una terra devastata: un girone dantesco esposto sempre a piogge torrenziali e inondazioni. Bebeth (una magnifica Nora Aunor), gestisce una baracca ristorante, cerca i suoi bambini dispersi e aiuta chi vive nella tendopoli. Larry trasporta la croce nelle processioni giornaliere e Erwin lotta dopo aver perso molti dei suoi in un incendio. Dopo altri film di grande e significativa rilevanza drammatica, come Foster Child (2007), Lola (2009) e Thy womb (2012, Mendoza realizza un'opera in presa diretta, secca, genuina, umanissima e visivamente grandiosa: lo spettatore è più che scosso. E' il vero erede di Lino Broka.

SEZIONE QUINZAINE DES RÉALISATEURS

Cannes 2015

"As mil e uma noites", Miguel Gomes

 

AS MIL E UMA NOITES (ARABIAN NIGHTS), di Miguel Gomes (Portogallo)
Storie nel tempo della crisi
Una collezione di favole contemporanee sul popolo portoghese
As mil e uma noites è un film affascinante e inclassificabile, della durata di oltre sei ore, articolato in tre capitoli di dimensioni pressoché uguali. Costruito con un riferimento libero al classico della letteratura antica “Le mille e una notte”, mescola con varie modalità finzione e documentario. Propone in chiave realistica, poetica e tragicomica, con incursioni surreali e  deliranti, storie ispirate da fatti reali avvenuti in Portogallo tra agosto 2013 e luglio 2014, reperite dalla giornalista Maria José Oliveira. Un periodo marcato dalle misure di austerità economica instaurate dal governo senza ottica di giustizia sociale e con un risultato di impoverimento di tutta la popolazione, secondo la didascalia iniziale del film. Pur nascendo da una precisa volontà di non indifferenza rispetto alla crisi economica attuale, non è un pamphlet di denuncia, ponendosi piuttosto in relazione  con molti rivoli della cultura popolare del Paese.

Pur nascendo da una precisa volontà di non indifferenza rispetto alla crisi economica attuale, non è un pamphlet di denuncia, ponendosi piuttosto in relazione  con molti rivoli della cultura popolare del Paese.

La prima parte, O inquieto, si apre con il prologo  che contiene tre spezzoni documentaristici molto seri: la lotta dei 600 lavoratori licenziati dei cantieri navali di Viana do Castelo; la battaglia  di un gruppo di apicoltori contro l’invasione di vespe asiatiche; la frustrazione di Gomes stesso di fronte all' impresa apparentemente impossibile di realizzare il film. Poi un’inedita Sheherazade introduce tre storie: “The men with a hard-on”, un assurdo resoconto di un meeeting della Unione Europea; “The story of the cockered and the fire”, in cui un giudice processa un gallo che  in piena notte disturba gli abitanti di un villaggio; “The swim of the magnificents”, in cui un sindacalista intervista vari disoccupati a Capodanno. La seconda parte, O desolado, propone altre tre storie: “Chronicle of the escape of Simao without bowels” che descrive la fuga  attraverso un territorio selvaggio di un vecchio magrissimo che ha ammazzato quattro donne tra cui la moglie e la figlia ed è inseguito dalla polizia, ma aiutato dalla gente; “The tears of the judge” che presenta alcuni casi assurdi e paradossali che si svolgono in un'aula di tribunale; “The owners of Dixie” che racconta un bisticcio tra vari proprietari di alloggi in una casa popolare. Il terzo capitolo O encantado vede Sheherazade fuggire dal palazzo del Re, incontrare suo padre il Gran Vizir e raccontargli prima sé stessa e poi presenta “The inebriating ihorus of the chaffinches,” una storia-documentario su uomini “stregati” che si dedicano con passione ad insegnare come cantare agli uccelli, per poi competere tra loro, nei quartieri più degradati di Lisbona.


