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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 34. ISTANBUL FILM FESTIVAL - IKSV I DI LUCIANA VELHO I 2015

34. Istanbul Film Festival

Cinema di qualità

Sospesa la competizione dei film turchi per solidarietà contro la censura governativa che ha bloccato il documentario “The North” riguardante la guerriglia kurda nell’est del Paese

Dimissioni di tutte le Giurie, non assegnazione dei Premi, ma buon successo di pubblico

DI LUCIANA VELHO

"A Guerilla Documentary Bakur/North"

A Guerilla Documentary Bakur North

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Domenica 19 aprile si è concluso il 34. Istanbul International Film Festival, uno dei principali Festival cinematografici che si svolgono in grandi aree urbane, rivolto principalmente al grande pubblico. La sua programmazione ha vantato quest’anno circa 230 lungometraggi, provenienti da una cinquantina di Paesi, nel corso dei 16 giorni della sua durata. La qualificazione internazionale viene anche da altri dati rilevanti: diversi film d’autore già presentati e/o premiati in altri importanti Festivals del 2014, tra cui, Cannes, Toronto e Venezia e Sundance e Berlino 2015, decine di premières internazionali e un’ottima vetrina competitiva di features film e documentari turchi, da anni apprezzata dai critici e dai rappresentanti dell’industria stranieri.

Purtroppo quest’anno si è verificato un grave  problema che ha condizionato la programmazione di tutti i film turchi concentrata nella seconda settimana del Festival, quando vengono accolti gli ospiti stranieri. Il Ministero della Cultura turco ha bloccato la proiezione, programmata per domenica 12, del documentario turco North, dedicato alla guerriglia kurda attuata da decenni in Turchia dal PKK, con la scusa che non aveva ottenuto il permesso. In effetti in Turchia tutti gli eventi culturali e i film necessitano di un permesso /visto del Ministero per essere esibiti in pubblico, ma finora le proiezioni nei Festival ne erano praticamente esentate e poi il permesso costa e non tutti i registi e produttori, specie di documentari, pensano di far poi passare il film nelle sale e quindi non lo chiedono. Subito dopo il Ministero ha fatto sapere che era obbligatorio il permesso anche per tutti gli altri film turchi e ben pochi lo avevano avuto in precedenza. E' chiaro che é stata una censura con fini politici in vista delle elezioni parlamentari del prossimo 7 giugno. In tutta la Turchia elettorale è molto tesa perché l’attuale Presidente della Repubblica turco Recep Tayyip Erdo?an, leader del “Partito della Giustizia e dello Sviluppo” (Adalet ve Kalkinma Partisi – AKP), dichiaratamente islamico e di maggioranza relativa, uomo forte della politica turca da oltre un decennio, punta ad avere la maggioranza assoluta dei voti per poi  poter modificare la Costituzione, perseguendo obiettivi ambiziosi e preoccupanti e un progetto di “democrazia maggioritaria” centrato sulla propria persona.

In breve quasi tutti i registi turchi  hanno deciso o hanno dovuto ritirare i loro film dal Festival per solidarietà contro un atto che oggettivamente colpisce la libertà di espressione.  Si sono svolte numerose riunioni e sono stati emessi comunicati. Resta in tutti noi, della comunità del cinema, la preoccupazione per un sostanziale pericolo di possibile boicottaggio da parte del potere politico nei confronti di sceneggiatori e registi indipendenti turchi. Il governo turco, tutto teso a normalizzare la società e a promuovere un modello di grandeur turca,  potrebbe non condividere anche l’approccio realista e riflessivo - critico e l’illustrazione della “fatica del vivere”  che caratterizzano il cinema turco d’autore, nonostante la presenza di registi che hanno portato lustro al Paese,  ottenendo in questi ultimi anni riconoscimenti e prestigiosi Premi da parte delle Giurie dei più importanti Festivals internazionali: Nuri Bilge Ceylan a Cannes (in tre edizioni del Festival); Semih Kaplano?lu a Berlino; Ye?im Ustao?lu a San Sebastian; Tayfun Pirselimo?lu a Roma.

