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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 65. BERLINALE 2015 I DI GIOVANNI OTTONE I 2015

BERLINALE 2015

I Premi, i migliori film e le sorprese

 

 

 

 

Di GIOVANNI OTTONE

"Taxi", Jafar Panahi

Taxi

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La sessantacinquesima edizione della “Berlinale”, riconfermando la sua tradizione di impegno e di qualità, ha presentato un’ampia varietà di proposte e si è caratterizzata per scelte coraggiose, con varie opere che affrontano temi di grande attualità e di impegno civile. Molti i nuovi lungometraggi, un totale di 120 premières mondiali e di decine di anteprime internazionali, diversi dei quali caratterizzati da forme narrative e soluzioni estetiche innovative. Il programma delle varie sezioni del Festival ha offerto sia un ampio panorama della cinematografia mondiale più attuale, attraverso il consueto mix di grandi produzioni di Hollywood  e di opere indipendenti, di finzione e documentari, sia iniziative, di alto profilo, di dibattito su temi culturali e su problemi di progettazione e di produzione cinematografica. La Giuria della “Competizione Ufficiale”, presieduta dal regista statunitense Darren Aronofsky, ha sorpreso molti critici, assegnando l’Orso d’Oro al miglior film a Taxi, del noto regista iraniano Jafar Panahi, costretto da alcuni anni a girare opere clandestine a causa di un divieto del regime teocratico del suo Paese. Purtroppo il film, che ha ricevuto anche il Premio della Giuria della FIPRESCI, appare piuttosto debole e narcisista. In sostanza l’espediente utilizzato dallo stesso regista, che, alla guida di un taxi, più o meno in incognito, incontra  diversi individui,  preoccupati da problemi diversi, appare di corto respiro. In effetti dalle discussioni che avvengono nel taxi emergono, tra le righe, problematiche sociali e politiche, questioni di giustizia e di identità, ma ne risultano solo facili clichés e artificiose contrapposizioni di opinione. Un film né efficace, né coraggioso, perfettamente tollerabile da parte degli ayatollah.

El Club

"El club", Pablo Larrain

 

Al contrario l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria è andato a quello che, a nostro giudizio è stato il miglior film del concorso ufficiale: El club (The club), quinto film del cileno Pablo Larraín. In quest’opera il regista conferma la sua scelta di un nuovo realismo che dialoga con la quotidianità e la contemporaneità di specifici contesti sociali e rivela una relazione, palese o più latente, con il tragico passato politico della dittatura militare di Pinochet. Ambientata in epoca odierna in un piccolo centro della costa, racconta l’oscura vicenda di una comunità che comprende cinque preti e una suora. Un pensionato collocato in una modesta casetta, presumibilmente “consigliato” e tollerato dal vescovo locale, ma gestito autonomamente dagli ospiti. Essi vivono insieme, ma non mostrano grande amore e concordia tra di loro. Poco a poco emerge che sono stati tutti coinvolti in passato in episodi di pedofilia o di malversazione o di violenza in combutta con il regime militare.

Ma non sono affatto pentiti, anzi cercano di negare e nascondere la loro trivialità morale. Questo è l’unico obiettivo che li spinge ad agire congiuntamente, quantunque senza esitare a danneggiare l’altro quando si deve proteggere la propria incolumità e i sordidi segreti del proprio passato. La gerarchia ecclesiastica invia un giovane e determinato padre gesuita per normalizzare la situazione, ma, alla fine, quest’ultimo non potrà né vorrà intervenire efficacemente. Un film lucido e radicale che fa emergere l’ipocrisia presente nella Chiesa Cattolica cilena e il conseguente stravolgimento delle relazioni umane. Larraín si riconferma abilissimo nel descrivere la subcultura della gente e mostra una straordinaria intelligenza nella messa in scena,  uno stile essenziale e un raffinato gioco formale che creano un’atmosfera e un paesaggio visivo che destano una viva impressione.

Ixcanul (Ixcanul Volcano), opera prima del guatemalteco Jayro Bustamante, ha ottenuto il prestigioso Orso d’Argento Alfred Bauer Prize, assegnato a “un feature film che apre nuove prospettive”. Si tratta di un film con una duplice valenza: un ritratto realistico di una comunità indigena Maya e un racconto di formazione con delicati risvolti psicologici. La protagonista, Maria, ha 17 anni e vive con la famiglia in un villaggio isolato sulle pendici di un vulcano, in Guatemala. Sono poveri e lavorano in una piantagione di caffè. I genitori le combinano un matrimonio, ma la ragazza, per sottrarsi, seduce un giovane bracciante sperando che la conduca negli USA. Invece lui parte senza di lei, lasciandola con un grave problema da risolvere. Un crocevia di scelte e di sentimenti, tra antichi rituali, difficile quotidianità e scontro con gli inganni della civiltà urbana. Un esordio maturo e autentico, non didascalico né esotico, con un ritmo lento, ma emozionante.

