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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 67. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI LOCARNO I DI GIOVANNI OTTONE I 2014

Festival di Locarno 2014

Cinema di nicchia, senza acuti

Un concorso internazionale irregolare che ha privilegiato drammi apparentemente duri, ma scontati. Vince "From what is before" del filippino Lav Diaz. La sezione “Cineasti del Presente”, opere prime e seconde, delude.

 

DI GIOVANNI OTTONE

"From what is before" Lav Diaz

From what is before

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Il 67° Festival del Film Locarno, svoltosi dal 6 al 16 agosto 2014, nella seconda edizione curata dal Direttore Artistico Carlo Chatrian, ha confermato la tradizionale struttura del Festival. Nel complesso si è notato, da parte della Direzione e del comitato di selezione, un lodevole tentativo di privilegiare il cinema d’autore, ma la mescolanza di noti registi veterani che si ripetono con opere modeste e di giovani autori, spesso pretenziosi, con l’aggiunta di filmetti “brillanti” e sentimentali, depone per varie incertezze nelle scelte rispetto al cinema che si vuole proporre. Ne deriva che il ”Concorso Internazionale” ha compreso troppi film viziati da autocompiacimenti e da clichés e la sezione “Cineasti del Presente” ha presentato, in maggioranza, opere deboli e irrisolte. Per altro non sono mancati alcuni film di qualità realizzati in Asia, in Russia e in America Latina, soprattutto drammi esistenziali e commedie surreali. In sostanza un piccolo passo indietro rispetto all’edizione dello scorso anno e, soprattutto, una vetrina depotenziata, considerata la tradizione del Festival come punto di riferimento mondiale per autori indipendenti e originali.

La felice conferma viene invece dal mantenimento e dal rafforzamento delle iniziative di presentazione di selezioni esemplari di cinematografie indipendenti di Paesi del Sud e dell’Est del mondo bisognose di visibilità e di sostegno alla postproduzione di progetti di qualità. Si tratta di “Open Doors” comprendente quest’anno 16 lungometraggi e 10 corti di Paesi dell’Africa sub-sahariana realizzati nel corso dell’ultimo trentennio e di “Carte Blanche”, un mini concorso che ha allineato 7 nuovissimi lungometraggi di giovani registi del Brasile, filmati in prima edizione e in attesa di fondi per il completamento.

Anche quest’anno non è mancato il piatto forte dedicato al grande pubblico, ovvero la solita selezione-contenitore polivalente di lungometraggi della “Piazza Grande”: in maggioranza commedie piuttosto scontate e/o grottesche, film di buoni sentimenti e pellicole di azione. A parte la riproposizione di alcuni film del passato, grandi classici e omaggi, (Il gattopardo, di Luchino Visconti e Les plages di Agnès, di Agnès Varda) e di film presentati nella selezioni ufficiale del Festival di Cannes (La Vénus à la fourrure, di Roman Polanski, Sils Maria, di Olivier Assayas e Geronomo, di Tony Gatlif) dello scorso anno e di quest’anno, sono da segnalarsi pochi film. Dancing Arabs, dell’israeliano Eran Riklis è un coming-of-age film drammatico abbastanza interessante, seppur non privo di qualche artificiosità. Lucy, del francese Luc Besson, con Scarlett Johansson e Morgan Freeman, è un thriller vigoroso, ma condizionato dai consueti stereotipi. The Hundred-Foot Journey, dello svedese, adottato da Hollywood, Lasse Hallström, con Helen Mirren e Om Puri, è una commediola abbastanza gradevole, ma del tutto scontata. Più simpatico e gustoso è invece Land Ho!, realizzato a quattro mani dai trentenni  americani Aaron Katz e Martha Stephens:  un road movie, ricco di humour e senza grandi pretese,  che racconta la rocambolesca vacanza in Islanda di due amici ultrasessantenni americani, agiati pensionati, scettici e un poco ingenui. In aggiunta si è assistito, serata dopo sertaa, alla consueta sfilata, eccessiva e discutibile, di Pardi e Premi vari alla carriera. Quest’anno i riconoscimenti sono andati a: Agnès Varda, Nansun Shi, Juliette Binoche, Giancarlo Giannini, Garrett Brown e Armin Mueller-Stahl.