Nel cinema  di Miguel Gomes l'affabulazione e lo sguardo limpidamente antinaturalistico sono elementi fondamentali. Peraltro le sue storie si sviluppano all'insegna dell'imprevedibilità. I personaggi entrano in un gioco di eventi inatteso, obliquo o deviante, tra vissuto presente e memorie del passato, anche se avviene che siano spesso preda di amnesie, falsi ricordi ed estraneità a sé stessi. Le provocazioni  non sono mai strumentali e fanno pensare al cinema dello scomparso indimenticabile Joao César Monteiro, quantunque senza la spiccata vena malinconica del connazionale di Gomes. Al tempo stesso i temi della rivolta e della rottura delle convenzioni, con continue torsioni dei protagonisti oltre la logica, sono al centro di tutto il suo cinema, memore anche di François Truffaut e di Henri Langlois.. Il bellissimo Tabu (2012) configura un dramma esistenziale che contiene una visione molto originale del colonialismo portoghese in Africa.  As mil e uma noites riprende, con maggiore maturità, approccio e stile di Aquele querido mes de agosto (2008), un'opera molto creativa, fresca e fonte di divertimento esilarante, immersa nel mondo e nei rituali ludici contadini. Offre, con fine umorismo, un coacervo di storie nelle storie, con didascalie e uso della voice over. Variopinte scene di gruppo e coreografie di danza, con una mescolanza di costumi moderni e orientali antichi, sono accompagnate da una variegata colonna sonora di motivi pop e folk. Il tutto con un'alternanza di 16 e 35mm e con una tessitura colorata ed esotica delle immagini dovuta alla fotografia di Sayombu Mukdeeprom, il collaboratore fedele di Apichatpong Weerasethakul.

Cannes 2015

"El Abrazo de la Serpiente", Ciro Guerra

 

EL ABRAZO DE LA SERPIENTE, di Ciro Guerra (Colombia), Art Cinema Award
Un dramma epico ricco di suggestioni estetiche e culturali. Racconta la storia dell'incontro tra un indigeno  e i bianchi. Karamakate è uno sciamano che vive isolato nella foresta dell'Amazzonia colombiana. Nel 1909 un etnologo tedesco molto malato, accompagnato da una guida indigena, lo raggiunge. Pur diffidando, accetta di aiutare il bianco compiendo un viaggio in canoa per trovare la yakruna, una misteriosa pianta medicinale. Circa 40 anni dopo Karamakate è diventato un chullachaqui, un essere senza memoria. Evan, un etnologo americano, rintraccia lo sciamano e insieme compiono un altro viaggio iniziatico nella foresta tropicale, tra misteri e orrori. Il film mescola le due storie, essendo in larga parte affascinante. Ma poi propone svolte deliranti diventando  poco credibile: un'ansia di denuncia pretenziosa e controproducente.

Cannes 2015

"Allende mi abuelo Allende", Marcio Allende

 

ALLENDE MI ABUELO ALLENDE, di  Marcia Allende (Cile)                
Dopo i magnifici documentari politici di Patricio Guzmán su Salvador Allende e sul golpe militare in Cile, Marcia Tambutti Allende realizza un'opera intima, non magniloquente né reticente. La regista, una fra i nipoti del Presidente cileno, “Chicho” per i familiari, vince la ritrosia di sua madre Isabel, della zia e dei cugini a raccontare il privato di Allende, vittima del colpo di stato militare nel 1973. Reperisce filmini in super8 e foto di famiglia sconosciute. Emozionanti sono soprattutto le conversazioni con la moglie di Allende, “Tencha” e il ricordo di Beatriz, “Tati”, la figlia e segretaria particolare, suicida a Cuba nel 1977. Un quadro a tutto tondo di un uomo molto popolare e capace, che mise sempre la politica al primo posto, ma che non trascurò' mai la moglie, le figlie e i nipoti, anche se visse  molti amori paralleli. Un film onesto e spesso toccante.

Cannes 2015

"Mustang", Deniz Gamze Erguven

 

MUSTANG, di Deniz Gamze Erguven (Francia), Label Europa Cinemas Award
Un esordio con l'intenzione di mostrare la difficoltà di essere donna nella Turchia attuale, sempre più conservatrice e sessuofoba. In una cittadina sulla costa del Mar Nero cinque sorelle adolescenti, orfane fin dall'infanzia, sono sotto la custodia della nonna. Dopo la partecipazione a una baldoria “scandalosa” sulla spiaggia con i compagni maschi della scuola, interviene lo zio Erol che stabilisce nuove regole per loro. Nonostante le vacanze estive, inizia una segregazione forzata in casa con abbigliamento castigato, privazione di telefono e computer e educazione alle arti domestiche femminili: cucinare, cucire, rassettare. Ma le “eroine” compiono vari atti di ribellione. Poi le sedicenni Selma e Sonay vengono accasate con matrimoni combinati. Purtroppo il film segue la logica del “cinéma grand publique”, ben lontana dall' attuale cinema turco d'autore basato sulla faticosa ricerca  di identità. Deniz Gamze Erguven, turca, ma trapiantata in Francia, mescola stereotipi da commediola, situazioni poco credibili ed episodi drammatici trattati superficialmente.

