La trentaduesima edizione del “Torino Film Festival”, svoltasi dal 21 al 29 novembre, ha riconfermato la sua posizione quale principale appuntamento italiano, che si svolge in un ambito metropolitano, con profilo internazionale, per cineasti, cinefili e pubblico in generale. È un evento con una precisa connotazione di selezione e di ricerca a favore di un cinema nuovo o poco conosciuto e quindi da recuperare, essendo “necessario” per le sue qualità narrative e per la sperimentazione di linguaggio visivo e non. Inoltre da anni, pur confermando di prediligere le opere prime e seconde di giovani registi, si è aperto sia al cinema di genere d’autore, sia ad una vocazione di anteprima italiana di film di qualità, che dimostrano una particolare forza narrativa o caratteristiche spettacolari e anche valenza commerciale, presentati in altri Festival prestigiosi dello stesso anno (Berlino, Cannes, Locarno,Toronto, ecc.). Si tratta quindi di una rassegna assolutamente originale perché, attraverso i suoi incontri, i suoi incroci e le sue “provocazioni”, stimola e assicura i confronti e i contatti tra gli autori e i tecnici del settore, in particolare quelli che lavorano con low budgets, e con il pubblico, in particolare i giovani ventenni e trentenni. Senza dubbio i numeri del Festival sono lusinghieri: circa 180 film in programma, in larga parte lungometraggi, provenienti da tutti i continenti, con preponderanza di europei e americani, e circa 300 tra attori e registi presenti. Il pubblico, secondo le prime stime, ha raggiunto le 90.000 presenze complessive, alle varie proiezioni, e si sono registrati oltre 2000 accreditati, di cui circa 600 giornalisti. Pur essendo il primo anno in cui la Direzione è stata affidata formalmente a Emanuela Martini, nota critica e programmatrice, esperta del cinema britannico e già Coordinatore, nel 2007 e 2008, e poi Vicedirettore, dal 2009 al 2013, del Festival, la mission storica della rassegna non è cambiata, in quanto il “Torino Film Festival” continua ad essere una buona vetrina delle nuove tendenze cinematografiche, della produzione indipendente, del “fuori formato” e del documentario, con proficui confronti fra autori contemporanei e del passato, presenti nelle consuete interessanti Retrospettive tematiche offerte ogni anno al pubblico.
Il programma e la formula della manifestazione torinese hanno presentato continuità rispetto alle edizioni dell’ultimo quinquennio. Una selezione complessivamente ricca di scelte coraggiose e fortemente volute e un cinema indipendente, fuori dagli schemi e dalle convenzioni, a tutto campo. Accanto alla consueta sezione competitiva internazionale “Torino 32”, che ha presentato 15 lungometraggi, con prevalenza di registi europei, sono stata confermate le seguenti altre sezioni: Festa mobile, dedicata a film di autori già affermati, anteprime di film di qualità in uscita nelle sale, e ad alcuni documentari, vere “scoperte” con forte valenza culturale e antropologica; Diritti e rovesci, dedicata a documentari- ritratti, con contenuti politici e civili, di registi italiani; After hours, dedicata al cinema di genere drammatico, con prevalenza di thrillers e horrors, con un focus sul regista statunitense Jim Mickle; TFF Doc, il tradizionale spazio competitivo articolato in documentari internazionali e documentari italiani; Italiana. Corti, competizione di cortometraggi italiani; Onde, dedicata al cinema internazionale più sperimentale e fuori formato, con un focus sulla regista statunitense Josephine Decker; Spazio Torino, competizione di cortometraggi riservata a registi nati o residenti in Piemonte; TorinoFilmLab, riservata a lungometraggi internazionali di giovani autori selezionati, realizzati e prodotti con l’ausilio del laboratorio legato al Festival, dotato annualmente di un fondo di 1 milione di euro, dedicato alla formazione, allo sviluppo, all’edizione e alla distribuzione di progetti cinematografici e quindi alla sceneggiatura, alla regia e alla distribuzione dei film premiati annualmente. E infine New Hollywood, la seconda parte della Retrospettiva, iniziata lo scorso anno, dedicata ai nuovi registi che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, hanno rivoluzionato in termini tematici, stilistici e produttivi il cinema americano. Autori quali Mike Nichols, Arthur Penn, Sam Peckinpah, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Jerry Schatzberg, Brian De Palma, Sydney Pollack, Martin Scorsese, Michael Mann, John Sayles, Jonathan Demme, Lawrence Kasdan e altri, che hanno creato nuovi linguaggi, proponendo la quotidianità densa di inquietudine e di nuove problematiche sociali, culturali e politiche, scoprendo in chiavi diverse la figura dell’antieroe e lanciando nuovi attori destinati a diventare icone, quali, ad esempio, Al Pacino, Dustin Hoffmann, Robert Redford, Kris Kristofferson, Jack Nicholson, Karen Black, Jane Fonda, Glenn Close, Jeff Goldblum, Nick Nolte, Richard Dreyfuss, Roy Scheider, Robert Duvall,Tommy Lee Jones e Dennis Hopper. Un cinema che ha profondamente influenzato il nostro immaginario, espressione di una mentalità liberal, ma anche di un nuovo acume per il ritratto psicologico e per la spettacolarità, per la libertà nella scelta dei temi e nella creatività stilistica, fino ad imporsi con nuove avventure produttive indipendenti che hanno anche condizionato le majors di Hollywood. La rassegna retrospettiva ha presentato quest’anno ben 33 lungometraggi, realizzati tra il 1967 e il 1983. Ricordiamo alcuni tra i film più noti, già successi all’epoca della loro uscita sugli schermi o veri capolavori rivalutati nel corso del tempo: The Graduate (1967) e Carnal Knowledge (1971, di Mike Nichols; Little Big Man (1970), di Arthur Penn; Duel (1971), The Sugarland Express (1974) e Jaws (1975), di Steven Spielberg; Klute (1971), di Alan J. Pakula; The Conversation (1974), di Francis Ford Coppola; Phantom of the Paradise (1974), di Brian De Palma; Three Days of the Condor (1975), di Sydney Pollack; The Last Waltz(1978), di Martin Scorsese; The Big Chill (1983), di Lawrence Kasdan. Citiamo anche vere e proprie riscoperte: Wusa (1970), di Stuart Rosenberg; The Outfit (1973) e Rolling Thunder (1977), di John Flynn; Go Tell the Spartans (1978), di Ted Post; Return of the Seven Caucus (1979), di Johm Sayles; Americana (1981), di David Carradine.
La Giuria della sezione competitiva “Torino 32” è stata composta dai seguenti membri: i registi Ferzan Özpetek (Italia / Turchia), Debra Granik (USA) e György Pálf (Ungheria); il critico e programmatore Geoff Andrew (Gran Bretagna); l’attrice Carolina Crescentini (Italia).
