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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 5. NUOVO CINEMA FRANCESE RENDEZ-VOUS 2015 I DI GIOVANNI OTTONE I 2015

5. Festival Rendez Vous
Nuovo Cinema Francese

a Roma le anteprime del 2014 - 2015

 

 

 

 

Di GIOVANNI OTTONE

"Les combattants", Thoms Cailley

Les combattants

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L'Institut Français Italia, che raggruppa i servizi culturali dell’Ambasciata di Francia in Italia, in collaborazione con Unifrance Films, ha organizzato in aprile la quinta edizione di Rendez Vous - Nuovo Cinema Francese, un’eccellente selezione di film di registi francesi, della stagione 2014 - 2015, con un programma itinerante di proiezioni aperte al pubblico a Roma, Bologna, Torino, Napoli, Palermo e Lecce, in sale cinematografiche del normale circuito commerciale e in auditoria di Musei e Istituti culturali. Si tratta di una vetrina che presenta un’ampia varietà di proposte e di generi e che si caratterizza per la presenza di molti autori giovani e di opere caratterizzate da forme narrative e soluzioni estetiche innovative. Tra l’altro molti dei film presentati sono anteprime, essendo in uscita nelle sale italiane nei prossimi mesi: ad esempio Les combattants, di Thomas Cailley è in programmazione dal 16 aprile con il titolo  The fighters - Addestramento di vita.

Il programma più ampio, come numero di film e qualità degli omaggi, è quello in corso a Roma, dall’8 al 18 aprile, con proiezioni a: la Casa del Cinema; Cinema Quattro Fontane; Accademia di Francia - Villa Medici; Museo MAXXI. Comprende 23 lungometraggi e il “cineracconto d’arte” Naissance d’une muséee - Le Louvre Lens, dell’artista polivalente Alain Fleischer e vede la presenza dei registi nella maggior parte delle séances. Nel suo ambito si segnalano anche tre Focus dedicati a eminenti personalità del cinema di lingua francese che assicurano la loro presenza: la nota attrice e regista Fanny Ardant; i registi Robert Guédiguian (che è protagonista di una masterclass), Lucas Belvaux, belga vallone, e Julie Bertuccelli. E ancora, la Carte Blanche a Mathieu Amalric, un omaggio all’attività di regista di uno dei più versatili e dotati attori francesi contemporanei, con proiezione dei quattro lungometraggi per il cinema che ha realizzato finora. Analizziamo criticamente quindi alcuni dei film presentati a Roma.

Les combattants, opera prima di Thoms Cailley, è una love story giovanile, con sembianze di commedia romantica, pur abbastanza atipica, ma non esaltante negli sviluppi narrativi, nella scansione drammatica e nello studio dei caratteri. La vicenda si svolge in una piccola località marina della costa francese durante l’estate. Il diciassettenne Arnaud (Kevin Azaïs) è un ragazzo riflessivo e responsabile. Dopo la morte del padre lavora con il fratello nella piccola impresa di famiglia di falegnameria per arredi da giardino, ma non rinuncia alla compagnia degli amici e allo sport. Al tempo stesso riesce a fronteggiare le manie e le paure di sua madre. Poi un giorno, durante un’installazione effettuata in una villa, conosce la diciannovenne Madeleine (Adèle Haenel), che sembra piuttosto strana. È una studentessa borghese, bella, ma evidentemente palestrata, con comportamenti da dura, poche parole e sguardi decisi. Rifiuta le comodità ed è ossessionata  dall’idea di prepararsi a combattere perché ha una visione nichilistica del mondo e apocalittica rispetto al futuro. Quindi trascorre le giornate sottoponendosi ad un duro training solitario: ginnastica pesante, nuoto con i pesi e nutrizione con cibi crudi. Arnaud  rimane colpito, un poco intimorito, ma decisamente attratto. Nonostante all’inizio Madeleine non dimostri grande affabilità e simpatia, iniziano a  frequentarsi. Successivamente, per spirito di solidarietà, ma non solo per questo, Arnaud accetta di iscriversi con lei a uno stage estivo di due settimane con addestramento militare e scuola di sopravvivenza istituito per i giovani dal corpo dei paracadutisti dell’Esercito francese. Fin dall’inizio Madeleine non pare a suo agio con la  disciplina militare e trova modo di scontrarsi verbalmente con il tenente istruttore. Poi un giorno, durante  un’esercitazione di guerra, i due si perdono in una foresta, un luogo isolato e preservato, tra terreno accidentato, laghi e radure. E alla fine decidono di disertare, continuando quell’esperienza di vita spartana da soli. Ben presto risulta che Madeleine, nonostante le idee radicali professate, ha ben poca consuetudine con le asprezza della natura.