Cannes 2015

"Yakuza Apocalypse", Takashi Mijke

 

GOKUDO DAISENSO (YAKUZA APOCALYPSE), di Takashi Mijke (Giappone)
Un thriller con ampie dosi horror e una tumultuosa deriva splatter. Kagayama è un delinquente al grado più inferiore nella gerarchia della  famiglia criminale  del leggendario Kamiura, un boss della yakuza che è benvoluto dalla popolazione della città per i suoi “atti di magnanimità”. In realtà Kamiura è un vampiro. Quando il killer indonesiano Kyoken gli tende un agguato mortale e lo decapita, grazie al tradimento dei luogotenenti della famiglia, il destino di Kagayama si compie. Morso dal boss prima della disintegrazione, il giovane ne acquista tutti i vizi e i poteri e inizia una missione per vendicarlo. Tutto il film ha le sembianze di un fumetto indiavolato, tra scontri all'arma bianca, sangue che schizza  ovunque e corpi lacerati. Un trionfo di humour grottesco e surreale e di ardite trovate visive. Peccato che il molto prolifico Takashi Mijke usi il suo indubbio talento per confezionare un ennesimo prodotto manierato eccessivo, e alla fine noioso e ripetitivo, che sarà comunque apprezzato dai suoi fans più giovani.

Cannes 2015

"Dope", Rick Famuyiwa

 

DOPE, di Rick Famuyiwa (USA)
Una scoppiettante commedia studentesca giovanile americana, con un plot che comprende crimine e droga, già apprezzata al Sundance Film Festival di quest'anno. A Inglewood, un quartiere “caldo” di Los Angeles, dove scorazzano gangs dedite allo spaccio di droga in guerra tra loro, Malcolm, afroamericano povero di 17 anni con madre single, si sente diverso. Insieme ai compagni Jib e Diggy studiano seriamente perché vogliono andare all'Università. Amano l'hip hop degli anni ’90 e il punk,  e hanno formato una loro piccola band. Ma apprezzano anche i miti dei giovani bianchi e le ragazze sexy. Considerati "geeks", sono perseguitati dai bulli blacks. Una sera, invitati ad una festa di compleanno di un capetto narcotrafficante, si trovano coinvolti in uno scontro armato. Da questo nasce una rocambolesca serie di avventure perché Malcolm deve riconsegnare una partita della droga allucinogena “Molly” che ha trovato nel suo zainetto. Il film è molto leggero, pieno di modelle, artisti rap e attori televisivi. Ha un buon ritmo, gioca con split screen e freeze- frames e contiene alcune trovate comiche  molto divertenti.

SEZIONE SEMAINE DE LA CRITIQUE

PAULINA (LA PATOTA), di Santiago Mitre (Argentina), Grand Prix Nespresso, FIPRESCI Jury Award
Un eccellente ritratto femminile e una lucida disanima del contesto di classe in Argentina. La ventenne Paulina è avvocato con prospettive di carriera a Buenos Aires. Idealista  convinta, sceglie invece di dedicarsi a un progetto di inclusione sociale nella provincia di Misiones, ai confini con il Paraguay. Inizia a insegnare a giovani sedicenni, piuttosto disinteressati, in una borgata proletaria. Una notte, mentre rientra a casa in motorino, viene violentata: il responsabile è un operaio frustrato, ma nel branco, la patota, vi sono anche quattro suoi studenti. Paulina riprende il lavoro, affronta tutte le conseguenze dello stupro subito e non denuncia i colpevoli quando un'amica glieli indica. Mitre riadatta un film del connazionale Daniel Tinayre, un classico del 1960. Dopo El estudiante (2011), straordinaria storia di formazione politica ed esistenziale, offre un dramma articolato che evita del tutto la demagogia e la manipolazione. Un film emozionante, che fa pensare.