Analizziamo innanzitutto alcuni lungometraggi della sezione competitiva principale :
"Mange tes morts" Charles Hue |
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Mange tes morts, terzo film scritto e diretto da Jean-Charles Hue, ha ottenuto il Premio al miglior film. È un’opera che offre un interessante, quantunque discutibile, ritratto di una comunità di gitani. Racconta la drammatica iniziazione criminale di due adolescenti, ma non funziona nella sua dimensione di thriller, risultando troppo artificioso. La vicenda si svolge in una zona periferica non lontana da Parigi. In un piccolo campo di zingari di etnia Jenisch (o anche Yenishe, la terza maggiore popolazione nomade europea) vivono alcune famiglie insediate da anni in Francia. I giovani sono alla ricerca di un’affermazione mentre gli adulti sembrano aver accettato la predicazione religiosa di uno dei leader più rispettati che si è convertito dopo anni di disprezzo delle regole morali. Nella famiglia Dorkel si prepara il battesimo del diciottenne Jason (Jason François). Ma inaspettatamente torna il trentenne Fred (Frédéric Dorkel), il figlio maggiore, nonché fratellastro di Jason, che ha scontato quindici anni di prigione dopo la morte di un poliziotto avvenuta durante un furto.
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Festeggiato da molti e visto con diffidenza da altri, l’uomo, pur dichiarando di essere maturato e, soprattutto, di non voler tornare in carcere, appare lo stesso di sempre: esaltato e velleitario. Dopo aver recuperato la sua amata auto BMW Alpina, truccata con uno sprint booster e custodita con cura in un garage, si imbarca con il cugino ventenne Moïse (Moïse Dorkel), militante cristiano, il fratello Mickaël (Michael Dauber), violento e insicuro, e il giovane Jason, in una scorribanda a tutta velocità nei dintorni, tra Corbeil e Créteil. Poi, ad un certo punto, comunica ai compari di aver deciso di rubare un carico di rame che si trova su un camion parcheggiato in un deposito. Nonostante qualche resistenza, gli altri giovani accettano di partecipare a quella rapina improvvisata che Fred presenta come un giochetto senza rischi. Jason è combattuto perché da un lato ha sempre mitizzato il fratello maggiore, vedendo in lui un eroe coraggioso, erede delle antiche tradizioni e depositario di conoscenze esoteriche che lo affascinano, ma dall’altro i comportamenti e le azioni di Fred entrano in conflitto con il suo desiderio di essere un buon cristiano cresciuto con la frequentazione di Moïse. Dopo una notte di bagordi, eccitati dalle bevande alcooliche e dalle droghe consumate, alla prime luci dell’alba si introducono nel deposito. Hue propone un ritratto efficace, e accattivante per la sua carica di ambiguo romanticismo, di un contesto sociale e culturale specifico, con complicità e conflittualità nel clan familiare. Tuttavia, pur offrendo un vivace taglio documentaristico in presa diretta e non mancando di autenticità ed empatia, il suo approccio risulta troppo costruito ad hoc. In termini drammatici, punta sulla dimensione fisica e violenta e cerca di riallacciarsi alla migliore tradizione del noir francese, ma il tentativo di accreditare realismo e disumanità appare inficiato da una spirale narrativa troppo concitata e da una maldestra riproposizione di canoni di genere. In particolare la rappresentazione dell’amicizia tradita e la scontata dinamica del furto appaiono poco credibili e viziate da narcisismo di scrittura ed estetico. In effetti Hue mostra una messa in scena incerta e spesso solo abbozzata e non controllata e uno stile forse intenzionalmente impreciso e certamente privo di rigore formale: movimenti di macchina nervosi e a volte leziosi, inquadrature traballanti, montaggio serrato con qualche incoerenza, dialoghi incisivi per il ricco e divertente slang, ma troppo insistiti e spesso urlati o confusi, una recitazione a tratti palesemente improvvisata, con stonature e imperfezioni. Ne risulta un’avventura frenetica e crudele, condensata in una notte, con un finale intriso di lirismo crepuscolare a buon mercato. Al contrario il film appare più riuscito nello studio dei caratteri e nella rappresentazione della psicologia dei quattro giovani protagonisti, che non sono attori professionisti e interpretano sé stessi.
"What we do in the shadows", Taika Waititi e Jemaine Clement |
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What we do in the shadows scritto e diretto dai neozelandesi, anche attori, Taika Waititi e Jemaine Clement, ha ottenuto il Premio per la miglior sceneggiatura. È un brillante mockumentary-feature, un film che fonde stilemi teatrali e televisivi sovvertendoli, mette in mostra visual effects e motivi splatter molto creativi e punta su dialoghi ricchi di battute perfette. I protagonisti di questa storia ad alto tasso di humour intelligente, giocato sui toni assurdi e grotteschi, ma venata anche di malinconia, sono quattro vampiri che vivono al giorno d’oggi in una decadente casa barocca alla periferia di Wellington. I quattro bizzarri coinquilini, vestiti con abiti ottocenteschi, sono: Viago (lo stesso Taika Waititi) che avrebbe 379 anni; Deacon (Jonathan Brugh) che avrebbe 183 anni; Vladislav (lo stesso Jemaine Clement) che avrebbe 862 anni; l’incartapecorito e famelico Peter (Ben Fransham) che avrebbe invece addirittura un’età di 8.000 anni.
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La geniale trovata escogitata dai registi è quella di documentare la vita quotidiana dei quattro accoliti che devono spartirsi le mansioni casalinghe e i piccoli lavoretti necessari, tra discussioni e piccole ripicche. Inoltre devono adattarsi alle difficoltà e alle “stranezze” burocratiche della vita contemporanea. Ma in compenso vi sono poi le scorribande notturne, ovviamente sanguinolente. All’inizio abbiamo una serie di dichiarazioni in cui si mescolano il racconto di esperienze personali e amorose nei secoli passati e considerazioni sulla loro amena, ma in fondo felice, condizione attuale. In effetti, per potersi districare nella gestione ordinaria delle cose pratiche, e per attirare le prede che servono loro per succhiare il sangue, si fanno aiutare da una schiava umana, Jackie (Jackie Van Beek), una trentenne perfettamente consapevole a cui hanno promesso una futura trasformazione in vampira, donandole quindi la vita eterna. Poi un giorno uno di loro incontra Stu (Stuart Rutherford), un ventenne sempliciotto che risulta simpatico, e tutti insieme decidono di accoglierlo come amico senza morderlo. Il film si dipana attraverso una serie di magnifiche gags: il tour notturno, guidati da Stu, nei bar e nei night clubs della città, dove tutti li invidiano per il loro abbigliamento e ascoltano ammirati la loro confessione di essere vampiri; gli assalti alle vittime attirate in casa; l’incontro-scontro con una banda di umani trasformati in lupi mannari; l’apoteosi della grande festa organizzata in casa con arrivo di una schiera di personaggi eccentrici e scatenati. Al di là di una comicità originale, con vertici paradossali, si nota uno sguardo sarcastico sulla società urbana contemporanea e sulle debolezze degli esseri umani.
"For Some Inexplicable Reason", Gábor Reisz |
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Non ci sembra necessario dilungarci molto sugli altri due film vincitori dei Premi principali, a nostro giudizio entrambi di qualità discutibile. For Some Inexplicable Reason, opera prima dell’ungherese Gábor Reisz, ha ricevuto sia il Premio Speciale della Giuria - Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, sia il Premio del Pubblico. Si tratta di una commediola leggera, con protagonista un giovane laureato in cinema alle soglie dei trent’anni, egocentrico, depresso e impacciato, lasciato dalla fidanzata, che si aggira a Budapest e poi si reca inspiegabilmente a Lisbona, essendo coinvolto in situazioni amene e surreali. Un ritratto di una crisi esistenziale, privo di pathos, infarcito di humour banale e pieno di clichés. N-capace, opera prima dell’attrice e performer teatrale Eleonora Danco, ha ottenuto sia la Menzione Speciale della Giuria, sia la Menzione Speciale ai personaggi non attori intervistati nel film.