Rispetto alla selezione del “Concorso Internazionale”, si nota un mix poco riuscito di autori maturi, beniamini dei Festivals (Pedro Costa, Lav Diaz e Paul Vecchiali), che si ripetono con opere modeste,  opere di registi trentenni, di genere drammatico, deludenti e piene di stereotipi (Andrea Štaka, Lucie Borleteau, Park Jungbum e Alex Ross Perry) e film acerbi e pretenziosi, spesso costruiti ad hoc per ingraziarsi la Giuria e / o per provocare il pubblico con situazioni e immagini “disoneste” e contundenti (Syllas Tzoumerkas, Bonifacio Angius, Gabriel Mascaro e J. P. Sniadecki), accanto a pochi film realmente dignitosi e convincenti, con diversi elementi estetici e poetici originali (Martín Rejtman, Matías Piñeiro, Eugène Green e Zhang Lu), e una sola opera di eccellente fattura ( Durak, del trentenne russo Yury Bykov).

Il “Concorso Internazionale” ha quindi presentato 17 lungometraggi, di cui due opere prime, tutti in anteprima mondiale eccetto quattro,. La Giuria, presieduta dal regista italiano Gianfranco Rosi, ha attribuito i Premi principali a film di nicchia, apparentemente privi di compromessi, ma, a nostro giudizio, irrisolti e discutibili. Ha mostrato invece di non apprezzare le commedie più innovative e finemente surreali e i drammi  più poetici e intriganti.

From what is before

"Mula sa kung ano ang noon (From what is before)" Lav Diaz

 

Il Pardo d’Oro al miglior film è stato assegnato a Mula sa kung ano ang noon (From what is before), del filippino cinquantenne Lav Diaz. Allo stesso film è stato attribuito il Premio della Giuria dei Critici della FIPRESCI. Anche in questo caso si tratta di un dramma di lunghezza fuori dagli standard ordinari (338’), ugualmente alla maggior parte delle opere precedenti dello stesso regista, noto per essere autore di un cinema duro, low budget e privo di compromessi. E indubbiamente è un film esteticamente rigoroso, caratterizzato da un vivido bianco e nero, lenti movimenti della macchina da presa, sapienti piani sequenza e inquadrature long shots con effetti alternanti. Diaz appare intenzionato a descrivere percorsi esistenziali marcati da complesse problematiche sociali e politiche.In effetti la storia è ambientata in un villaggio rurale periferico, nel 1972, nell’epoca in cui il Presidente della Repubblica, nonché vero dittatore delle Filippine, introdusse nel Paese la legge marziale.