 

ixcanul volcano

"Ixcanul Volcano", Jayro Bustamante

Aferim

"Aferim !", Radu Jude

 

L’Orso d’Argento alla miglior regia è stato attribuito ex aequo al romeno Radu Jude e alla polacca Malgorzata Szumowska. Aferim!, terzo film di Radu Jude, è un “dark western” balcanico, con sembianze di road movie, ambientato in un’epoca cruciale. Originale e intelligente, con dialoghi ricchissimi e una triste vis comica. In Valacchia, nel 1835, un esperto gendarme e il giovane figlio inseguono a cavallo un servo gitano fuggiasco, accusato da un signorotto di avergli sedotto la moglie. Attraversano campagne e villaggi e incontrano una varia umanità, vitale, volgare e misogina. Poi catturano il malcapitato  che è destinato a una punizione terribile. La geniale parabola in bianco e nero di Jude propone un universo feudale regolato da privilegi intollerabili e un popolino dominato da orribili pregiudizi razziali. Un film che ricorda temi ed estetica presenti anche in Hard to be God (2013) di Alexei German e manifesta l’intento di mostrare le radici di una tragica problematica sociale discriminatoria che persiste tutt’oggi.

Body, di Malgorzata Szumowska, è una black comedy, con tinte thriller, complicata da una problematica miracolistica e sovrannaturale posticcia che vorrebbe affascinare lo spettatore. Un film bislacco e pretenzioso, in equilibrio precario tra scene prosaiche, atmosfere stranianti e uno humour poco efficace. Janusz, esperto coroner incaricato di un caso di sospetta morte violenta, è sotto stress per il troppo lavoro. Inoltre è preoccupato perché sua figlia, la ventenne Olga, affranta a causa della morte della madre, è anoressica. Temendo che la giovane possa suicidarsi, la affida alle cure di una clinica. Qui Olga incontra Anna, una psicologa che ha perso un bambino ed è convinta di poter comunicare con gli spiriti dei morti.

The pearl button

"The pearl button", Patricio Guzman

 

L’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura è andata meritatamente a Patricio Guzmán che ha scritto il documentario  El botón de Nácar (The pearl button), di cui è il regista. Come il suo precedente Nostalgia de la luz (2010), è un film che riunisce temi etologici, politici, filosofici, scientifici e artistici. È una meditazione che esplora la tradizione culturale di un popolo e la sue tragedie indimenticabili a partire dall’essenza geofisica del suo territorio. È soprattutto un film emozionante perché si nota che la forza e l’ispirazione, per affrontare, con serena lucidità, temi cruciali e dolorosi, derivano all’autore da una analisi e da una memoria molto meditata. Partendo dai temi del ciclo dell’acqua e degli oceani, il regista delinea la relazione controversa e ambivalente tra i cileni e il mare in un Paese lungo e stretto che vanta circa 4200 chilometri di coste dal confine con il Perù all’estremo della Patagonia.

Poi si concentra su quella regione più meridionale dove i ghiacciai delle Ande incontrano l’Oceano e dove la costa aspra si complica con innumerevoli isole e isolotti. Una terra dove vissero gli indigeni delle tribù Patagoniche, massacrati pressoché totalmente dalle infermità e dalla violenza portate dai bianchi durante il secolo scorso: una cultura scomparsa e un genocidio che non può essere dimenticato. Quelle stesse acque e isole hanno visto le avventure dei marinai inglesi. Poi in questi luoghi, durante la dittatura militare di Pinochet, è stato stabilito uno dei più duri campi di prigionia, quello dell’isola di Dawson, dove sono periti numerosi militanti democratici  e dei partiti della sinistra. Guzmán stesso guida la narrazione intervenendo a più riprese, interpone continuamente i temi, opera digressioni e conversa con vari interlocutori: scienziati, biologi, intellettuali, archeologi e parenti delle vittime. A tratti risulta un poco saccente e manifesta un  malcelato orgoglio nazionale, ma sono dettagli che non inficiano la qualità di un’opera eccellente. Il ritmo è lento, ma è scandito da una rara tensione poetica e da una genuina spiritualità laica. Il film ha ottenuto anche il Premio della Ecumenical Jury. 