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È un docu-fiction del tutto pretenzioso e strampalato. La stessa Danco si esibisce, con una palandrana bianca e pose teatrali, spesso sdraiata su un letto, in sequenze e tableaux vivants surreali all’aria libera. Si aggira tra Terracina e la periferia di Roma intervistando vari personaggi giovani e anziani, tra cui il proprio genitore di 83 anni. Ne emergono dialoghi strascicati con domande tendenziose chiaramente orientate e trite considerazioni su lavoro, disoccupazione, emarginazione, problematiche personali, sesso, omosessualità, fede e rapporto con la morte. In aggiunta anche il penoso confronto padre-figlia con reciproche recriminazioni, ricordando la madre scomparsa. Tra eccessi urlati, humour fasullo, idealizzazioni del linguaggio e dei miti “popolari” e sottoproletari, proposti con falsa abdicazione del background critico, e panorami desolati emerge un universo fittizio che non rappresenta né un contesto reale né una vera divagazione poetica. Al contrario commentiamo uno dei film più interessanti e riusciti in concorso. Violet, opera prima dell’appena trentenne belga Bas Devos, ha ottenuto il Gran Prix della Giuria Internazionale Generation 14plus. Si tratta di un dramma adolescenziale minimalista, laconico e stilizzato, che rammenta molto ambientazione, temi e scelte estetiche presenti in Paranoid Park (2007), di Gus Van Sant. Il film si apre con una lunga sequenza ripresa con le telecamere di sorveglianza di una galleria commerciale nel centro di Bruxelles. Le immagini rallentate mostrano l’incontro fortuito di due sedicenni con un gruppo di ragazzotti che all’improvviso ne aggrediscono uno e lo accoltellano, mentre l’altro resta immobile, paralizzato e poi si allontana. Il protagonista Jonas ha assistito al ferimento che ha causato la successiva morte di Jesse il suo migliore amico. Il film mostra, senza addentrarsi in un vero racconto il dopo: ovvero come il giovane testimone debba fare i conti con sé stesso e con la vita dopo il trgico evento di cui è stato testimone. Jonas è appassionato di bicycle motocross e ogni giorno si riunisce con un gruppo di amici che praticano lo stesso sport: lunghe sequenze li riprendono mentre percorrono con giri viziosi le strade di un quartiere residenziale periferico o in campagna e su una pista nei boschi. Ma il giovane è privo di parole e oppresso dallo sconcerto doloroso e da un oscuro senso di colpa: non riesce a comunicare né con gli adulti né con gli amici coetanei che sembrano pensare che sia stato un codardo. Seppur in modo frammentario, e con qualche stereotipo nelle relazioni tra generazioni, emerge l’impossibilità di elaborare il lutto da parte di Jonas, delle famiglie e dell’intero quartiere. Una messa in scena coerente rispetto a un intento chiaro che non prevede spiegazioni. Uno stile rigoroso e ipnotico, con sequenze prolungate e intense, un uso efficace di luci, ombre e off screen, piani che privilegiano la media distanza, close up che indagano volti e corpi e una colonna sonora semplificata che enfatizza i rumori.
Analizziamo quindi alcuni dei film più significativi presentati nella sezione Festa Mobile :
"'71", Yan Demange |
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’71, opera prima di Yann Demange, nato in Francia e radicato professionalmente in Inghilterra, è un intenso ed emozionante action drama che si dipana con un meccanismo thriller incalzante e soffocante. Ma è anche un film che affronta un argomento poco trattato: i traffici, i tradimenti e le inconfessate sordide manovre di doppio e triplo gioco presenti durante il lungo conflitto etno-nazionalista in Irlanda del Nord, iniziato nel 1966 e durato circa 40 anni. Una guerra sporca, che ha accompagnato un violento scontro etnico e religioso, in cui sia le fazioni dei “patrioti” terroristi nazionalisti dell’Ira, sia i loyalists paramilitari dell’UVF, sia i servizi segreti di sicurezza inglesi (British Army e RUC) si infiltravano vicendevolmente e agivano illegalmente con estremo cinismo.La vicenda è ambientata nel 1971, nell’epoca che vide la prima vera esplosione della violenza politica (detta “Troubles”), con continue barricate nelle strade a Belfat e a Londonderry, attacchi ai militari inglesi e un’escalation di scontri armati nelle strade tra cattolici e protestanti che condusse alla guerra civile.
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Il protagonista è Gary Hook (Jack O’Connell, molto efficace e credibile), un ventenne, nuova recluta dell’esercito inglese, inviato in missione a Belfast. Secondo le autorità militari la città è divisa in aree “leali” Protestanti e aree “ostili” cattoliche. Entrambe le parti che si confrontano contano su unità paramilitari che combattono una guerriglia urbana difficile da fronteggiare persino per gli ufficiali inglesi più esperti. In aggiunta vi sono gangs di civili radicalizzati e agenti sotto copertura di tutte le fazioni (compresa un’unità speciale semiclandestina di militari inglesi) che perseguono ognuno i propri interessi di potere. Le giovani reclute, tra cui Gary, prive di adeguato training, vengono inviate a scortare una squadra della brutale polizia nordirlandese, la Royal Ulster Constabulary, che deve effettuare un’operazione di perquisizione in un quartiere cattolico. Vengono coinvolti in una rissa e a uno di loro viene sottratto il fucile. Gary e un compagno inseguono il ladro, che si nasconde tra la folla, e diventano il target dei più facinorosi che lanciano sassi e oggetti di ogni tipo. Perdono il contatto con la loro squadra. Poi Gary vede cadere Thommo, il suo compagno, ucciso da due individui in borghese che gli sparano alla testa a bruciapelo. In preda all’orrore, fugge in un dedalo di viuzze inseguito dagli spari. Si salva miracolosamente e trova rifugio in una latrina. Venuta la sera ruba un giubbotto per occultare la divisa militare e inizia una spaventosa odissea per cercare di tornare alla sua caserma, tra incertezza, paura e disperazione. Incontra un ragazzino protestante che lo porta in un pub, ma poco dopo il locale è devastato dalla scoppio di una carica esplosiva. Gary, ferito seriamente all’addome, trova poi rifugio presso l’appartamento di un sessantenne e della figlia che vivono in un quartiere cattolico. Ma, ben presto, sia un gruppo di paramilitari dell’IRA Provisional sia una squadra speciale sotto copertura dell’esercito, che effettua anche azioni di provocazione, sono sulle sue tracce. Nel corso dello show down finale Gary sarà testimone dell’operato subdolo e spietato delle parti in causa e della doppiezza ipocrita che stava alla base di patti inconfessabili. A partire dalla brillante sceneggiatura di Gregory Burke, Demange sviluppa una complessa rete di temi, senza perdersi in inutili appesantimenti politici esplicativi al di là delle coordinate generali ben note. Il film riesce a equilibrare vibranti scene action, scandite da ritmi eccitanti, e una suspence non banale, con un intrigante studio di caratteri. Questa ossessionante parabola notturna, in cui si intrecciano identità nascoste, crescente paranoia e impellenti stimoli a prendere posizione, mostra efficacemente l’assurdità della guerra.