Ne derivò un regime di feroce repressione, gestito dall’esercito e da bande paramilitari che, con la scusa di dare la caccia a guerriglieri e oppositori di sinistra, ne approfittarono per vessare la popolazione delle campagne con illegalità e soprusi di ogni genere, fino a torture e omicidi illegali. Il regista ha dichiarato che il film si basa su suoi ricordi e esperienze dell’adolescenza e che tutti i personaggi sono ispirati a persone reali che lui stesso ha conosciuto e frequentato. Probabilmente la sua intenzione era quella di effettuare, come nelle sue opere precedenti, una meditazione poetica e “politica” sulla vita e sulla sofferenza. Purtroppo invece si perde in una “novela” piuttosto pittoresca che si avvita su sé stessa, con personaggi molto convenzionali o segnati da infermità e handicaps. Uomini e donne seguiti nelle loro routine quotidiana e descritti nei dettagli più intimi , con tempi prolungati, ma senza riuscire a mostrarne in forma convincente personalità e stati d’animo e lasciandoli intrappolati in uno sterile naturalismo esotico. Ne emerge una lenta sequela di episodi drammatici che sembrano derivare da meschini pregiudizi e da contraddizioni esistenziali piuttosto banali. Anche i temi delle superstizioni ancestrali e del complesso rapporto tra gli abitanti e il prete cattolico sono risolti con modalità grossolane e retoriche. Al punto che, quando dopo tre ore di storia, compaiono i soldati violenti e una banda di paramilitari grottesca e poco credibile, ancorché efferata, la precipitazione dei vari drammi, che si sono intrecciati tra loro, appare troppo strumentalmente soggiogata a quella presenza invasiva. Per non parlare di un’incapacità a concludere questa saga tragica che produce ben quattro successive sequenze finali, appesantite da confusi intenti pedagogici. In sostanza Diaz si mostra lontano dalla sua felice approssimazione di vecchia data con la letteratura di Dostoevskij. In questo caso si nota un simbolismo asfittico, una maggior prevalenza di toni dolenti e una rappresentazione dei personaggi piuttosto caricaturale, al di là delle  intenzioni del regista.

Il Pardo per la miglior regia è andato al cinquantenne portoghese Pedro Costa, autore di "Cavalo Dinheiro". Il regista è noto per i suoi precedenti  ritratti sociali di proletari indigenti e di emarginati, tra cui negri immigrati a Lisbona dalle ex colonie africane del Portogallo. Citiamo ad esempio "No quarto de Vanda" (2000) e "Juventude em marcha" (2006). Il suo è un cinema in cui svanisce il confine tra la fiction e il documentario, estremo, austero, molto duro, assolutamente inusuale perché sperimentale e visionario. Ama mostrare il semplice svolgersi della vita reale davanti ad una piccola macchina da presa digitale ignorata dalle / dai protagonisti attori - non attori. Privilegia uno stile iperrealistico, prolisso, ipnotico e poetico. Quest’ultimo film è apparentemente ambientato all’epoca della cosiddetta “Rivoluzione dei garofani”, pacifica e democratica, che, nell’aprile del 1975, su iniziativa dei capitani dell’esercito, pose fine a 50 anni di dittatura fascista e concluse le guerre nelle colonie. 

 

Cavalo Dinheiro

"Cavalo Dinheiro" Pedro Costa

Mostra, attraverso una serie di ritratti individuali e di gruppo, alcuni immigrati africani delle ex colonie, provenienti dal quartiere Fontainhas di Lisbona. Individui emarginati e dolenti che si aggirano in un ospedale alla ricerca del loro compagno, Ventura, un uomo che racconta pene e miserie. Girata prevalentemente in interni, è un’opera esteticamente pregevole sia per le inquadrature calibratissime e gli intensi close up sia per un magnifico impianto chiaroscurale e per la fotografia magistrale di Leonardo Simões che ricordano la pittura di Caravaggio. La narrazione procede per discontinuità attraverso quadri documentari separati e lunghi monologhi ricchi di considerazioni esistenziali e politiche. Purtroppo Costa indulge in un vuoto narcisismo allegorico e verbale, decisamente poco incisivo e credibile, promuovendo un’ambigua lamentazione di poveri diavoli “filosofi”. E, soprattutto, articola una critica feroce e pretestuosa alla citata Rivoluzione democratica portoghese del 1975.

Listen up Philip

"Listen up Philip" Alex Ross Perry

 

Il Pardo speciale della Giuria è stato attribuito a "Listen up Philip", terzo lungometraggio dello statunitense trentenne Alex Ross Perry, presentato in prima mondiale al Sundance Film Festival dello scorso gennaio, ambito ideale per questa dramatic comedy esistenziale scontata e patinata. Si tratta di un film che sembra apparentarsi al sottogenere mumblecore, caratterizzato da low budget, dialoghi naturalistici incalzanti e attori amatoriali. Per altro il cast presenta anche attori noti: Jason Schwartzman, Jonathan Pryce e Elisabeth Moss. Al centro della vicenda, ambientata nell’entroterra della East Coast americana, vi è Philip, uno scrittore trentenne egocentrico e insoddisfatto. Un tipo approdato inaspettatamente al successo dopo l’uscita di un primo libro e in attesa della pubblicazione del secondo romanzo.