 

Cannes 2015

"Paulina", Santiago Mitre

DEGRADÉ, di Tarzan e Arab Nasser (Palestina / Francia / Qatar)
Una commedia drammatica al femminile. Nella striscia di Gaza il piccolo negozio di coiffeuse di Christine vede riunito un gruppo variegato di donne palestinesi: una quarantenne divorziata amara e scettica, una giovane che si prepara alle nozze con madre, sorella e suocera, una pettegola con un’amica integralista, una futura madre incinta. Nel frattempo una delle parrucchiere è fidanzata con un guerrigliero che fa il bullo, portando al guinzaglio un piccolo leone. Poi all'improvviso in strada è l'inferno: è iniziato l'attacco israeliano del 2014. Tutto questo film di esordio, chiaramente ispirato da Caramel (2007), di Nadine Labaki, si svolge in uno huis clos ed è costruito sui dialoghi vivaci che intrecciano le brave attrici, tra cui spicca Hiam Abbass. Uno scenario di vita reale in condizioni molto difficili, ma la svolta drammatica è gestita con concitazione visiva inefficace.

 

Cannes 2015

"Degradé", Tarzan e Arab Nasser

LA TIERRA Y LA SOMBRA, di César Augusto Acevedo (Colombia), Prix Caméra d’Or, Prix SACD, Prix Révélation France 4
Il ritratto drammatico, realista e poetico, di una famiglia povera di campesinos colombiani. Alfonso è un sessantenne che ritorna, dopo 17 anni, alla sua casupola, circondata da immense piantagioni di canna da zucchero. Deve aiutare il figlio Gerardo che soffre a causa di un gravissimo enfisema polmonare. Ritrova la moglie che non gli perdona di averla abbandonata, la nuora che lavora alla raccolta della canna e il nipote di sette anni. Il paesaggio è apocalittico: polvere e una pioggia di cenere delle canne bruciate che penetrano i corpi giorno e notte. Un film sull'illusione del progresso e sul sentimento di appartenenza alla propria terra. Un esordio maturo e convincente con uno stile classico, ma non retorico: ritmo lentissimo, intensi close up e piani sequenza e un cast di straordinari non attori, eccetto le due attrici professioniste.

 

Cannes 2015

"La Tierra y la Sombra", César Augusto Acevedo

KRISHA, di Trey Edward Shults (USA)
Un dramma da camera, con toni da commedia, ritratto sagace di una famiglia allargata della classe media americana. La sessantenne Krisha, con un passato libertario e problemi di dipendenza da alcool, farmaci e cocaina, è invitata a trascorrere la festività di Thanksgiving in famiglia. Nella grande villa della sorella, moglie di un medico, è accolta con calore e incaricata di preparare il tacchino per il pranzo tradizionale. Conversa con un cognato e cerca di pacificarsi con il figlio ventenne che è cresciuto senza di lei. Ma, poco a poco, gli antichi fantasmi ricompaiono nella sua mente e tutto va storto, tra rimpianti, recriminazioni e accuse reciproche. Un crescendo di humour e di estroversione sentimentale fino ad un clou conclusivo. Shults ha girato il film in 9 giorni, usando come location la residenza dei suoi genitori. Pur senza essere molto originale, dimostra di aver appreso le lezioni di Altman, di Cassavetes e di Polanski, propone soluzioni visive, di montaggio e di colonna sonora creative e raffinate ed è coadiuvato da un cast di ottimi attori.

 

Cannes 2015

"Krisha", Trey Edward Shults

MEDITERRANEA, di Jonas Carpignano (Italia / USA / Francia / Germania / Qatar)

Un esordio che affronta il problema della condizione degli immigrati senza permesso di soggiorno nell'Italia meridionale.  Il ventenne Ayiva ha lasciato sua sorella e sua figlia in Burkina Faso. Dopo un viaggio pieno di insidie attraverso Algeria e Libia, insieme all'amico Abas si imbarca con altri clandestini su un gommone. Salvato dalla guardia costiera italiana nel Mediterraneo, giunge a Rosarno in Calabria dove trova un parente. Lavora alla raccolta delle arance e incontra alcune persone amichevoli. La tensione con i giovani locali cresce. Un giorno due africani vengono uccisi e i due amici  partecipano attivamente a una rivolta con atti di vandalismo. Carpignano, di origini africane e di nazionalità americana e italiana, mostra un iniziale discreto approccio documentaristico, ma poi si rifugia negli stereotipi e non riesce a gestire né narrativamente né visivamente la precipitazione drammatica. Peccato perché i suoi due protagonisti, attori non professionisti, sono abbastanza credibili rouge

 

 

Cannes 2015

"Mediterranea", Jonas Carpignano

 

 

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68. CANNES FILM FESTIVAL 2014

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13 - 24 / 05 / 2015

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