Les Combattants

"Les Combattants", Thoms Cailley

 

Non sa cacciare, né accendere un fuoco ed è persino intimorita dai rumori notturni. Quindi inizia a fidarsi di Arnaud che, al contrario, dimostra di sapersela cavare. E poco a poco, attraverso la complicità, nasce una relazione amorosa. Ma li aspetta un sorprendente finale “catastrofico” e davvero pericoloso. Il film abbonda nei clichés e nella manipolazione dei simboli. Procede stancamente, incerto tra il carattere drammatico e una vis comica che non risulta del tutto originale. La dialettica tra i giovani protagonisti e gli adulti, i genitori e i militari, appare piuttosto scontata. Lo spirito di ribellione di Madeleine e lo scetticismo e il rifiuto delle convenzioni piccolo borghesi di Arnaud, così come il superamento delle barriere sociali tra i due, appaiono un espediente per suscitare la simpatia del pubblico, mostrando comprensione verso il malessere della gioventù francese. Ma manca completamente il coraggio di inoltrarsi in una ricognizione esistenziale più stratificata e radicale.

Hippocrate, opera di Thomas Lilti, è una commedia drammatica. Un film interessante perché mostra problematiche reali, ma caratterizzato, nel bene e nel male, da una logica di “cinema popolare”. La vicenda si svolge in un grande ospedale pubblico di Parigi. I protagonisti sono due medici interni, in attesa di stabilizzazione nello staff: Benjamin (Vincent Lacoste), laureato da poco, e Abdel (Reda Kateb), algerino, più esperto e responsabile, ma non considerato pienamente a causa della sua origine extracomunitaria. Lavorano  entrambi  nella divisione di medicina generale diretta dal padre di Benjamin (Jacques Gamblin). Assistiamo a casi emblematici: il cirrotico senza casa, paziente abituale, che muore a causa di un infarto cardiaco non diagnosticato da Benjamin, medico di guardia; un'anziana con cancro diffuso su cui vi è una disputa su come curarla; strumentazioni rotte; i conflitti tra medici, infermieri e amministrazione.

 

Hippocrate

"Hippocrate", Thomas Lilti

Lilti, medico e regista, racconta molte verità dietro la facciata circa la vita in ospedale, peccato che le mescoli eccessivamente con gli stereotipi e una certa goliardia da commediola. Purtroppo anche la messa in scena debole e ondivaga, la scelta non proprio appropriata di Lacoste come protagonista e una direzione degli attori troppo accondiscendente incidono sui tempi drammatici che risultano spesso poco incisivi.

Eastern boys (2013), opera seconda del cinquantenne Robin Campillo, è un dramma-thriller non privo di inaspettati twists nel plot e di ardite scelte nella messa in scena e carico di suspence disturbante, ma, nel complesso, ben poco credibile nella sua consequenzialità narrativa e  nella dialettica esistenziale e sentimentale. Il protagonista della vicenda, che si svolge a Parigi, è Daniel (Olivier Rebourdin), un executive cinquantenne, omosessuale in incognito, di condizione agiata, con aspetto giovanile e curato e modi discreti. L’uomo si reca alla Gare di Nord dove notoriamente stazionano giovani slavi, provenienti dall’Ucraina, dalla Russia, dalla Moldavia e da altri Paesi dell’Europa orientale, pronti a ingannare, derubare e, all’occorrenza, a prostituirsi.

Eastern Boys

"Eastern Boys", Robin Campillo

 

Dopo un giro di esplorazione nota il diciottenne Marek (Kirill Emelyanov), un giovane silenzioso, apparentemente triste e gentile. Daniel torna periodicamente alla stazione finché trova il coraggio di parlare con l’oggetto del suo desiderio e lo invita a casa sua con palesi intenzioni di consumare un rapporto sessuale con lui. Quindi, quando Marek accetta, gli comunica il suo indirizzo: si tratta di un alloggio con vista panoramica situato in una zona residenziale, moderna ed esclusiva, della città. Ma, quando  lo stesso Marek si presenta nel costoso appartamento con arredamento high tech di Daniel, insieme a lui irrompono una quindicina di altri giovani strafottenti e aggressivi. È una banda capitanata da un cinico venticinquenne in blouson noir che esercita un’autorità inflessibile sui suoi accoliti, dai ragazzini scaltri agli adolescenti che possono essere “soldati” violenti o presunte prede-civette falsamente disponibili.