45 years

"45 years", Andrew Haigh

 

Per quanto riguarda  gli altri Premi, sono stati attribuiti a film la cui qualità ci è sembrata minore o discutibile. L’Orso d’Argento alla miglior attrice e al miglior attore sono stati assegnati rispettivamente a Charlotte Rampling e a Tom Courtenay, entrambi protagonisti di 45 years, terzo film del britannico Andrew Haigh. La professionalità dei due veterani, peraltro non particolarmente memorabili e affiatati in questo caso, non si discute. Ma il film, che descrive la crisi di un’anziana coppia benestante che vive nella campagna inglese e si appresta a celebrare, con una grande festa, l’anniversario di 45 anni di matrimonio, è un melodramma stiracchiato e melenso che, nonostante le contorsioni psicologiche, non suscita mai vere emozioni. L’Orso d’Argento per un notevole contributo artistico nelle categorie tecniche ha premiato ex aequo la direzione della fotografia di due film.

Sturla Brandth Grøvlen è stato prescelto per il suo lavoro di cameraman in Victoria, quarto film del tedesco Sebastian Schipper. Girato in un unico piano sequenza, racconta, con uno stile francamente televisivo, una “one night story”, ambientata a Berlino e del tutto inverosimile. È un dramma - thriller in cui una studentessa spagnola ventenne, che lavora part time in un bar, si lascia coinvolgere da un gruppo di “simpatici” e grotteschi balordi e insieme compiono una tragica rapina ad una banca. Un tour de force prolisso e grossolano che punta vanamente a suscitare facili “emozioni forti”. Evgeniy Privin e Sergey Mikhalchuk, sono stati scelti per la loro fotografia, davvero pregevole per la variegata tavolozza di colori bruni e la luminosità rarefatta, in Pod electricheskimi oblakami (Under electric clouds), quarto film del trentenne russo Alexey German Jr., autore finora di opere notevoli. In questo caso si tratta di un collage drammatico di sette episodi che, presumibilmente, vorrebbero rappresentare lo stato di collasso morale e spirituale della popolazione russa, tra dilemmi, frustrazioni, rammarico e difficile capacità di stabilire relazioni con gli immigrati delle Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Un affresco complesso, caratterizzato da diversi profili psicologici e contrasti culturali e politici, simbolismi e metafore piuttosto criptiche. Aleksey German Jr. ha optato per una messa in scena teatrale, con sequenze prolungate e una coreografia oscillante dei personaggi i cui dialoghi risultano spesso artificiosi. Un’opera contraddittoria, più verbosa che poetica, che, complessivamente, appare datata, pretenziosa e carica di irritanti toni autoreferenziali.

Al contrario nessun riconoscimento è stato attribuito a  uno dei film più riusciti e divertenti in concorso: Eisenstein in Guanajuato, del veterano regista e artista britannico Peter Greenaway. Si tratta di una ricostruzione paradossale del soggiorno del grande regista sovietico Sergej Ejzenštejn nella piccola città storica di Guanajuato nel Messico centrale, avvenuto nel 1931. Un affresco brillante ed esilarante, ricco di uno humour caricaturale, grottesco e vagamente malinconico, che racconta l’esperienza del maestro che girò il famoso film Que Viva Mexico, rimasto incompiuto. Greenaway immagina che il cineasta concettuale, messo a confronto con un’umanità, usi, costumi e una cultura così diversa dalla sua ne rimanga condizionato. Affascinato dalle difficili condizioni di esistenza dei campesinos, ma anche dalle disinvolte trasgressioni morali e sessuali di un intellettuale locale che gli fa da mentore, Ejzenštejn mette in discussioni i suoi ideali comunisti e la sua devozione allo stalinismo.

 

Eisenstein in Guanajuato

"Eisenstein in Guanajuato", Peter Greenaway

Greenaway costruisce un’opera ricchissima e colorata, una pochade intelligente con geniali soluzioni stilistiche: close-ups estremi, ampio uso di split-screens, un montaggio drammaticamente stravagante, continui cambi del ritmo e dei toni narrativi, dal sincopato, all’epico, al melodrammatico, costumi fantasiosi e una recitazione espressionista. Peccato che nel prolungato finale l’accumulazione delle immagini e delle suggestioni diventi un poco noioso e meno efficace.

Knights of cup

"Knights of cup", Terence Malik

 

Non si può inoltre non menzionare il fatto che alcuni film in concorso molto attesi, perché “certificati” da un’affermata identità artistica dei loro noti registi, si sono rivelati opere deludenti, con convenzionali tratti melodrammatici o caratterizzate da ridicole velleità predicatorie, filosofiche o moralistiche e da sguardi eccessivamente accondiscendenti o da sterile manierismo formalista. Ne citiamo in particolare tre. Knights of cup, di Terrence Malick, vorrebbe essere una parabola sulla crisi di una star di Hollywood, interpretata da Christian Bale. Un uomo assuefatto al successo, ma condizionato dal vuoto esistenziale, tra muta alienazione, istinti disperati e velleità romantiche e avventurose. In realtà si tratta di un’opera  che ripropone malamente alcuni temi e concetti presenti nel suo precedente  e deludente Tree of life (2011): la dicotomia tra pragmatismo e ideali; il contrasto tra innocenza e colpa; la dimensione paesaggistica che non è un semplice sfondo naturalistico.