In ogni caso, tutte le Giurie del 34° Istanbul Film Festival (la Giuria Internazionale presieduta dal regista australiano Rolf De Heer, la Giuria della Competizione Nazionale presieduta dal regista turco Zeki Demirkubuz, quelle della sezione “Human Rights”, per la miglior opera prima nel cinema turco, per la competizione dei documentari turchi e quella dei critici della FIPRESCI) si sono dimesse, ritenendo opportuno, di fronte a una situazione così grave, protestare contro l’atto di censura operato del governo turco nei confronti dei filmakers turchi e kurdi.  Il Festival è comunque continuato  con un buon successo di pubblico (oltre 150.000 biglietti venduti), che ha affollato le 8 sale in cui sono stati presentati i film, disperse tra il “centro” nell’area di  Beyo?lu e altri quartieri che si affacciano sul Bosforo sia sulla sponda europea che su quella asiatica. Quindi ci sembra doveroso recensire almeno alcuni tra i 13 lungometraggi compresi nella Competizione Internazionale, che ha offerto un panorama decisamente interessante.

Listen up Philip

"Listen up Philip" Alex Ross Perry

 

Listen up Philip, terzo lungometraggio dello statunitense trentenne Alex Ross Perry, è una commedia drammatica che si colloca nel sottogenere mumblecore, caratterizzato da low budget, dialoghi naturalistici incalzanti e attori amatoriali. Philip, uno scrittore trentenne egocentrico e insoddisfatto, vive nell’entroterra della East Coast americana. Un tipo approdato inaspettatamente al successo dopo l’uscita di un primo libro e in attesa della pubblicazione del secondo romanzo. Assistiamo a un carosello di incontri e confronti tra  il protagonista e varie giovani donne che tentano di sedurlo senza successo. Nonostante i dialoghi incalzanti, infarciti di riferimenti intellettuali, fraintendimenti e i piccoli drammi, spesso gustosi,  prevalgono le noiose peripezie di sbiaditi personaggi che esibiscono un mix di frustrazione e di cinismo, in bilico tra una grottesca sofferenza e l’incapacità di amare. Gli attori, alcuni dei quali noti, Jason Schwartzman, Jonathan Pryce e Elisabeth Moss,  sono abbastanza  impacciati e mal diretti.  Anche la ricorrente voice over che commenta le vicende  con banali considerazioni sui personaggi, risulta poco opportuna.

Wild life, del francese Cédric Kahn, è un dramma familiare ispirato a fatti reali. Racconta, con toni enfatici, la vicenda di  Paco ( il noto regista e attore Mathieu Kassovitz), un trentenne anarcoide e fanatico ecologista, che entra in conflitto con la moglie che si è stancata della vita nomade che conducono da anni. L’uomo sottrae i due figli bambini alla custodia della madre e li conduce a una vita clandestina di outsiders. I tre sono continuamente ricercati dalle autorità e dalla polizia e obbligati spesso a fuggire precipitosamente  da dove si erano insediati, abbandonando le relazioni che avevano stretto, e a ricominciare una nuova vita in incognito in un altro luogo. Fino a che si stabiliscono in un alpeggio in montagna dove i ragazzi crescono liberi, ma, ormai alle soglie della maggiore età, sono pieni di dubbi. Questo atipico road movie, con toni da thriller avventuroso,  non privo di spiacevoli stereotipi e di enfatiche accelerazioni drammatiche, risulta viziato da un’intenzione di impressionare lo spettatore a scapito di un convincente studio dei personaggi.

 

Wild Life

"Wild life" Cédric Kahn

Phoenix, del tedesco Christian Petzold, è un intenso, elegante e intricato dramma d’epoca. È ambientato a Berlino, nei mesi immediatamente successivi alla resa agli Alleati dopo la sconfitta di Hitler. Una città distrutta e occupata militarmente, popolata da gente frustrata, spesso disperata per la povertà e pronta a qualsiasi atto degradante. Nelly Lenz (Nina Hoss, attrice favorita di Petzold) è una cantante ebrea quarantenne sopravvissuta al lager nazista. Una donna tuttora bella,  sofisticata e determinata, nonostante la tragica esperienza subita. Tra l’altro ha  affrontato un complesso intervento di chirurgia estetica per ricostruire parte del suo volto deturpato da una cicatrice conseguenza di una ferita da arma da fuoco. L’intervento è riuscito, ma i suoi lineamenti si sono parzialmente modificati È aiutata da un’amica benestante che non solo è attratta dalle affinità culturali e sociali con lei, ma mostra un’evidente inclinazione amorosa verso Nelly e vorrebbe convincerla a emigrare insieme in Israele.