"La Chambre Bleue", Mathieu Amalric |
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La chambre bleue, del regista francese Mathieu Amalric, adatta l’omonimo romanzo del 1964 di Georges Simenon,. È un noir psicologico appassionante, oscuro e destrutturato, conciso e con poche essenziali locations. Un thriller tragico con componente polar. Un film che racconta una passione sentimentale maschile, ardente e inestinguibile, con un sottofondo di forte componente erotica, che porta alla distruzione di un contesto familiare. La vicenda si svolge in un piccolo centro della provincia, nella campagna francese, durante l’estate. Il protagonista è Julien Gahyde (lo stesso Amalric), un commerciante di macchinari agricoli quarantenne, un tipo ordinario, taciturno e non particolarmente attraente, sposato con Delphine (Léa Drucker), una donna spigliata e pragmatica, e padre di una ragazzina. Un giorno l’uomo incontra casualmente, dopo anni, Esther (Stéphanie Cléau) l’innamorata della sua gioventù, divenuta donna sensuale e sposata al farmacista del paese.
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Da quel momento tra i due nasce un’intensa relazione extraconiugale, un affaire scandito da incontri regolari ogni giovedì pomeriggio, con scene di sesso esplicite, che si svolgono nella suite dalle pareti azzurre di un alberghetto. Nel corso di una di queste occasioni si nota il comportamento ambiguo di Delphine, vera femme fatale indecifrabile che accenna a un possibile futuro comune se lei improvvisamente diventasse una donna libera. Le scene dei momenti insieme all’amante e quelle di vita domestica in cui Julien cerca di sviare eventuali sospetti della moglie si susseguono nervosamente con un ritmo da docu-drama. Sono punteggiate da considerazioni in voice over dello stesso Julien che alterna timore e desiderio e nei momenti di solitudine è angosciato dal fatto di non sapere cosa pensano le due donne, Delphine e Esther.. Finché un giorno il protagonista viene convocato presso il locale commissariato di polizia dove apprende che il marito della sua amante è stato trovato morto e si sospetta un omicidio per avvelenamento. Da quel momento inizia un complicato iter di interrogatori in cui i due amanti vengono messi a confronto, tra bugie, accuse reciproche, re-visioni dei momenti salienti della loro relazione e presunte ricostruzioni delle circostanze del delitto. Poi si giunge all’atto conclusivo, il processo, un epilogo gestito con sequenze più lunghe e sobria efficacia. Amalric rispetta abbastanza fedelmente la trama di Simenon, ma al tempo stesso se ne allontana per conseguire una dimensione ancora più opaca. Al contrario del celebre scrittore belga che fa emergere esplicitamente l’innocenza di Julien, inserisce un conturbante confronto tra i due amanti che lascia lo spettatore costantemente nel dubbio. Procede abilmente con una narrazione frammentaria e non lineare, e una cronologia ondivaga tra presente e passato, che tuttavia, pur nei meandri dell’iter procedurale dell’inchiesta e del processo, ricco di dettagli controversi, riescono a essere seccamente essenziali e a creare un continuum emozionale. La telecamera privilegia i piani fissi alla Bresson, cogliendo piccoli gesti e segni. Spesso si concentra sul protagonista maschile che è intrappolato in una situazione senza uscite e torturato dal magistrato inquirente con astruse congetture psicoanalitiche. D’altronde Julien non è mai presentato come un uomo innocente, non tanto nei suoi atti, ma perché è continuamente ossessionato mentalmente e fisicamente dal desiderio impellente e assurdo nei confronti dell’amante, anche quando Stéphanie sembra ormai fredda e antagonista. Uno sforzo accurato di messa in scena che valorizza l’intensità drammatica e l’angoscia comunicata dall’espressione costantemente allucinata dello stesso Amalric che, nervoso, arruffato e sofferente, offre un’interpretazione eccellente. Fino a quel suo sguardo finale rivolto agli spettatori e alla sua amante quando, ammanettati, sono condotti entrambi ad un destino comune in carcere. Peraltro occorre anche sottolineare la felice scelta del regista di utilizzare un format quadrato, 1:1,33 ratio, per ottenere un soffocante effetto claustrofobico e una fredda depurazione delle immagini. E, ancora, va segnalata la colonna sonora contundente di Gregoire Hetzel.
"A Second Chance", Susan Bier |
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A second chance, della danese Susanne Bier, è un dramma -thriller intenso e tragico, con pesanti implicazioni psicologiche. Un’opera che comprende varie questioni: le dinamiche di coppia, la paternità, la maternità, l’amicizia, il confronto sociale, la violazione delle norme legali e civili, l’ipocrisia e la redenzione. La vicenda si svolge a Copenhagen. Il trentenne Andreas è un poliziotto esperto, felicemente sposato con la bella Anne che da poco ha partorito il loro primo figlio. Al contrario il suo collega Simon è divorziato, in rotta con un figlio problematico ed è dedito all’alcool. Un giorno effettuano un controllo nello squallido alloggio di una coppia di giovani tossicodipendenti, Tristan e Sanne. Lui la picchia e entrambi trascurano il loro neonato, che appare denutrito e giace sporco delle proprie feci. Poi una notte la fragile Anne, in preda a una grave depressione post partum, si accorge che il suo bebé è morto improvvisamente. Allora Andreas, annichilito, compie un atto estremo.
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Susanne Bier rivela una costante attenzione a temi quali le dinamiche familiari, la passione amorosa, tra tentazioni e tradimenti, la solitudine e i conflitti culturali. Al centro del suo cinema vi sono i personaggi, con le loro relazioni affettive ed anche erotiche. Individui apparentemente normali che vivono intensi sconvolgimenti interiori quando sono posti di fronte a scelte difficili in conseguenza di eventi eccezionali o di incontri fatali. Molti fra i suoi melodrammi sono stati distribuiti in Italia: Open hearts (2002), a nostro giudizio il più riuscito, Non desiderare la donna d’altri (2004), Dopo il matrimonio (2006), In un mondo migliore (2010), premiato con l’Oscar al miglior film straniero, Love is all you need (2012), e anche i due realizzati a Hollywood, Noi due sconosciuti (2007) e il recente Una folle passione (2014). In tutti questi film non mancano gli stereotipi, ma lo stile immediato della Bier e la sua indubbia capacità di dirigere gli attori, orientandoli a calarsi nei personaggi da interpretare, garantiscono l’efficacia della narrazione. La principale debolezza è invece da riconoscersi nella spiccata strumentalità delle situazioni raccontate che punta a suscitare facili “emozioni forti” nello spettatore. A second chance racconta una storia contrastata di desideri e bisogni, di vulnerabilità e dolore e accumula i colpi di scena in un crescendo cupo e radicale Nel film i personaggi sono individui tormentati e sofferenti, costretti a confrontarsi, senza sfumature, con laceranti dilemmi etici. Poi ad alcuni viene offerta una seconda possibilità, oltre il dramma e la colpa. Susanne Bier ha scelto di non prendere distanza da una trama complessa, rischiosa e apparentemente artificiosa e ha dichiarato di voler porre lo spettatore a disagio, mettendolo di fronte a un enigma morale avvincente. Propone una regia vigorosa, con la macchina da presa a mano in costante movimento, peraltro non priva di forzature schematiche, di toni enfatici e di espedienti televisivi. Chiede agli attori di svelare le emozioni, senza timore di momenti di recitazione sopra le righe, perché vuole far emergere la disperazione dei comportamenti.