Essendo in crisi con Ashley, la sua fidanzata fotografa che lo aveva supportato quando era sconosciuto, l’uomo accetta la proposta di Ike Zimmerman, un anziano e smaliziato scrittore e maître a penser di cui è il pupillo: un invito a trasferirsi nella isolata residenza estiva del mentore. Da quel momento assistiamo a un carosello di incontri e confronti tra Philip e varie giovani donne che tentano di sedurlo senza successo. Nonostante il palese tentativo di Ross Perry di intrattenerci con dialoghi incalzanti, infarciti di riferimenti intellettuali, fraintendimenti e piccoli drammi, non riusciamo ad appassionarci alle noiose peripezie di sbiaditi personaggi che esibiscono un mix di frustrazione e di cinismo, in bilico tra una grottesca sofferenza e l’incapacità ad amare. Gli attori, ad eccezione del collaudato Pryce, sono mediocri, enfatici e mal diretti e, in aggiunta, si segnala una ricorrente fastidiosa voice over che commenta le vicende indugiando in banali considerazioni sui personaggi.

Il Pardo per la miglior interpretazione femminile è andato all’attrice francese, di origine greca, Ariane Labed, protagonista di Fidelio, l’odyssée d’Alice, opera prima della trentenne francese Lucie Borleteau. È un dramma mediocre e scontato con una fattura prettamente televisiva. Offre il ritratto di Alice, una ventenne che svolge i compiti di secondo ufficiale di macchina sul Fidelio, un vecchio cargo francese che naviga lungo le coste africane e nell’Oceano Pacifico. Le trasferte la impegnano per lunghi mesi ed è l’unica donna dell’equipaggio. È innamorata del suo fidanzato norvegese, ma sulla nave reincontra Gaël, il capitano, già suo primo istruttore e sua grande passione giovanile.  Le peripezie sessuali della giovane donna e i suoi contorcimenti psicologici, con contorno di suspence a buon mercato, a causa di incidenti drammatici nel corso della navigazione, sono trattate con toni convenzionali e superficiali.

 

Fidelio

"Fidelio, l'odysée d'Alice" Ariane Labed

Fino ad un finale stucchevole che vorrebbe sostenere la maturata convinzione in sé stessa della protagonista, una donna libera. Per altro anche l’interpretazione della Labed ci è parsa ben poco originale e incisiva. Sorprende che il film abbia ricevuto anche il Premio della Europa Cinema Label Jury della CICAE.

Il Pardo per la miglior interpretazione maschile è stato assegnato all’attore russo Artem Bystrov, protagonista di "Durak" (The fool), terzo lungometraggio del trentenne russo Yury Bykov. Il film ha ottenuto anche il Premio della Giuria Ecumenica. È un intenso dramma - thriller che contiene una genuina rappresentazione della decadenza dei rapporti umani nella Russia contemporanea, tra cinici comportamenti criminali e sovversione culturale operata  dal potere oligarchico attuale, in una tragica continuità con il passato del secolo scorso. Il protagonista della vicenda è Dima Nikitin, un semplice e onesto idraulico trentenne che vive in una piccola città russa. Abita con la moglie, la figlia e  i genitori, disillusi e amareggiati, e si sforza di migliorare la sua condizione studiando faticosamente nelle ore notturne per laurearsi in ingegneria. Una notte viene chiamato d’urgenza per verificare lo stato delle tubature, dopo un’esplosione avvenuta in un appartamento di un grande e fatiscente caseggiato-dormitorio dove vivono disoccupati, alcolizzati e violenti, giovani e vecchi.