Phoenix

"Phoenix", Christian Petzold

 

Ma la  protagonista è ossessionata dalle drammatiche circostanze del suo arresto, anni prima, da parte dei nazisti, anche perché vi sono voci che confermerebbero che fu suo marito a tradirla.  Nonostante il terribile sospetto, torna a Berlino per ritrovare Johnny (Ronald Zehrfeld), il marito pianista di cui è tuttora innamorata. Dopo varie ricerche lo  incontra: è un uomo ridotto a servire, come cameriere in un ristorante - night club, i ricchi e i militari stranieri. Incupito, scettico, cinico  e calcolatore, non solo accetta le attenzioni di Nelly, ma avendo notato la sua somiglianza con la moglie che crede morta, le chiede di assumerne l’identità per  entrare in possesso dei beni intestati alla famiglia di lei. Fino ad un finale bellissimo, amaro e struggente, costruito con un nitore essenziale nella messa in scena. Un racconto di errori di valutazione e di identità scambiate che riecheggia Hitchcock e rende perfettamente la psicologia dei personaggi intrappolati tra un passato che non possono dimenticare, un presente miserabile e un futuro oscuro e incerto. Petzold rifiuta la retorica e il moralismo, anche se, in certi momenti, eccede in un certo manierismo scenografico fuori tono.

Itsi bitsi, del danese Ole Christian Madsen, è un melodramma ricco di energia, ma anche di innumerevoli stereotipi. Un road movie epico e avventuroso che ricostruisce una tragica storia d’amore e di perdita nel quadro dei miti più frusti degli anni ’60: esperienza antiautoritaria anarchica, ribellione contro il conformismo e l’ipocrisia delle generazioni precedenti, controcultura militante, sesso libero, sperimentazione di ogni tipo di droga e musica rock. L’autore si sarebbe ispirato a fatti ed eventi reali correlati alla nascita della rock band danese Steppeulvene che ebbe una breve storia gloriosa e influenzò larghe fasce di giovani prima dello scioglimento. Il film, che vanta una scenografia d’epoca credibile e molto ricca si sviluppa tra tre continenti, Europa, Nord Africa e Asia, lungo i percorsi usuali di hippies e beatniks: Spagna, Marocco, Algeria, Turchia, Medio Oriente, Afghanistan, Nepal e India. All’inizio degli anni ’60, in Danimarca, Eik (Joachim Fjelstrup), uno spilungone ventenne, apprendista scrittore, incontra, durante una manifestazione contro l’imperialismo americano, la giovane Iben (Marie Tourell Soderberg), uno spirito libero e instabile. Ed è subito una passione travolgente, tra protesta politica, musica, marijuana e comuni giovanili alternative. Il rapporto  non si interrompe nemmeno quando, durante un periodo di separazione (Eik ha dovuto scontare alcuni mesi di carcere per una condanna per furto e danneggiamento), Iben si trova un altro amante e si trasferisce a Parigi.

Il giovane la raggiunge e ne nasce un triangolo. Iniziano a viaggiare, ma tra eventi tragici (amici morti, la dipendenza di entrambi dall’eroina), separazioni e sofferti tentativi di riabilitazione, non riescono più ad essere felici. Alla fine lei, dopo un aborto molto traumatico, entrerà nel famoso Odin Theatre, mentre lui diventerà una rock star di successo, scandalosa nei comportamenti.  Ma la loro relazione interrotta condurrà Eik a una deriva di febbrile e doloroso annichilimento fisico e spirituale senza ritorno. Nonostante un felice ritmo narrativo non cronologico e pseudo sperimentale, Madsen  non riesce a mantenere la giusta distanza dai personaggi e risolve in modo troppo superficiale gli snodi i loro psicologici.  Inoltre opta per un’estetica chiaramente improntata a impressionare lo spettatore con una facile alternanza di romanticismo, umorismo poco originale e brutale e crudo realismo.