E permane l’impressione che il tutto sia viziato da una pesante ottica ideologica improntata alla trascendenza. Ne deriva una debolezza narrativa del film e un girare intorno ai personaggi senza mai riuscire a raccontarli perché sono schiacciati dalle metafore. E, ancora una volta, scelte stilistiche narcisistiche e magniloquenti: una fastidiosa voice over sovrapposta alle immagini che commenta e anticipa le azioni di personaggi spaesati, poco espressivi e molto laconici;  un flusso di immagini ricercate e “patinate” con conturbanti e oziosi movimenti di macchina; una mescolanza di scenari naturali incontaminati e fredde architetture funzionali; una colonna sonora enfatica in cui predominano i toni New Age.

Every thing will be fine, di Wim Wenders, è un melodramma esistenziale che sposa in pieno i peggiori clichés dell’ideologia e dell’immaginario americani: la colpa, il dolore, la sofferenza, la rabbia, il pentimento e il perdono. Una costruzione drammatica banale e patetica, con una direzione degli attori imbarazzante e, inoltre, una colonna sonora fastidiosa, ridondante e invadente, che anticipa sempre le svolte narrative. Queen of the desert, di Werner Herzog, propone l’itinerario esistenziale di Gertrude Bell (1868 – 1926), figlia di una facoltosa famiglia britannica, divenuta scrittrice e storica, nonché arruolata dai servizi segreti inglesi in virtù della sua assidua frequentazione con le popolazioni locali in Siria e in Arabia Saudita. Una donna che giocò un ruolo decisivo, all’inizio degli anni ’20, nel favorire il nuovo assetto del Medio Oriente sotto l’egida della politica neocoloniale britannica. Un percorso di intrighi e di valentia che si incrociò con quello del leggendario Colonnello Lawrence.

 

The Dark horse

"Every thing will be fine", Wim Wenders

Purtroppo il film è un polpettone melodrammatico, pieno do stereotipi e del tutto privo di visione critica, ironia e understatement.  Non sono sufficienti una discreta  scenografia con costumi d’epoca e qualche spettacolare sequenza nel deserto per salvare un film decorativo, tipico prodotto dell’industria di Hollywood, per molti versi fasullo e grottesco, assolutamente  lontano dal magnifico approccio autoriale di Herzog (basti pensare ad alcuni suoi capolavori quali Aguirre, the Wrath of God, Woizeck e Fitzcarraldo) e marcato dall’infima recitazione di Nicole Kidman, James Franco e Robert Pattinson.

Analizziamo quindi più estesamente, tra diversi film di qualità presenti nella sezione “Panorama”, tre opere che si sono poste come gradite sorprese.

Ned Rifle

"Ned Rifle", Hal Hartley

 

Ned Rifle, del noto regista statunitense Hal Hartley, attivo da 25 anni, è un affascinante “melodramma comico - noir”. Si tratta dell’episodio conclusivo di una saga dopo i precedenti Henry Fool (1997) e Fay Grim (2006). Una satira feroce contro una certa subcultura della provincia americana, tra  sette religiose e nevrosi per i complotti. Il protagonista è Ned, un giovane inquieto che, compiuti 18 anni, lascia la comunità evangelica in cui è cresciuto dopo la condanna di sua madre Fay all’ergastolo per terrorismo antistatale. Vuole uccidere suo padre Henry, il misterioso delinquente ritenuto responsabile della detenzione di Fay. Poi incontra Susan, una giovane femme fatale che gli nasconde un passato di malattia psichiatrica e un antico legame proprio con Henry. Ambientato a New York e a Seattle, il film presenta personaggi bizzarri che tentano di ingannarsi l’uno con l’altro, false piste, atmosfere ambigue, dialoghi ricchi di doppi sensi e svolte narrative eccentriche e fatali.  

Hartley, icona del cinema indie, orchestra un godibile teatro dell’assurdo con uno humour caustico e uno stile visivo unico. Il film ha ricevuto il Premio della Ecumenical Jury quale miglior film della sezione.