Durak

"Durak" Artem Bystrov

 

In breve, grazie alle conoscenze che gli vengono dagli studi, si rende conto dell’imminente rischio di crollo dell’edificio in cui si è aperta una grave fessurazione verticale che si estende dalle fondamenta al tetto. Nonostante la contrarietà di sua madre e di sua moglie, Dima si reca in un grande ristorante dove i vertici del municipio, della polizia e dei pompieri festeggiano il sindaco, una cinquantenne volitiva che da anni domina la città. Nel corso della lunga notte il protagonista verificherà la profonda corruzione dei funzionari pubblici e il tremendo rischio che corre per il fatto di richiedere un’evacuazione urgente degli abitanti del caseggiato a rischio. Bykov, regista, sceneggiatore, montatore e autore delle musiche del film, offre un ritratto impressionante e realistico del degrado delle istituzioni e dei rapporti umani e della perversione delle coscienze. Confeziona un’opera lucida, cupa e claustrofobica, con qualche eccesso prosaico, ma con una forza drammatica incontestabile, un ritmo incalzante e un magnifico finale del tutto privo di retorica consolatoria.

Un film conciso e diretto nel documentare, senza inutili appesantimenti moralistici, la corruzione della polizia, il dispotismo e i metodi criminali dei clan affaristici ai vertici dell’amministrazione pubblica a tutti i livelli, la corruzione della polizia, le miserabili condizioni di vita dei cittadini proletari e le relazioni tra i personaggi, tra brutalità e disperazione. Uno stile molto incisivo, con ampio uso della telecamera a spalla molto mobile e un ottimo utilizzo dell’off-screen. Non per altro il regista ha dedicato questo piccolo capolavoro ad un altro grande regista russo, Aleksei Balabanov, scomparso prematuramente nel 2013, autore di opere geniali e provocatorie che rappresentano lo stesso contesto e le stesse problematiche.

Infine una Menzione Speciale è stata attribuita a "Ventos de Agosto", opera prima di finzione del trentenne brasiliano Gabriel Mascaro. È un film ambientato in villaggio della costa atlantica del Nordeste brasiliano, dove vivono persone semplici, in maggioranza mulatti, che si dedicano alla pesca con fragili barche e alla raccolta delle noci di cocco. Nonostante alcuni interessanti spunti documentaristici, Mascaro costruisce una trama fittizia astrusa e arzigogolata, popolata da personaggi fasulli, in primis Shirley, una giovane venuta dalla città con assurdi comportamenti disinibiti. Tra suggestioni thriller e strambi misteri, l’intervento di un meteorologo che registra il vento e poi scompare, trovatine furbette e immagini costruite, studiate ad hoc per simulare un piccolo Paradiso incontaminato, il film si trascina stancamente, fino a un finale vagamente simbolico. Un’opera pretenziosa e francamente inutile.

 

ventos de agosto

"Ventos de Agosto" Gabriel Mascaro

Dos Disparos

"Dos Disparos" Martin Rejtman

 

Al contrario segnaliamo un paio di film più convincenti, esclusi dal Palmarès. Dos disparos, del cinquantenne argentino Martin Rejtman, è un’intelligente commedia non realista minimalista che si svolge a Buenos Aires e sulla costa. Un’opera che economizza al massimo la comicità e preferisce la suggestione dello straniamento e dell’identità debole di personaggi eccentrici. Sono tutti individualisti, ossessionati da piccole manie, fragili e incerti. Uno humour inconsueto emerge in forma indiretta, per allusione, osservando i loro progetti strampalati e spiando i loro desideri e le loro azioni. Ne risulta che la loro capacità di responsabilizzarsi è fortemente carente. I dialoghi sono solo apparentemente logici, in realtà appaiono un poco deliranti e diventano comici per la loro laconica assurdità. Il regista privilegia spesso i piani fissi per dare risalto alla circolarità irrimediabilmente viziosa delle conversazioni codificate.