"The Drop", Michael R. Roskam |
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The Drop, del regista statunitense Michaël R. Roskam, è un crime drama intenso e contenuto al tempo stesso. Un thriller stilizzato di buona fattura, pregevole nell’ambientazione e nella reinterpretazione delle regole del genere. Presenta alcuni solidi punti di forza. Adatta l’omonimo romanzo di Dennis Lehane, brillante autore di storie noir da cui sono stati tratti notissimi film quali Mystic River e Shutter Island, nonché abile sceneggiatore di alcuni episodi dei serial televisivi cult The Wire e Broadwalk Empire. Inoltre si giova di attori che rafforzano la caratura dei personaggi: segna anche l’ultima notevole interpretazione di James Gandolfini, prematuramente scomparso. Sceglie di immergersi in una descrizione del quotidiano della delinquenza, senza derive sensazionaliste, pur non mancando momenti di violenza pura e qualche tinta sadica.
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Un quadro di disordine criminale ambientato a New York e caratterizzato dalla sottomissione della vecchia rete mafiosa, di origine irlandese e italiana, ai nuovi spietati gangster che vengono dall’Est Europa. Al centro della vicenda vi è un vecchio bar di Brooklyn, frequentato da blue collars. Un locale, controllato da una banda di ceceni, che funge da deposito occulto temporaneo di denaro sporco frutto di scommesse clandestine. Gli allibratori clandestini della malavita entrano nel bar, depositano con noncuranza le mazzette in una buca del bancone e se ne vanno. Bob Saginowski (Tom Hardy) è il barman trentenne, un tipo apparentemente tranquillo, taciturno, ma attento testimone dei movimenti leciti e illeciti per conto di Cousin Marv (James Gandolfini), un cinquantenne disilluso con un passato di piccolo boss, scommettitore e strozzino. Ex proprietario del locale, ora è ridotto al ruolo di gestore sottomesso ai nuovi padroni. Bob incontra Nadia (Noomi Rapace), una giovane infermiera segnata da un passato difficile. Tra i due si stabilisce un’incerta relazione affettiva mediata dalle cure che entrambi offrono a un cucciolo pit bull abbandonato. Ma sono spiati e perseguitati da Eric Deeds (Matthias Schoenaerts), un ex fidanzato psicopatico della donna. Poi due balordi rapinano il bar e Marv inizia a comportarsi in modo strano. Fino allo show down finale quando i tragici fantasmi del passato fanno da sfondo a una resa dei conti tra Bob ed Eric. Nel suo secondo film, debutto a Hollywood, il fiammingo Michaël R. Roskam propone una storia in cui il protagonista nasconde un oscuro passato e dipinge un microcosmo moralmente ambiguo. Temi e situazioni che si correlano a quelli presenti in Bullhead (2011), il suo impressionante e sorprendente dramma - thriller di esordio. Il film offre uno stimolante studio dei caratteri e un ritmo che si sviluppa lentamente, ma efficacemente, senza inutili contorsioni o momenti topici, fino a una conclusione stringente. Il tutto permeato da una predilezione per i toni e i colori grigi e poco appariscenti che configurano un’atmosfera “sudicia”, segnata da fatali presentimenti. Una sensibilità e una messa in scena che, in qualche modo, ricordano il magnifico cinema di James Gray.
"Jauja", Lisandro Alonso |
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Jauja, del regista argentino Lisandro Alonso, è un’opera inclassificabile, molto ambiziosa e affascinante. Giova innanzitutto ricordare che Alonso è stato fin dal suo esordio, a 26 anni, uno fra gli autori più originali e interessanti a livello mondiale, proponendo un cinema rigoroso ed enigmatico, con impiego di non attori, che non solo destabilizza i confini tra finzione e documentario, ma che mette anche in discussione l’essenza della realtà e i limiti della sua rappresentazione. I suoi film, La libertad (2001), Los muertos (2004) e Liverpool (2008), tutti presentati in precedenti edizioni del Festival di Cannes, denotano una poetica che pone al centro personaggi maschili solitari e misteriosamente sofferenti i quali si muovono in paesaggi ostici e ostili. Il suo stile minimalista, crudo ed essenziale, si è caratterizzato per la quasi totale assenza di dialoghi e la pratica dell’ellisse nei raccordi spazio-temporali.
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Di fronte alla natura, sapientemente catturata con lunghi piani-sequenza, l’uomo, descritto nella sua quotidiana corporalità, è solo e non sa né può né modificarla né modificarsi. Non vi è suspence narrativa perché prevalgono le suggestioni e la rappresentazione visiva di una dialettica spazio-temporale che non è mai banale. Peraltro le sequenze non mostrano pienamente le azioni e si ha la sensazione di un voler lasciarne il completamento all'immaginazione e all'intuito dello spettatore che quindi vive una tensione emotiva forte e veritiera. Jauja, il cui titolo si riferisce a una mitica terra di abbondanza, ovvero a un Paradiso terrestre, procurato invano da secoli, segna un’evoluzione nel cinema di Alonso. In effetti il regista non rinnega il suo approccio all’uomo e alla natura, lo stile rigoroso e singolare e i ritmi dilatati e languidi, ma stabilisce un nuovo punto di partenza. Si tratta del suo primo film d’epoca, costruito con presupposti diversi rispetto ai precedenti: una sceneggiatura compiuta, non elaborata in solitario, ma con la collaborazione del connazionale Fabián Casas, poeta, scrittore e giornalista e un cast di attori professionisti. È un road movie con sembianze di western, ma molto atipico. Configura un viaggio estenuante, sia fisico che metafisico, in un paesaggio selvaggio, aspro, affascinante e minaccioso. Al centro della vicenda, che è ambientata in Patagonia nel 1882, all’epoca della brutale campagna condotta dai colonizzatori argentini per sottrarre le terre agli indigeni amerindi nativi (la cosiddetta “Conquista del deserto”), vi è il capitano, nonché ingegnere, danese Gunnar Dinensen (Viggo Mortensen, particolarmente ispirato). L’uomo, accompagnato da Ingeborg (Villbjork Agger Malling), la sua amata unica figlia di quindici anni, una ragazza esile, raffinata e taciturna, giunge in un remoto piccolo avamposto militare per compiere una missione di scouting. Le giornate trascorrono pigramente in una dimensione straniante, tra rilievi topografici e racconti circa la bellicosità delle tribù indigene e il mito del feroce Zuluaga, un soldato disperso e impazzito. La ragazza, unica presenza femminile, suscita la concupiscenza e i commenti volgari dei pochi torvi soldati della guarnigione di fanteria. Poi una notte si allontana insieme a Corto, un giovane soldato di cui si è innamorata, approfittando anche del fatto che Dinensen non si era accorto del loro dolce idillio. Al suo risveglio il capitano, scoperta la fuga, sconvolto e fortemente irritato, decide di avventurarsi nel territorio sconosciuto per inseguire e ritrovare la coppia. Inizia quindi una faticosa ricerca solitaria a cavallo che lo conduce in luoghi fuori dal tempo, dove il passato svanisce e il futuro non ha alcun significato. Ne deriva un percorso accompagnato da incontri inusuali (il giovane soldato fuggitivo agonizzante e una vecchia custode di una misteriosa sorgente) e da divagazioni oniriche e deliranti. Alonso ha confezionato una favola esistenzialista che mescola naturalismo, motivi surreali e dimensione lirica e fantasmagorica. Un’opera che offre un’interpretazione molto personale sia del colonialismo e delle controverse origini di uno stato nazionale, sia delle illimitate potenzialità delle immagini e del filmmaking. La “non cronaca” del graduale scivolamento di Dinensen in un territorio inesplorato, che diventa uno spazio mentale, e in un’ossessione feroce e funesta, è ipnoticamente ammaliante. Peraltro la traiettoria descrittiva, nell’ultima parte del film, denuncia un progressivo eccesso ermetico e un esaurimento di significato, purtroppo non riscattato dal repentino e spiazzante twist temporale e spaziale che riporta Dinensen in un castello in Danimarca dove ritrova sua figlia. A livello estetico il formato vintage quadrangolare, full frame 4:3 ratio, con angoli arrotondati, aggiunge suggestione claustrofobica all’accurata composizione pittorica delle inquadrature e delle sequenze, illuminata dalla sofisticata fotografia dai colori saturi del finlandese Timo Salminen.