Paridan az ertefa kam (A minor leap down), opera prima dell’iraniano Hamed Rajabi, ha ottenuto il Premio della Giuria FIPRESCI quale miglior film della sezione. Propone un eccellente ritratto femminile e un intreccio pluristratificato di crisi esistenziale e sociale. La trentenne Nahat, al quarto mese di gravidanza, apprende che il feto è morto e che dovrà essere rimosso. Né sua madre, né la sorella, né il marito sembrano poter comprendere il suo dramma. Quindi tace, ma poi si ribella con atti provocatori che sovvertono l’etica del mondo borghese in cui vive. Rajabi descrive i suoi comportamenti senza giudicarla e inquadra con lucidità l’impotenza di una classe media anestetizzata, tra le soffocanti regole del regime teocratico, le consuetudini di un’esistenza standardizzata, l’assuefazione al consumismo e l’abitudine alla menzogna. Un approccio e uno stile che ricordano i film di Asghar Farhadi, essendo ancora più radicali.

 

A minor leap down

"A minor leap down", Hamed Rajabi

Iraqi Odyssey

"Iraqi Odyssey", Samir

 

Iraqi Odyssey, di Samir, irakeno, ma radicato in Svizzera fin dall’adolescenza, è un magnifico documentario che intreccia una saga familiare e l’accurata disanima della travagliata  storia moderna dell’Iraq all’interno del mondo arabo.  Il punto centrale del film riguarda la diaspora della famiglia del regista in quattro continenti. Un clan di classe media-alta, guidato da un patriarca liberale, che fin dagli anni ’40 del secolo scorso si è impegnato su posizioni secolari in difesa dell’indipendenza nazionale e per il progresso, la modernizzazione e la laicità democratica. I genitori e gli zii del regista, che si consideravano liberi pensatori, aderirono al partito comunista e furono perseguitati da Saddam Hussein. Samir, che ha 59 anni, compie un viaggio intrigante, che tocca Abu Dhabi, Auckland, Sydney, Los Angeles, Buffalo, Londra, Parigi, Mosca e Zurigo, per incontrare 5 fra zii e cugini.

Ne risulta uno straordinario ritratto in cui si mescolano relazioni affettive, ricordi, sogni infranti, autocritiche e rivelazioni, motivi politici e riflessioni sulla tolleranza. E anche una genuina ricostruzione critica della storia dell’Irak che ripercorre la fase finale dell’Impero Ottomano, l’epoca del Mandato di Amministrazione Britannico voluto dalla Lega delle Nazioni, la resistenza anti-britannica e la dichiarazione di indipendenza, l’ascesa al potere del partito nazionalista Baath e i legami con l’URSS, la spietata dittatura e il radicalismo di Saddam Hussein, la “guerra di liberazione” guidata dagli USA nel 2003 e le responsabilità occidentali nell’attuale disgregazione del Paese.  

Commentiamo brevemente anche altri lungometraggi di buon livello presentati in Panorama.

Al-hob wa al-sariqa wa mashakel ukhra (Love, theft and other entanglements), opera prima del palestinese Muayad Alayan, è una commedia drammatica, ambientata nei territori della West Bank occupati dagli israeliani. Il protagonista è un trentenne palestinese che sopravvive rubando auto, smontandole e rivendendo i pezzi di ricambio. L’uomo è tuttora coinvolto in una travagliata storia d’amore con la ex fidanzata fin dalla gioventù, che lui aveva abbandonato dopo averla messa incinta e che ora è sposata con un agiato imprenditore. Poi uno strano e beffardo destino lo porta ad essere ricercato da una delle violente milizie di guerriglieri palestinesi. Un film sorprendente per la qualità della scrittura, le scelte della messa in scena, lo humour surreale e l’indovinata colonna sonora vagamente jazz. Un cinema molto promettente, sulle orme di Jim Jarmush e di Otar Iosseliani.

 

Love, theft and other entanglements

"Love, theft and other entanglements", Murad Alayan

Pioneer Heroes

"Pioneer Heroes", Natalia Kudryashova

 

Pionery - Geroi (Pioneer Heroes),  opera prima della russa Natalia Kudryashova, è un interessante dramma esistenziale con al centro un gruppo di giovani. Il film si muove poeticamente tra passato e presente, combinando flashbacks e flashforwards. I protagonisti sono fortemente legati dalla comune infanzia trascorsa in provincia, a Veliky Novgorod, dove nel 1987, in epoca sovietica, erano Giovani Pionieri dell’organizzazione comunista. Un’epoca in cui vissero la propaganda del regime ed esperienze di  piccole gioie e di molti dolori legati all’artificiosa concorrenza tra loro imposta dai metodi autoritari e ipocriti del regime. 25 anni dopo tre di loro, stabilitisi da anni a Mosca, devono confrontarsi con crisi esistenziali,  contraddizioni e pericoli derivanti da conflitti irrisolti. Un film abbastanza sincero e ben strutturato, che fa emergere lucidamente il groviglio di memorie opprimenti del passato e di disillusioni e speranze presenti nella realtà contemporanea post sovietica, fornendo anche qualche genuina emozione.