In breve umiliano e derubano Daniel, dimostrandosi esperti e privi di scrupoli e promettendogli di tornare periodicamente a perseguitarlo. L’uomo vive solo e, non sapendo come reagire, subisce il ricatto per paura dello scandalo sociale. Marek si mostra indifferente e ubbidisce agli ordini del capo. Ma la storia tra Daniel e il giovane non è finita. Da un lato Campillo sembra volersi riferire al cinema di Michael Haneke, proponendo una  sottile trama psicologica in cui si sviluppa una violenza rarefatta e il disagio di chi ne è oggetto, ma non  riesce a caratterizzare lucidamente l’ambiguità dei personaggi e a raggiungere l’intensità dello sguardo, la  genialità dei fuoricampo e il rigore formale delle inquadrature del grande regista austriaco. Dall’altro si lascia trasportare da un interesse prioritario nei confronti della tematica omosessuale e della ricerca del sesso casuale a pagamento descritta senza grandi novità, tra solitudine, paura, concupiscenza e speranza, e complicata da un ambiguo coté affettivo che scivola in una pacchiana retorica melodrammatica. E soprattutto offre una rappresentazione apparentemente realistica, ma, in realtà, stereotipata e abbastanza fantasiosa del fenomeno della presenza di bande di delinquenti giovanili slavi, immigrati clandestini in Europa occidentale. Infine si avventura in una pasticciata reinterpretazione delle regole del genere noir, con conseguente scarsa logicità narrativa che lo conduce a un finale della storia ridicolo e grottesco.

Mange tes morts, terzo film scritto e diretto da Jean-Charles Hue, offre un interessante, quantunque discutibile, ritratto di una comunità di gitani. Racconta la drammatica iniziazione criminale di due adolescenti, ma non funziona nella sua dimensione di thriller, risultando troppo artificioso. La vicenda si svolge in una zona periferica non lontana da Parigi. In un piccolo campo di zingari di etnia Jenisch (o  anche Yenishe, la terza maggiore popolazione nomade europea) vivono alcune famiglie insediate da anni in Francia. I giovani sono alla ricerca di un’affermazione mentre gli adulti sembrano aver accettato la predicazione religiosa di uno dei leader più rispettati che si è convertito dopo anni di disprezzo delle regole morali. Nella famiglia Dorkel si prepara il battesimo del diciottenne Jason (Jason François). Ma inaspettatamente torna il trentenne Fred (Frédéric Dorkel), il figlio maggiore, nonché fratellastro di Jason, che ha scontato quindici anni di prigione dopo la morte di un poliziotto avvenuta durante un furto. Festeggiato da  molti e visto con diffidenza da altri, l’uomo, pur dichiarando di essere maturato e, soprattutto, di non voler tornare in carcere, appare lo stesso di sempre: esaltato e velleitario. Dopo aver recuperato la sua amata auto BMW Alpina, truccata con uno sprint booster e custodita con cura in un garage, si imbarca con il cugino ventenne Moïse (Moïse Dorkel), militante cristiano, il fratello Mickaël (Michael Dauber), violento e insicuro, e il giovane Jason, in una scorribanda a tutta velocità nei dintorni, tra Corbeil e Créteil. Poi, ad un certo punto, comunica ai compari di aver deciso di rubare un carico di rame che si trova su un camion parcheggiato in un deposito. Nonostante qualche resistenza, gli altri giovani accettano di partecipare a quella rapina improvvisata  che Fred presenta come un giochetto senza rischi. Jason è combattuto perché da un lato  ha sempre mitizzato il fratello maggiore, vedendo in lui  un eroe coraggioso, erede delle antiche tradizioni e depositario di conoscenze esoteriche che lo affascinano, ma dall’altro i comportamenti e le azioni di Fred entrano in conflitto con il suo desiderio di essere un buon cristiano cresciuto con la frequentazione di Moïse. Dopo una notte di bagordi, eccitati dalle bevande alcooliche e dalle droghe consumate, alla prime luci dell’alba si introducono nel deposito. Hue propone un ritratto efficace, e accattivante per la sua carica di ambiguo romanticismo, di un contesto sociale e culturale specifico, con complicità e conflittualità nel clan familiare. Tuttavia, pur offrendo un vivace taglio documentaristico in presa diretta e non mancando di autenticità ed empatia, il suo approccio risulta troppo costruito ad hoc. In termini drammatici, punta sulla dimensione fisica e violenta e cerca di riallacciarsi alla migliore tradizione del noir francese, ma il tentativo di accreditare realismo e disumanità appare inficiato da una spirale narrativa troppo concitata e da una maldestra riproposizione di canoni di genere.