"P'tit Quinquin", Bruno Dumont |
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P’tit Quinquin, del francese Bruno Dumont, è un film molto riuscito e divertente. Una commedia, quasi di genere slapstick, ricca di humour caustico, cinico, anarcoide e macabro, con una precisa caratterizzazione antropologica e con uno strampalato coté di thriller. E una magistrale direzione di un gruppo di attori amatoriali che offrono interpretazioni ricche di toni espressionistici e surreali. Senza dubbio, un sorprendente ed eccellente nuovo capitolo nella filmografia di questo autore di indubbio e controverso talento. Il film, originariamente concepito come miniserie televisiva in quattro capitoli, ma perfettamente cinematografico in una dimensione unitaria, è ambientato nel nord della Francia, in un piccolo villaggio della costa atlantica nella regione di Boulonnais, non lontano da Calais. Un ambiente di pascoli, campi e spiagge desolate e una tipologia umana di rozzi contadini e di personaggi curiosi e un poco svitati, scenario consueto di molte delle opere di Dumont.
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Il protagonista di questo gustoso affresco, è P’tit Quinquin (Alane Delhaye), un piccoletto di dodici anni con una perenne smorfia disegnata sul volto rincagnato. Un tipo sempre in movimento, dispettoso e attaccabrighe, che sfida e sbeffeggia gli adulti, cercando di mostrare che non teme nulla e nessuno e che non rispetta alcun limite o divieto. Figlio di contadini, vive, insieme ai genitori, ai nonni e a un fratello maggiore ritardato, in una grande fattorie dove si allevano le vacche. Una famiglia dove tutti si trattano senza molti riguardi. La vicenda si svolge durante l’estate. P’tit Quinquin ama scorazzare in bicicletta con una banda di amichetti, piuttosto stupidi e incapaci, che comprende anche Ève (Lucy Caron), la ragazzina di cui è innamorato e l’unica che riesce a tenerlo un po’ a freno. Il loro divertimento preferito è quello di spaventare i familiari, gli altri abitanti e qualche ignaro e buffo turista, facendogli scoppiare tra i piedi dei petardi. Durante un’escursione su un promontorio che sovrasta la costa per esplorare un bunker, eredità della Seconda Guerra Mondiale, i ragazzini vi scoprono all’interno il cadavere di una vacca che non si sa come possa essersi arrampicata in un luogo così elevato e ameno. Dopo il recupero spettacolare del bovino, nasce un’inchiesta perché, inaspettatamente, dall’autopsia risulta una sorpresa inquietante: lo stomaco della vacca contiene parti di un corpo umano femminile. Quindi entra in scena il personaggio più stravagante: il capitano della polizia Van der Weyden (Bernard Pruvost), una specie di sosia di Groucho Marx. Un cinquantenne fisicamente grottesco, tormentato da buffi tics faciali e corporali, intimamente dominato da un timore indefinito e sempre preoccupato di darsi un tono autorevole, ma costantemente trascinato nel ridicolo. Lo accompagna il tenente Carpentier (Philippe Jore), uno spilungone poco loquace che, più che collaboratore, è il destinatario delle assurde riflessioni e degli astrusi teoremi che l’ispettore sciorina di continuo. Poco tempo dopo in una fattoria viene trovata, in mezzo allo sterco dei maiali, la testa mozzata mancante. Da quel momento inizia una sarabanda di maldestri tentativi di far luce sul mistero, accompagnati da gags geniali e da incontri con personaggi improbabili. Ma intanto le morti inspiegabili e i possibili omicidi aumentano e, mentre non sembra esserci nessun indizio plausibile sull’identità del colpevole, poco a poco emergono i particolari di un puzzle sinistro e pazzesco. Nel frattempo, nonostante la maggior parte degli abitanti mostri un apparente indifferenza, anche la banda di P’tit Quinquin svolge un’inchiesta parallela spiando le mosse della polizia e tutte le persone più inconsuete e sospette. Non mancano storie tragicomiche che si mescolano alla trama principale, facendo emergere tra le righe problematiche patologiche: xenofobia e quotidiano razzismo, conflitti coniugali, rapporti sessuali illeciti e casi di disperata violenza. Dumont è un autore che ha costantemente coniugato un’opzione per il crudo realismo delle immagini, sempre visivamente molto elaborate, con un approccio intellettuale ambizioso, ma spesso confuso, pretenzioso e moralista. Al centro dei suoi film vi sono la dialettica tra il bene e il male e la rappresentazione di un misticismo atipico a confronto con una natura selvaggia. Nel suo cinema, che riecheggia in qualche modo quello di Bresson, si annoverano film di grande qualità che rappresentano un paesaggio mentale inquieto e discutibile, ma a tratti commovente, come La vie de Jésus (1996) e Flandres (2006), e opere deludenti e irritanti come L’humanité (1999) e Hadewijch (2009), che propongono ambigui e pretestuosi itinerari esistenziali, mescolando confusamente le tematiche cristiane del sacrificio e della redenzione e un intellettualismo travestito da psicologismo minimo, o come Hors Satan (2011), una provocatoria interrogazione sulla metafisica del male. In questi film Dumont ha spesso mostrato uno sguardo “entomologico” sulla dimensione bestiale e/o statica dei suoi personaggi. Ha proposto inquadrature fisse che durano lunghi minuti e mostrano personaggi catatonici, estenuanti interminabili piani fissi e immagini allusive e metaforiche. In P’tit Quinquin, opta per uno stile più vivace e contundente, arguto e intelligente, ma controlla ugualmente accuratamente la materia. Gioca sull’interazione tra straordinarietà del singolo personaggio e interazione con gli altri, conseguendo una configurazione di alterità caricaturale collettiva che non si avvita mai in una spirale di stupidità prosaica. Trova comunque modo di riproporre in forma diversa, la sua tematica preferita: la natura del bene e del male e la difficoltà di riconoscerli e discriminarli. E nel finale sorprende nuovamente, lasciando prevalere inaspettatamente i suoi toni pessimistici e crepuscolari, quasi in una deriva di dolente spiritualità. Uno sguardo conclusivo distaccato e rispettoso, non privo di malinconia e di tacita compassione.