De ce eu? (Why me?),  terzo film del romeno Tudor Giurgiu, è un discreto thriller politico ambientato nell’odierna Bucarest dove prosperano malaffare e corruzione. Un’opera che ricorda, in qualche modo, il clima cupo e la denuncia civile della situazione del Paese presenti nei notevoli drammi - thriller a sfondo politico realizzati da Damiano Damiani negli anni ’60 e ’70. Al centro della vicenda vi è  il trentenne Christian, un giovane e ambizioso giudice istruttore. Un uomo di ceto modesto, pignolo e onesto, deciso a farsi strada  come docente universitario e nel lavoro a Palazzo di Giustizia. Incaricato di indagare un delicato caso di corruzione a carico di un magistrato più anziano, ritenuto scomodo per le sue istruttorie, il protagonista scopre una losca rete delinquenziale che coinvolge politici, funzionari pubblici e giudici corrotti. Quando decide di incriminare i veri colpevoli finisce per capire di essere stato manipolato e subisce il boicottaggio feroce dei suoi superiori che lo escludono dalle indagini e dalla carriera. Un film ben costruito e abbastanza ben interpretato, quantunque non sempre efficace nelle svolte narrative.

Petting zoo, opera prima di Micah Magee, americana radicata a Berlino, è un. coming-of-age film fresco e convincente. La storia è ambientata in una cittadina del Texas, uno stato notoriamente conservatore con una maggioranza della popolazione religiosa praticante. La protagonista è Layla, una brillante studentessa di 17 anni che frequenta l’ultimo anno delle scuole superiori. Dopo una relazione con un compagno di scuola pure minorenne e spiccatamente irresponsabile, la ragazza  resta incinta. Quando riceve l’offerta di una borsa di studio universitaria pensa di abortire.  Ma in seguito decide portare a termine la gravidanza, continua a studiare e accetta lavori precari, prima in un call center e poi come cameriera in un ristorante. Un’ambientazione molto credibile, con ottimi spunti documentaristici, e un ritratto femminile tenero ed empatico che evita accuratamente la retorica consolatoria.

 

Petting Zoo

"Petting Zoo", Micah Magee

Out of my hand

"Out of my hand", Takeshi Fukunaga

 

Out of my hand, opera prima di Takeshi Fukunaga, giapponese radicato a New York, è un dramma esistenziale molto interessante. In una prima parte girata in Africa, in Liberia, si racconta la difficile condizione dei lavoratori addetti alla raccolta del caucciù nelle piantagioni. Un quadro immutabile da generazioni: paghe infime, impegno gravoso e continua incertezza rispetto agli ingaggi e agli orari. Viene organizzato uno sciopero, ma la protesta fallisce a causa di divisioni, boicottaggi e anche liti all’interno delle famiglie. Cisco, uno di quegli uomini, si trasferisce a New York presso un cugino per guadagnare il denaro necessario a mantenere sua moglie e i due bambini. In breve diventa taxista. Poi un giorno incontra Jacob, un connazionale che gli rammenta un loro comune tragico passato di child soldier, un’esperienza che il protagonista non ama ricordare, Da quel momento l’uomo, che si rivela essere un protettore di prostitute, si inserisce nella vita di Cisco diventando una presenza costante, sgradevole e potenzialmente pericolosa. Fukunaga offre uno spaccato etnico, culturale e sociale ricco di dettagli, dimostrando indubbie qualità narrative e di direzione degli attori.

El incendio (The fire), opera seconda dell’argentino Juan Schnitman, è un dramma di coppia concentrato in un giorno e una notte. Un film intenso quantunque non perfettamente riuscito. La vicenda si svolge a Buenos Aires. I protagonisti sono due trentenni, Lucía e Marcelo, che convivono da tempo e si apprestano a trasferirsi in un nuovo appartamento acquistato con il denaro elargito dai genitori di lei. Sono due individui insicuri e oppressi da varie  preoccupazioni lavorative e personali. Lui è un insegnante sotto stress a causa delle lamentele dei genitori degli alunni, mentre lei  ha litigato con il padrone del ristorante dove lavora ed è tormentata da una tosse stizzosa. Un inconveniente determina il rinvio del trasloco al giorno seguente. Nella successive 24 ore le contraddizioni tra Lucía e Marcelo si esacerbano, con equivoci e recriminazioni. Si determina un gioco al massacro con crescente violenza verbale, e in parte fisica, tra accuse reciproche, momenti di disperazione e tentativi di riconciliazione.