Il film è un intelligente ed interessante documento sulla crisi di identità e sulla dissoluzione della personalità nell’Argentina odierna, dove l’alienazione è il prodotto dell’incapacità di conciliare un passata tragico ed un presente incertissimo. Rejtman ripropone con coerenza, a distanza di anni, la felice poetica presente nei suoi film precedenti: Silvia Prieto (1999) e Los guantes mágicos (2003). La princesa de Francia, del trentenne argentino  Matías Piñeiro, è il terzo film di un ciclo  dedicato a Shakespeare. È una commedia che racconta amori e disamori in un gruppo di ventenni, donne e uomini. Sono appassionati di teatro e i loro percorsi esistenziali si svolgono tra  la vita reale e i lavori precari, in ambito artistico o meno, e la recitazione. Al centro della vicenda vi è Victor che torna a Buenos Aires dopo un anno di soggiorno in Messico. In breve riesce a riformare la sua ex compagnia teatrale, proponendo un radiodramma che adatta la commedia “Pene d’amor perdute”, di Shakespeare, con la regia curata da lui stesso. Ma si apre una complessa problematica. Le cinque attrici coinvolte, Paula, Ana, Natalia, Lorena e Carla, sono state, sono ancora o sono potenzialmente tutte legate sentimentalmente allo stesso Victor. Ne nasce una teoria di episodi, rituali e associazioni romantiche libere, che si sviluppano con un ritmo circolare, guidate da un linguaggio verbale e visivo seducente. In effetti i dialoghi del film, ampi, ricchi di riferimenti culturali e/o letterari, a volte criptici e spesso surreali,  mescolano spezzoni del testo di Shakespeare e discussioni sulla vita di tutti i giorni, configurando un labirinto dialettico e un equilibrio instabile, ma delicato.  Ne deriva un gioco fresco, costruito attraverso piccoli spazi in cui i personaggi si muovono e interagiscono, tra verità, enigmi e bugie, pettegolezzi, scontri effimeri e ripetizione dei testi, in teatro o per strada. Una serie di relazioni controverse, dualismi e scambi di ruoli. Il film si presenta come un network di storie, con una visione teatrale della vita come pura energia che si sposta da un luogo all’altro. È apparentemente irregolare e casuale nella narrazione, ma composto invece con intelligente malizia. Un romanzo visivo che descrive desideri e impulsi di una generazione di giovani, ricco di colpi di scena lasciati in sospeso, trame parallele e piroette tra presente e passato. Una scansione drammatica del tutto originale, elaborata e semplice al tempo stesso, ma affatto narcisistica o pedagogica. Piñeiro manifesta una notevole raffinatezza di scrittura , di sguardo e di messa in scena, mostrando di aver appreso la poetica di grandi maestri quali Éric Rohmer e Manoel De Oliveira e di voler rielaborare creativamente spunti dalle opere letterarie di  Jorge Luis Borges e di Domingo Faustino Sarmiento, dai feuilletons francesi dell’ ’800 e  da alcune commedie di Shakespeare.

Una citazione positiva anche ad altri due film. "La sapienza" di Eugène Green, è un dramma esistenziale molto curato a livello narrativo ed estetico. Attraverso un quartetto di personaggi stereotipati il regista costruisce una finissima rappresentazione della contraddizione tra ideali estetici e umanitari e volgarità delle contingenze della vita. La narrazione è fredda e vagamente malinconica, ma la conclusione ricompone i contrasti. Green gioca con i clichés e li sovverte con eleganza: la crisi esistenziale e la vocazione professionale, il rapporto coniugale e quello tra fratello e sorella, il malessere psicologico, l’incomprensione, la sottile gelosia occultata e la dedizione all’altro. Propone dialoghi stranianti ricchi di suggestioni intellettuali e culturali e li risolve con leggerezza. Le inquadrature alternano close up dei personaggi e suggestive esplorazioni spaziali. Il gioco tra interni ed esterni, morbida luce diurna e interni notturni con antiche illuminazioni è ammirevole. Nonostante alcuni risvolti narcisistici il film risulta parzialmente intrigante e attraente.