Mange tes morts

"Mange tes morts", Jean-Charles Hue

 

In particolare la rappresentazione dell’amicizia tradita e la scontata dinamica del furto appaiono poco credibili e viziate da narcisismo di scrittura ed estetico. In effetti Hue mostra una messa in scena incerta e spesso solo abbozzata e non controllata e uno stile forse intenzionalmente impreciso e certamente privo di rigore formale: movimenti di macchina nervosi e a volte leziosi, inquadrature traballanti, montaggio serrato con qualche incoerenza, dialoghi incisivi per il ricco e divertente slang, ma troppo insistiti e spesso urlati o confusi, una recitazione a tratti palesemente improvvisata, con stonature e imperfezioni. Ne risulta un’avventura frenetica e crudele, condensata in una notte, con un finale intriso di lirismo crepuscolare a buon mercato. Al contrario il film appare più riuscito nello studio dei caratteri e nella rappresentazione della psicologia dei quattro giovani protagonisti, che non sono attori professionisti e interpretano sé stessi.

Fidelio, L'odysée d'Alice

"Fidelio, L'odysée d'Alice", Lucie borleteau

 

Fidelio, l’odyssée d’Alice, opera prima della trentenne Lucie Borleteau. è un dramma piuttosto scontato, con una fattura prettamente televisiva. Offre il ritratto di Alice (Ariane Labed), una ventenne che svolge i compiti di secondo ufficiale di macchina sul Fidelio, un vecchio cargo francese che naviga lungo le coste africane e nell’Oceano Pacifico. Le trasferte la impegnano per lunghi mesi ed è l’unica donna dell’equipaggio. È innamorata del suo fidanzato norvegese, ma sulla nave incontra Gaël, il capitano, già suo primo istruttore e sua grande passione giovanile. Le peripezie sessuali della giovane donna e i suoi contorcimenti psicologici, con contorno di suspence a buon mercato, a causa di incidenti drammatici nel corso della navigazione, sono trattate con toni convenzionali e superficiali. Fino ad un finale stucchevole che vorrebbe sostenere la maturata convinzione in sé stessa della protagonista, una donna libera.

Una citazione di merito va invece a Mathieu Amalric, autore finora di sei lungometraggi (di cui due TV movies), molto differenti tra loro. Ci limitiamo qui a commentare i due che costituiscono adattamenti di opere letterarie, opere molto intelligenti e di gran qualità nella messa in scena.

Le stade de Wimbledon (2001), opera seconda di Amalric, illuminata dalla presenza di Jeanne Balibar, è tratto da un romanzo di Daniele Del Giudice ed è ambientata essenzialmente a Trieste. Racconta la ricostruzione della vita e delle relazioni di Bobi Wohler, uno scrittore fantasma, imbevuto di cultura mitteleuropea e morto negli anni ’60, effettuata attraverso la ricerca compiuta da una giovane donna. La protagonista si reca quattro volte a Trieste, quattro viaggi di una giornata, interrogando vecchi amici e librai che conobbero Wohler. Poi finisce a Londra dove incontra la vecchia compagna dello scrittore e quindi si perde nelle strade attorno allo stadio di Winbledon. Ma in realtà il vero protagonista del film è il caso È un film che risulta molto personale e riflette i quesiti sulle ragioni dell’agire di un intellettuale e letterato. In particolare descrive  la ricerca di uno scrittore-viaggiatore che avrebbe frequentato Italo Svevo, Eugenio Montale e James Joyce, ma che rinunciò a scrivere e si interessò alla vita degli altri per superare il senso di vuoto. Girato in diciotto mesi, è stato realizzato senza una precisa sceneggiatura e con una piccola troupe.