"Turist (Force Majeure", Ruben Östlund |
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Turist (Force majeure), quarto film del regista svedese Ruben Östlund, è un dramma familiare atipico, con tinte thriller e tragiche, complessi risvolti psicologici, ma anche spunti comici, gelidi e quasi surreali. Una famigliola svedese del ceto medio, apparentemente perfetta, trascorre una settimana di vacanze sciistiche in un grande hotel in una località sulle Alpi francesi. All’inizio tutto procede bene: i quarantenni Tomas (Johannes Bah Kuhnke) e Ebba (Lisa Loven Kongsli) vanno d’accordo e i loro figli, la giovane Vera e il bambino Harry si divertono. Poi, il secondo giorno, mentre sono a pranzo sulla splendida terrazza panoramica dell’albergo e si godono il magnifico panorama innevato in una splendida giornata di sole, un’improvvisa terrificante valanga giunge a lambire il ristorante. In quegli attimi drammatici Tomas, in preda al panico, anziché preoccuparsi di salvare la sua famiglia, fa un balzo indietro e si ritrae, preoccupandosi di salvare il cellulare e la macchina fotografica.
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Fortunatamente, quando la nuvola di nevischio si deposita, risulta che lo smottamento della neve si è arrestato proprio ai limiti dell’edificio e nessuno si è ferito.Ma il travolgente spostamento d’aria ha causato un enorme spavento e, nonostante il rapido ritorno di Tomas, Ebba non può accettare la decisione impulsiva e la momentanea codardia del marito. Da quel momento la donna non smette di ricordare a Tomas la sua colpa e non riesce a perdonarlo. Poco a poco, la lite fa emergere un penoso retroterra di recriminazioni reciproche e un crescendo di toni ai limiti della sopportazione, mentre i due figli non sanno cosa pensare e per chi parteggiare. Nonostante l’arrivo di una coppia di vecchi amici, Mats e Fanni, che si offrono come mediatori, la frattura tra i due coniugi non si risolve, anche perché, alla fine, i due uomini appaiono solidali. Östlund si propone di sviluppare il tema della debolezza umana. Ripropone un’ottica provocatoria e critica rispetto alle regole comportamentali e alle contraddizioni presenti nella società svedese, già presente nelle sue opere presentate entrambe in edizioni precedenti del Festival di Cannes. In effetti Involuntary (2008) è un dissacrante e divertente film mosaico che mette in scena le relazioni tra i giovani e gli adulti e i loro comportamenti trasgressivi e /o egoisti, mentre il più controverso e ambiguo Play (2011) è un dramma che mette a fuoco i comportamenti illeciti di teenagers africani immigrati, che manifestano un’ordinaria sopraffazione nei confronti dei coetanei svedesi, più ingenui ed educati, e le conseguenti reazioni incerte e opposte degli adulti. Inoltre si può anche riconoscere una approssimazione di Östlund al cinema di Roy Andersson, quantunque lo humour e la tendenza a proporre tableaux vivants tragicomici, risultino meno incisivi rispetto alla qualità raffinata e poetica, corrosiva e feroce, ma mai banale, dello stesso Andersson. In questo film il regista forza l’osservazione dei comportamenti dei due coniugi e dei loro figli adolescenti, mettendone a fuoco le manie, le incongruenze e la crisi delle certezze più intime e della fiducia reciproca. Quindi cerca di ridicolizzare molti luoghi comuni e miti rispetto alla famiglia e alla paternità. Al tempo stesso propone una rappresentazione della natura come una presenza ambigua, affascinante e minacciosa al tempo stesso. Ma purtroppo alterna momenti emotivamente avvincenti e altri più noiosi e non riesce ad essere pienamente radicale e convincente, perdendosi in una rappresentazione troppo bozzettistica e in un finale ambiguamente conciliatorio. Da segnalare la splendida fotografia di Fredrik Wenzel e l’accurata rielaborazione digitale che rende spettacolari e “realistiche” varie sequenze, tra cui la scena della spaventosa valanga e quella della crisi di pianto nervoso di Tomas che è al tempo stesso straziante e divertente.
"Whiplash", Damien Chazelle |
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Whiplash, opera seconda del regista statunitense Damien Chazelle, è un intenso e brillante coming-of-age film. Un’opera audace e classica al tempo stesso, drammatica e molto emozionante, che dipana con sicurezza alcuni nodi essenziali della traiettoria esistenziale giovanile, ma anche del confronto tra allievo e maestro in campo artistico. Un racconto che mostra, senza alcun appesantimento didascalico, quanto possa essere complesso e devastante un percorso di ricerca dell’eccellenza in un’attività umana. La vicenda riguarda la contrastata relazione tra un ambizioso studente di musica, batterista di indubbio talento, e il suo insegnante, un uomo ambiguo e non sincero, la cui volontà recondita è quella di non dare la possibilità di affermarsi a chi è dotato. Andrew Neyman (Miles Teller), diciannovenne di buona famiglia, è un ambizioso batterista jazz, desideroso di diventare uno dei migliori della sua generazione, progredendo rispetto a un background di esperienze mediocri nell’ambiente provinciale da cui proviene.
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Per questo motivo si iscrive al prestigioso Shaffer Conservatory of Music di Manhattan a New York. Conscio di avere di fronte una concorrenza temibile si esercita con costanza e profondo accanimento. Pur essendo al primo anno di corso riesce a farsi notare e ad essere ammesso nella classe dove il professor Terence Fletcher (J.K. Simmons, in un’interpretazione magistrale) ha formato l’orchestra di eccellenza della scuola. In effetti Fletcher è un sessantenne molto rispettato, ma temuto a causa del suo carattere rigido, capriccioso e crudele. Un uomo che utilizza metodi non ortodossi, è facile alle invettive per spronare gli allievi, non incoraggia mai apertamente nessuno e può scartare repentinamente anche chi sembra aver apprezzato in precedenza. Chazelle mostra nei dettagli, attraverso il linguaggio del corpo degli attori, le insostenibili dinamiche competitive presenti nell’orchestra e il potere abusivo di Fletcher. Dopo aver selezionato Andrew garantendogli il posto di batterista nella sua orchestra, il professore intuisce che il giovane, pur mostrando talento, in fondo all’anima ha paura perché teme di fallire. Quindi dà inizio a uno spietato gioco del gatto con il topo, sfruttandolo, manipolandolo e spingendolo oltre i limiti delle sue capacità (gli richiede di rispettare il mitico “tempo” consistente in 300 beats al minuto) per poi infine umiliarlo di fronte ai colleghi e sostituirlo, confinandolo nel ruolo di chi deve girare le pagine dello spartito del musicista titolare. Successivamente mostra di tenere Andrew nuovamente in considerazione, ma giunge a insinuare che non si esercita a sufficienza perché non si concentra sulla musica, mettendo in crisi sia il rapporto tra il giovane e la fidanzata Nicole (Melissa Benoist), sia quello con la famiglia. Ne risulta una tensione che porta alla rottura. Alla fine Andrew esce sconfitto da questo estenuante corpo a corpo, subisce un crollo nervoso e abbandona la scuola. Ma dopo qualche tempo, spinto da un forte sentimento di rivalsa decide di prendersi una rivincita. In un crescendo di colpi di scena il film giunge a un eccezionale e sorprendente showdown finale sulle note del celeberrimo “Caravan” di Duke Ellington. Chazelle dimostra una notevole maturità, costruendo un magnifico thriller dell’anima a partire da una scrittura solida e precisa. Ne risultano un ritmo narrativo incalzante e crepitante e un’energia ansiogena che garantisce la stessa suspence di un combattutissimo match sportivo o di un buon film di guerra. Al tempo stesso sviluppa un accurato studio di caratteri e una definizione psicologica dei personaggi che non è mai banale. La sua messa in scena stilizzata e sincopata mostra un estremo virtuosismo creativo nei piani, nelle inquadrature e nelle angolazioni di ripresa, e una notevole confidenza nella direzione degli attori. In effetti le performances di Teller e Simmons denotano una magnifica intesa e un impegno fisico straordinario. A tutto questo si aggiunge il montaggio “staccato” di Tom Cross che stabilisce una perfetta fusione tra il gioco delle immagini e gli sfrenati ritmi musicali.