 

Itsi Bitsi

"Itsi bitsi", Ole Christian Madsen

Star, terzo lungometraggio dell’armena, radicata in Russia, Anna Melikyan, è un dramma esistenziale tragicomico costruito con toni fiabeschi, e spesso surreali. Riecheggia, seppur in modo distorto, reali contraddizioni sociali presenti nella Russia contemporanea. La vicenda, ambientata  ai giorni nostri a Mosca, vede intrecciarsi l’esistenza di tre personaggi diversi e contraddittori. Masha è una ventenne aspirante attrice che viene dalla provincia e vive in uno squallido monolocale in un quartiere popolare. Ben conscia del proprio scarso talento, svolge vari lavori come modella e ragazza immagine in una discoteca per pagarsi una serie di interventi di chirurgia plastica e “migliorare” il proprio aspetto.

Star

"Star", Anna Melikyan

 

Kostya è un quindicenne figlio d un oligarca: si vergogna di essere ricco e privilegiato e di abitare in una villa moderna e lussuosa e lavora in incognito nella discoteca. Quando incontra Masha se ne innamora e le fa credere di essere un ladro. Rita è l’amante dell’oligarca il quale ha promesso di sposarla: una  trentenne sprezzante e modaiola che è sostanzialmente  incapace di provare sentimenti di affetto, ma vuole tenacemente avere un figlio dal suo amante. Il film contiene diversi spunti creativi e un tentativo di scandagliare le contraddizioni di una società immatura e violenta. Fa emergere la superficialità dei valori, la decadenza morale e le pulsioni di ambigua redenzione. Conduce un’esplorazione  sulla fragilità dell’esistenza e sulla morte e sulle reazioni  di chi, ancora giovane e apparentemente sano, si trova a esserne destinato. Risulta  irregolare, quantunque non privo di idee e di spunti efficaci, ma viziato e appesantito da compiacimenti, simbolismi astrusi e ripetizioni prolisse.

Anime nere (Black Souls), terzo lungometraggio dell’italiano Francesco Munzi, racconta la saga di tre fratelli appartenenti a una famiglia criminale, o ‘ndrina, della ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese di connotazione mafiosa. Il regista si è ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco. I fratelli Carbone, eredi della tradizione malavitosa rurale del padre, rappresentano perfettamente l’articolazione in epoca attuale della ‘ndrangheta. Luigi, il più giovane, trentenne spavaldo e amante del lusso, si è stabilito a Milano da dove guida manu militari gli affari, ovvero il traffico di droga, spostandosi in Europa, soprattutto ad Amsterdam dove incontra i suoi referenti sudamericani, ovvero i venditori all’ingrosso del prodotto cocaina. Anche Rocco vive a Milano. È il capo della rete commerciale del clan, ma appare come il fratello rispettabile che si è laureato e convertito in imprenditore “pulito” con moglie borghese, riciclando in imprese legali i proventi del narcotraffico. Al contrario Luciano, il più anziano  imprigionato nella memoria del padre, continua a vivere in Calabria, nella casa di famiglia di Africo, al centro dell’Aspromonte. Non ha interrotto le relazioni con i fratelli e rispetta il vincolo di sangue, ma è un tipo che ama la sua terra e le tradizioni. Ormai cinquantenne e non più coinvolto attivamente nel crimine, è un uomo che gestisce il suo status di possidente e ama coltivare i suoi poderi e badare alle sue greggi di capre. Tuttavia è tormentato perché suo figlio Leo, un giovane appena ventenne, con il mito dello zio Luigi, si atteggia a duro e bullo, facendosi forte della fama della sua famiglia e  contando sul rispetto omertoso dei concittadini. Ma non solo è viziato e frustrato, ma anche presuntuoso, inesperto e totalmente irresponsabile. Quando  una notte Leo, per rispondere a un presunto sgarro, attua una stupida provocazione sparando contro un bar protetto da un clan rivale, la situazione precipita. Luigi, arrivato da Milano per controllare lo smistamento di una partita di droga e per sistemare le cose, viene subito freddato in un agguato. È il segnale dell’inizio di una faida tra i Carbone e le altre famiglie, che da tempo aspettavano l’occasione per  detronizzarli. Rocco giunge  al paese per gestire la vendetta, ma anche Leo viene assassinato. Il truce ciclo di dolore e violenza travolge e spezza il legame tra i fratelli, portando la famiglia alla rovina. A partire da una sceneggiatura curata e approfondita, Munzi costruisce una “tragedia greca” ricca di dettagli autentici. 