 

La sapienza

"La Sapienza" Eugène Green

Gyeongju, del cinquantenne coreano, di origine cinese, Zhang Lu offre un ritratto poetico minimalista di relazioni umane occasionali e transitorie. È un film condensato in un breve arco temporale di pochi giorni, ma dilatato da delicate suggestioni emotive. Al centro della vicenda vi è Choi Hyeon, un professore universitario quarantenne coreano specialista della storia e del contesto politico ed economico del nord-est asiatico presso l’Università di Pechino. È un tipo  riservato, ma curioso. Tornato in Corea  per il funerale di un amico morto in circostanze misteriose, si lascia prendere dai ricordi di un’escursione nella tranquilla cittadina di Gyeongju, effettuata anni prima con i suoi amici, e il giorno seguente, preso da un impulso, ritorna in quel posto. Nelle successive 24 ore, dopo aver incontrato la bella ed enigmatica Yun-hui, proprietaria di una sala da tè, sarà coinvolto in un fragile int

Al contrario l’unico film italiano in concorso, "Perfidia" opera seconda del trentenne sardo Bonifacio Angius, pur configurando un interessante spaccato sociologico, risulta irrisolto e pretenzioso.

Perfidia

"Perfidia" Bonifacio Angius

 

Si tratta di una storia di alienazione, con atmosfere thriller, piuttosto artificiosa. Racconta il complicato rapporto tra Peppino, un padre sessantenne conservatore e moralista, divenuto recentemente vedovo, e il figlio Angelo, un uomo di 35 anni che vive ancora con lui. Un tipo amorfo, senza lavoro né fidanzata, prigioniero di una meschina routine quotidiana. In effetti, quando non è costretto ad accompagnare il padre che, nel frattempo, intende candidarsi alle elezioni amministrative locali, Angelo trascorre le giornate in un bar insieme a un gruppo di amici mediocri che passano il tempo a sfottere gli altri e a giocare a carte o incollati ai videogiochi. Tra dialoghi abborracciati, con penosi tentativi di comicità surreale, e situazioni vagamente paradossali, il film si trascina stancamente fino ad un finale tragico e provocatorio troppo costruito e assurdo. Sono evidenti gravi carenze di scrittura, un’incapacità nel gestire la costruzione drammatica e una recitazione affettata di molti attori che imitano malamente i modi di Antonio Albanese.

La sezione competitiva “Cineasti del Presente”, riservata alle opere prime e seconde, ha compreso 15 lungometraggi. Rispetto all’edizione dello scorso anno del Festival in cui la stessa sezione aveva annoverato alcuni film di sorprendente qualità, quest’anno ha francamente deluso, avendo presentato una maggioranza di film poco originali e falsamente innovativi. La Giuria della sezione, presieduta dal regista siriano Ossama Mohammed ha attribuito i Premi principali ai seguenti film. "Navajazo", del messicano Ricardo Silva, ha ottenuto il Pardo d’Oro al miglior film della sezione. È un documentario che offre il ritratto di una galleria di emarginati, drop out, tossicodipendenti, alcolizzati, senza casa, prostitute, miserabili immigrati, bizzarri collezionisti e presunti attori che stazionano in squallidi ripari e catapecchie a Tijuana, sulle rive del fiume omonimo. Al di là di un presunto estremo realismo, risulta evidente un fastidioso vampirismo visivo da parte del regista che ricalca le orme del famigerato Gualtiero Jacopetti. In effetti pare evidente che Silva stimoli cinicamente questi poveracci affinché raccontino orgogliosamente la loro subcultura, riprendendo poi imaagini esibizionistiche dei loro  corpi tatuati e dei loro comportamenti autolesionistici. "Los hongos", del colombiano Oscar Ruiz Navia, ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria. Racconta le vicende di un paio di adolescenti graffitari che si immergono nel mondo della controcultura giovanile di Cali. Ras è un proletario negro licenziato dopo un apprendistato come operaio edile, Calvin è un giovane della classe media studente alla Facoltà di Belle Arti: sono legati da un’amicizia non privadi contraddizioni. Non mancano note documentaristiche autentiche, ma la narrazione è disordinata e la conclusione grottescamente simbolica. Navia indulge nei piccoli sketchs, recupera elementi evidentemente autobiografici e mostra in parallelo la vita della classe media, quella dei proletari negri inurbati e quella dei giovani, tra arte di strada, rave parties e amorazzi. Diverte, ma non convince, perché il film pare troppo furbetto e falsamente pittoresco ed “esotico”.