 

le stade de Wimbledon

"Le Stade de Wimbledon", Matthieu Amalric

La chambre bleue, ultimo film diretto da Amalric, adatta l’omonimo romanzo del 1964 di Georges Simenon. È un noir psicologico appassionante, oscuro e destrutturato, conciso e con poche essenziali locations. Un thriller tragico con componente polar. Un film che racconta una passione sentimentale maschile, ardente e inestinguibile, con un sottofondo di forte componente erotica, che porta alla distruzione di un contesto familiare. La vicenda si svolge in un piccolo centro della provincia, nella campagna francese, durante l’estate. Il protagonista è Julien Gahyde (lo stesso Amalric), un commerciante di macchinari agricoli quarantenne, un tipo ordinario, taciturno e non particolarmente attraente, sposato con Delphine (Léa Drucker), una donna spigliata e pragmatica, e padre di una ragazzina. Un giorno l’uomo incontra casualmente, dopo anni, Esther (Stéphanie Cléau) l’innamorata della sua gioventù, divenuta donna sensuale e sposata al farmacista del paese. Da quel momento tra i due nasce un’intensa relazione extraconiugale, un affaire scandito da incontri regolari ogni giovedì pomeriggio, con scene di sesso esplicite, che si svolgono nella suite dalle pareti azzurre di un alberghetto. Nel corso di una di queste occasioni si nota il comportamento ambiguo di Delphine, vera femme fatale indecifrabile che accenna a un possibile futuro comune se lei improvvisamente diventasse una donna libera. Le scene dei momenti insieme all’amante e quelle di vita domestica in cui Julien cerca di sviare eventuali sospetti della moglie si susseguono nervosamente con un ritmo da docu-drama. Sono punteggiate da considerazioni in voice over dello stesso Julien che alterna timore e desiderio e, nei momenti di solitudine, è angosciato dal fatto di non sapere cosa pensano le due donne, Delphine e Esther. Finché un giorno il protagonista viene convocato presso il locale commissariato di polizia dove apprende che il marito della sua amante è stato trovato morto e si sospetta un omicidio per avvelenamento. Da quel momento inizia un complicato iter di interrogatori in cui i due amanti vengono messi a confronto, tra bugie, accuse reciproche, re-visioni dei momenti salienti della loro relazione e presunte ricostruzioni  delle circostanze del delitto. Poi si giunge all’atto conclusivo, il processo, un epilogo gestito con sequenze più lunghe e sobria efficacia.

La chambre Bleue

"La Chambre Bleue", Mattieu Amalric

 

Amalric rispetta abbastanza fedelmente la trama di Simenon, ma al tempo stesso se ne allontana per conseguire una dimensione ancora più opaca. Al contrario del celebre scrittore belga che fa emergere esplicitamente l’innocenza di Julien, inserisce un conturbante confronto tra i due amanti che lascia lo spettatore costantemente nel dubbio. Procede abilmente con una narrazione frammentaria e non lineare, e una cronologia ondivaga tra presente e passato, che tuttavia, pur nei meandri dell’iter procedurale dell’inchiesta e del processo, ricco di dettagli controversi, riescono a essere seccamente essenziali e a creare un continuum emozionale. La telecamera privilegia i piani fissi alla Bresson, cogliendo piccoli gesti e segni. Spesso si concentra sul protagonista maschile che è intrappolato in una situazione senza uscite e torturato dal magistrato inquirente con astruse congetture psicoanalitiche.

D’altronde Julien non è mai presentato come un uomo innocente, non tanto nei suoi atti, ma perché è continuamente ossessionato mentalmente e fisicamente dal desiderio impellente e assurdo nei confronti dell’amante, anche quando Stéphanie  sembra ormai fredda e antagonista. Uno sforzo accurato di messa in scena che valorizza l’intensità drammatica e l’angoscia comunicata dall’espressione costantemente allucinata dello stesso Amalric che, nervoso, arruffato e sofferente, offre un’interpretazione eccellente. Fino a quel suo sguardo finale rivolto agli spettatori e alla sua amante quando, ammanettati, sono condotti entrambi ad un destino comune in carcere. Peraltro occorre anche sottolineare la felice scelta del regista di utilizzare un format quadrato, 1:1,33 ratio, per ottenere un soffocante effetto claustrofobico e una fredda depurazione delle immagini. E, ancora, va segnalata la colonna sonora contundente di Gregoire Hetzel.

 

 

 

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5. FESTIVAL RENDEZ VOUS NUOVO CINEMA FRANCESES 2015

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08 - 19 / 04 / 2015

2015 Nuovo Cinema francese

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