 

The Fire

"The Fire", Juan Schnitman

I due mettono a nudo sentimenti e paure senza alcun ritegno. Schnitman propone una  storia di veemente confronto di coppia già vista in altri film, soprattutto europei e latinoamericani, realizzati negli ultimi 15 anni. Dimostra di non aver molto progredito rispetto al suo primo film El amor (Primera parte) (2004), diretto insieme a Fadel, Mauregni e Mitre, una sorta di curioso docu-drama sull’evoluzione dell’amore di una coppia di venticinquenni. Purtroppo non riesce a mantenere la giusta distanza rispetto all’evoluzione drammatica della storia, risultandone eccessi urlati e violenti che non appaiono del tutto autentici. Tuttavia il film  ha il merito di apparire anche come una sorta di incisiva metafora delle tensioni e delle nevrosi presenti nella società argentina di oggi, soprattutto a livello di piccola borghesia depauperata.

Inoltre analizziamo altri due film di Panorama molto meritevoli, già presentati nel gennaio scorso al “Sundance Film Festival”.

The Second Mother

"The Second Mother", Anna Muylaert

 

Que horas ela volta (The second mother), quarto film della brasiliana Anna Muylaert, ha ottenuto sia il CICAE Art Cinema Award sia il Premio del Pubblico Panorama Audience Award. È una commedia molto riuscita e divertente, ambientata a São Paulo. Al centro della vicenda vi è il confronto tra una domestica a tempo pieno cinquantenne, proveniente dal povero Nordeste, e la famiglia di classe alta dove presta servizio. Val lavora da molti anni nella splendida villa di Carlos e di Dona Bárbara e mantiene una relazione affettiva  materna nei confronti del loro unico figlio Fabinho, un diciassettenne ben educato, ma viziato e immaturo. Un giorno riceve la notizia che sua figlia Jèssica, pure diciassettenne, che non vede da 10 anni, essendo cresciuta con il padre da cui Val ha divorziato, verrà a São Paulo per svolgere l’esame di ammissione alla Facoltà di Architettura. Essendo Val una persona di fiducia, i suoi datori di lavoro acconsentono al fatto che la ragazza si sistemi temporaneamente con  la madre nella villa.

Ma l’arrivo di Jéssica, che si dimostra intelligente, matura ed estroversa, mette in crisi usi e costumi della casa, anche perché pone sua madre di fronte alle contraddizioni insite nel suo status. Un film rivolto al grande pubblico, che adatta intelligentemente motivi presenti nelle telenovelas televisive brasiliane. Ma anche un’opera con una chiara impronta autoriale che propone, pur in versione parodistica, un’eccellente genuina  rappresentazione, ricca di dettagli autentici, dei rapporti sociali tra ”servi” e “padroni” tuttora presenti nella società brasiliana. Peccato che il finale sia troppo artificiosamente politically correct, essendo attento a ricondurre la storia in una fantasiosa prospettiva di presa di coscienza progressista da parte di Val.

Nasty baby, sesto film del cileno Sebastián Silva, è stato realizzato e prodotto negli USA.  La vicenda si svolge a Brooklyn, New York, e propone il ritratto di un gruppo di presuntuosi bohemians, che si dibattono tra lavori precari ed esperienze artistiche di dubbia qualità,  con la costante difficoltà a mantenere le loro costose abitudini per essere alla moda. Al centro dell’intreccio vi è una coppia di maschi gay trentenni formata dal nevrotico Freddy (lo stesso Sebastián Silva), di origini latinoamericane, e dal più bonario Mo che è black. Freddy è ossessionato dal desiderio di avere un figlio, al punto di costruire una video performance pop surreale basata sui neonati. I due convincono la loro carissima amica Polly a sottoporsi ad inseminazione artificiale con lo sperma di quello tra loro che risulta più fertile per rimanere incinta. Fantasticano su un futuro bambino con tre genitori. Il loro appartamento in una vecchia casa d’epoca è il crocevia di un va e vieni di eccentrici amici e conoscenti.

 

Nasty Baby

"Nasty baby", Sebastian Silva

Poi, giorno dopo giorno, i protagonisti iniziano ad essere molestati da un vecchio negro homeless un po’ svitato, che staziona in strada e non perde occasione per attaccare briga e insultare inquilini e passanti. Finché una sera accade un fatto tragico che  potrebbe mettere in crisi e in pericolo le loro esistenze. Silva costruisce un film sorprendente, coraggioso e intelligente. Si tratta di una satira feroce di una tipologia umana e di un modo di vivere e di pensare, con miti maniacali e comportamenti bizzarri, molto riconoscibili e presenti nelle metropoli degli USA. Al di là di uno humour molto particolare, con tratti acidi e paradossali, propone una riflessione, del tutto aliena da ogni retorica moralista, sulla fragilità delle coscienze e sui limiti della convivenza e della tolleranza nella società statunitense.