Commentiamo anche un paio tra i documentari più significativi presentati nella sezione TFFDoc :
"Eau argentée, Syrie auto-portrait", O. Mohammed e W. Simav. Bedirxan |
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Eau argentée, Syrie auto-portrait, dei registi siriani Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan, presentato furiconcorso, è un’opera atipica, straordinaria e impressionante. Dopo i titoli di testa vi è una dichiarazione esplicativa che dice: ”questo film è composto da 1001 immagini filmate da 1001 uomini e donne siriani”. Nel maggio 2011 Ossama Mohammed fu costretto ad abbandonare il suo Paese, la Siria. Trasferitosi a Parigi ci dice che può solo filmare il cielo e la pioggia. Ma può anche cercare di capire come si sviluppa la tragedia contemporanea siriana attraverso filmati che trova su You Tube. Poi un giorno è stato cercato, via chat, da Wiam Simav Bedirxan (il cui nome significa “acqua argentea”, da cui il titolo del film), una documentarista kurda - siriana che vive a Homs. Il documentario è quindi un racconto che documenta lo scambio informativo tra un esiliato e una testimone della terribile guerra civile che insanguina la Siria dal 2011, dopo la rivolta popolare ferocemente repressa dal Presidente - dittatore Bashar Hafez al-Assad.
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Lo scambio “epistolare” di opinioni e impressioni tra i due verte su fatti e episodi di violenza e di scontri e su come andrebbero filmati. Ossama vorrebbe riprendere tutto, ma Wiam Simav Bedirxan, sottoposta come tutti gli abitanti di Homs a un assedio disumano, non può quasi uscire di casa e deve limitarsi a filmare rovine e qualche scena di disperazione. Da questo stato di impotenza di entrambi, l’uno lontano, l’altra sottoposta a un confino domiciliare, nasce la scelta di costruire un documentario che raccoglie filmati artigianali, realizzati con piccole videocamere amatoriali o con i cellulari da anonimi abitanti di città e paesi siriani, che documentano scene di vita, atrocità, massacri, volti e corpi, e postati su You Tube. Molti di questi You Tubers muoiono ogni giorno, altri sparano, ammazzano e filmano il loro quotidiano. E su quelle immagini e sequenze, montate da Ossama, si dipana fuori campo, attraverso le voices over, il dialogo tra i due registi. Il film costituisce un puzzle sconcertante, una testimonianza dal vivo dell’auto annientamento e della morte di un popolo e di una cultura e, al tempo stesso, è una lacerante testimonianza e una dolorosa riflessione circa l’impegno, gli ambiti e i limiti dei cineasti nel filmare la realtà anche in condizioni impossibili.
"Iranien", Mehran Tamadon |
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Iranien, terzo film documentario del regista iraniano Mehran Tamadon, residente in Francia, presentato nel focus dedicato al tema “Democrazia” è il resoconto di un inedito esperimento condotto dall’autore stesso. Dopo due anni di strategia persuasiva, Mehran, tornato in Iran, è riuscito a riunire per due giorni, nella casa di campagna della sua famiglia, quattro leader religiosi che appoggiano il regime teocratico di Teheran. Lo scopo è il tentativo di discutere con lui, spirito laico e democratico, i vantaggi e gli svantaggi di una società pluralistica e quindi di questioni come la libertà di stampa, l’aborto, l’obbligo del chador, ecc., temi quasi tabu in Iran. Ne nasce un confronto di indubbio interesse, senza possibilità di punti comuni tra le due parti, ma purtroppo non privo di formalismi retorici, dovuti anche dal clima di cortesia connesso alle regole dell’ospitalità. Per altro occorre riconoscere le indubbie qualità dialettiche mostrate da ayatollah e hojjat al-Eslam, che in vari momenti mettono in difficoltà Mehran.Tuttavia la vera natura liberticida del regime teocratico emerge chiaramente nel finale quando il regista comunica alla propria madre che le autorità lo lasciano partire per la Francia, ma lo hanno avvisato che, se tornerà un’altra volta in Iran, in seguito non potrà più uscire dal Paese.
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Dedichiamo anche una menzione di merito a un film presentato nella sezione Onde :
"La Sapienza", Eugène Green |
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La sapienza, di Eugène Green, è un dramma esistenziale molto curato a livello narrativo ed estetico. Attraverso un quartetto di personaggi stereotipati il regista costruisce una finissima rappresentazione della contraddizione tra ideali estetici e umanitari e volgarità delle contingenze della vita. La narrazione è fredda e vagamente malinconica, ma la conclusione ricompone i contrasti. Green gioca con i clichés e li sovverte con eleganza: la crisi esistenziale e la vocazione professionale, il rapporto coniugale e quello tra fratello e sorella, il malessere psicologico, l’incomprensione, la sottile gelosia occultata e la dedizione all’altro. Propone dialoghi stranianti ricchi di suggestioni intellettuali e culturali e li risolve con leggerezza. Le inquadrature alternano close up dei personaggi e suggestive esplorazioni spaziali. Il gioco tra interni ed esterni, morbida luce diurna e interni notturni con antiche illuminazioni, è ammirevole. Nonostante alcuni risvolti narcisistici il film risulta intrigante e attraente.
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Infine un breve commento a un film molto atteso della sezione TorinoFilmLab :
"Los Hongos", Oscar Ruiz Navia |
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Los hongos, del colombiano Oscar Ruiz Navia, è un coming-of-age film drammatico, interessante dal punto di vista ambientale e antropologico, ma non del tutto riuscito. Racconta le vicende di un paio di adolescenti graffitari che si immergono nel mondo della controcultura giovanile di Cali. Ras è un proletario negro, licenziato dopo un apprendistato come operaio edile. Calvin è un giovane della classe media, studente alla Facoltà di Belle Arti. Sono legati da un’amicizia non priva di contraddizioni. Non mancano note documentaristiche autentiche, ma la narrazione è disordinata e la conclusione grottescamente simbolica. Navia indulge nei piccoli sketchs e recupera elementi evidentemente autobiografici. Mostra in parallelo la vita della classe media, quella dei proletari negri inurbati e quella dei giovani, tra arte di strada, rave parties e amorazzi. Diverte, ma non convince, perché il film pare troppo furbetto e falsamente pittoresco ed “esotico”
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