Da un lato documenta con molta credibilità i rituali e le regole dell’agire delle famiglie della ‘ndrangheta, tuttora poco noti, e anche le modalità sociali e culturali del vivere nelle aree rurali della Calabria. Ne sono valido esempio  due scene: il rito di iniziazione di un nuovo picciotto con ingresso ufficiale nel clan criminale; il pranzo all’aperto, sull’aia della casa colonica nel podere di Luciano, con  presenza dell’anziano capo di un altro clan e dei suoi accoliti per combinare un matrimonio e stabilire un’alleanza volta a fronteggiare le famiglie rivali. Dall’altro offre un ritratto calibrato della psicologia dei protagonisti e dipana con sicurezza la trama di orgoglio e potere, di relazioni tra fratelli e tra padre e figlio, con, in aggiunta, alcune perle sulle donne della famiglia. Il film, cupo, potente e sinistramente vitale, si sviluppa con un ritmo coinvolgente e con contrasti e svolte narrative efficaci. Munzi possiede sguardo rigoroso e mai banale. Dimostra di aver appreso la lezione di Francesco Rosi e la reinterpreta con una spiccata valenza di realismo etologico, dirigendo al meglio il suo cast di attori, senza cadere nella facile deriva moralistica.

 

Anime Nere

"Anime Nere", Francesco Munzi

Yearning, docu-fiction del prolifico e geniale britannico Ben Hopkins, che conosce molto bene la Turchia, avendovi ambientato due suoi precedenti film, 37 uses for a dead sheep (2006) e The market – A tale of trade (2008), propone un magnifico ritratto di Istanbul, inusuale e ricco di verità nascoste. Una piccola troupe giunge a Istanbul dalla Germania con l’incarico di girare un documentario  sulla metropoli per conto di un canale televisivo minore. Iniziano subito a muoversi per le strade intervistando diversi personaggi: uno storico eccentrico che è convinto che prima della comparsa dell’uomo vi fosse una civiltà fondata sui gatti; un derviscio Sufi che ha inaugurato un caffè per gli  amanti e le persone mentalmente disturbate; un giornalista armeno; un comunista  che aderisce alla  tendenza religiosa alevita; un musulmano sunnita ortodosso; una tea lady che  si diletta con la filosofia. Poi un giorno il regista della troupe, mentre esamina i primi footage  per impostare l’editing, nota  la presenza di sagome e ombre in alcuni fotogrammi, pur ricordando con precisione che  non  si erano palesate durante il rodaggio. Perviene  alla conclusione che si tratti di fantasmi. L’idea appare intrigante e in breve diventa per lui un’ossessione. Quindi inizia a cercare i luoghi dove potrebbero essercene altri,  facendo compiere un viaggio alla sua ignara troupe dalla luce alle tenebre, ovvero dalla città viva attuale alle vestigia del passato. Molti aspetti di una realtà urbana stratificata e ricca di sfaccettature vengono mostrati e documentati: la distruzione dei vecchi quartieri come Tarlaba?i e / o la trasformazione e lo stravolgimento del loro tessuto e della loro anima; la presenza dei lavoratori immigrarti; l’opposizione sociale e politica al governo; le diverse comunità religiose. Emerge poco a poco la peculiare malinconia che  è l’essenza della città. A partire da una sceneggiatura scritta accuratamente insieme a sua moglie, la turca Ceylan Ünal, Hopkins ha diviso il suo film, strano e affascinante, in capitoli: ghosts, cats; Alevis; Gezi Park; shopping gentrification… La sua esplicita critica alla politica del partito dominante, l’AKP del Presidente della Repubblica  Tayyip Erdo?an, è ancora più contundente perché contrappone l’anima ricca di storia e la variegata umanità che convive a Istanbul ai faraonici, e in gran parte anacronistici, progetti urbanistici in atto rouge

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34. ISTANBUL FILM FESTIVAL

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04 - 19 / 04 / 2015

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