Citiamo infine alcuni film notevoli presentati nello “International Forum of New Cinema”, un’eccezionale vetrina del cinema di giovani registi di tutto il mondo. Una sezione della Berlinale che offre  annualmente una selezione di film (features, documentari e “crossover” tra generi culturali e tra diverse forme estetiche) che mettono a fuoco aspetti singolari di vicende esistenziali e sociali e sviluppano visioni soggettive non convenzionali.

Mud Woman

"Mud Woman", Sergio Castro San Martin

 

La mujer de barro (Mud woman), opera seconda del cileno Sergio Castro San Martín, è un eccellente dramma esistenziale nell’ambito di un preciso contesto sociale. Propone il ritratto di Maria, una proletaria quarantenne madre di una bambina, che lavora come stagionale in un’azienda agricola. La donna reagisce all’abuso di cui è vittima, compiuto da un rozzo sovrintendente. Castro San Martín  costruisce una messa in scena realistica e ben calibrata, mentre Catalina Saavedra, nel ruolo della protagonista, offre un’interpretazione magistrale caratterizzata da forza espressiva e pathos. Mar, opera seconda della cilena Dominga Sotomayor, è una convincente commedia drammatica. La vicenda si svolge durante l’estate australe a Villa Gesell , una cittadina turistica sulla costa atlantica sabbiosa a sud di Buenos Aires. Martín e Eli, una coppia di trentenni porteños, trascorrono una vacanza in un resort.

In un quadro di rilassatezza e di innocui divertimenti, poco a poco, tra i due si instaura uno stato di  tensione, tra disaccordi, fastidi e timori. Un malessere che si accentua quando li raggiunge la madre del giovane. Il film configura un ritratto di relazioni familiari e di gruppo minimalista, ma pregnante, intimo, sottile e divertente. Ma fotografa anche l’immagine assurda di una società in preda a una misconosciuta condizione di immaturità e di incoscienza.

Violencia (Violence), opera prima del colombiano Jorge Forero è un film impressionante per la lucida essenzialità priva di qualsiasi deriva didascalica. Propone un puzzle di tre storie ambigue, ma sconvolgenti nella loro apparente “normalità”. Tre episodi diversi, forse contemporanei, nello stesso giorno, che descrivono la condizione di ordinaria violenza e di reiterati omicidi che è presente tuttora in Colombia. Sono situazioni che richiamano, senza esplicitarle, alcune piaghe che condizionano inesorabilmente la vita sociale ed evocano un tessuto connettivo che avvolge il Paese in una macabro sudario.

Chaiki (The Gulls), opera prima della russa Ella Manzheeva, è un dramma esistenziale che si svolge in inverno, all’inizio di un nuovo anno. Un film molto interessante e ricco di atmosfere. La protagonista è Elza, una ventenne sposata che vive in un villaggio, sulle rive del Mar Caspio, in Calmucchia, una Repubblica autonoma nell’ambito della Federazione Russa con lingua e cultura proprie e diffusione della religione buddhista. La donna soffre silenziosamente a causa di una complessa situazione familiare. Suo marito è un pescatore illegale sempre a rischio di pericolosi inseguimenti e detenzioni da parte della polizia. Inoltre si sente vincolata da un intricato mix di doveri e tradizioni in un clan dominato dalla suocera che non la apprezza e la discrimina. Un microcosmo monotono e triste. Poi, a causa di un insieme di fatali urgenze, Elza si reca nella cittadina, capoluogo territoriale, e prova una sensazione di pericoloso squilibrio. Manzheeva costruisce con cura un’attraente combinazione di  risvolti etnici, culturali e psicologici, sfruttando al meglio la natura particolare delle locations ed evitando i facili clichés.

 

The Gulls

"The Gulls", Ella Manzheeva

End of winter

"End of winter", Kim Dae-hwan

 

Cheol won gi haeng (End of winter), opera prima del sudcoreano Kim Dae-hwan, è un dramma familiare ambientato a Cheolwon, una cittadina dell’interno, durante l’inverno. Dopo la cerimonia per il suo pensionamento, un anziano insegnante pranza in un ristorante insieme alla moglie, ai due figli e alla nuora. Improvvisamente annuncia loro la sua decisione di divorziare dalla consorte, senza fornire ulteriori spiegazioni. Nel frattempo una fitta tormenta di neve li costringe a rimanere a Cheolwon, condividendo per tre giorni lo stesso piccolo appartamento, tra incomprensioni e bisogni conflittuali. Gradualmente emerge il complicato passato di ogni componente della famiglia. Kim Dae-hwan descrive con cura le relazioni e i profili psicologici di personaggi che non godono di veri spazi per la propria intimità. Manifesta uno stile originale, configurando un caleidoscopio di sentimenti in ogni sequenza girata in interni.

 

 

 

 

 

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65. BERLINALE FILM FESTIVAL 2015

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05 - 15 / 02/ 2015

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Berlinale 2015 End of winter

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