Da menzionare alcune alcune opere più significative, escluse dal Palmarès. "Buzzard" dello statunitense Joel Potrykus offre il divertente, irriverente e provocatorio ritratto di Marty, un piccolo truffatore ventenne, paranoico e maldestro, che è approdato a Detroit. Un tipo scansafatiche e codardo, con un look horror-metallaro e  con uno speciale talento per i raggiri e per raccontare frottole assurde, ma anche capace di improvvisi scoppi di ira e di atti violenti, se messo alle strette. Il film ne segue le incredibili peregrinazioni nel tentativo di incassare assegni fasulli trafugati dall’ufficio pubblico in cui era impiegato. Potrykus dimostra talento nella costruzione del personaggio e nella scelta dell’ambientazione, nella periferia urbana anonima e alienante. Per altro la narrazione minimalista  sembra prigioniera di una logica da cortometraggio.

 

Buzzard

"Buzzard" Joel Potrykus

"Exit" del cinese, di Taiwan, Chien Hsiang, già direttore della fotografia , è un eccellente dramma esistenziale. Al centro della vicenda vi è Ling (interpretata dalla nota attrice Chen Shiang-chyi), una cinquantenne che vive sola perché la figlia e il marito sono lontani. Una donna caparbia e curiosa che cerca di conservare la sua dignità. Lavora in un laboratorio tessile, ma in seguito al taglio del personale viene licenziata ed è costretta a cucire a domicilio. Inoltre si reca giornalmente in ospedale per accudire la vecchia suocera costretta a letto. Poco a poco la sua attenzione è catturata da un uomo  gravemente ferito e incosciente, con il volto e gli arti bendati, che giace nel letto accanto. Poi un giorno la donna si avvicina, lo tocca e lo lava. È un film ricco di sfaccettature. Chien Hsiang ripropone atmosfere e temi del cinema di Tsai Ming-liang, di cui è stato allievo, in particolare lo spiare gli estranei, il compiere atti imprevisti e il sentirsi intrappolati negli spazi chiusi. Per altro non si tratta di pura imitazione. Il film compone con delicatezza e maturità un convincente ritratto della psicologia femminile e della carenza affettiva.

Infine la nuova sezione denominata “Sign of Life” che avrebbe dovuto presentare opere di frontiera, innovative e sperimentali, ma ha invece mostrato una manciata disomogenea di film in maggioranza velleitari e grotteschi. Ne citiamo alcuni.

"El escarabajo de oro", del trentenne argentino Alejo Moguillansky, è uno pseudo film sperimentale, infarcito di vacue citazioni politiche e intellettuali. L’autore si colloca all’interno di una nuova tendenza del cinema argentino, emersa a partire dal 2007. Si tratta di film di giovani registi che mettono in scena storie con un meccanismo tipo scatole cinesi e un complesso intreccio di personaggi che vivono una falsa drammaticità. Opere con una chiara impostazione teatrale e dialoghi criptici e spesso surreali. In sostanza un profilo narrativo coinvolgente e irritante al tempo stesso, a causa dell’evidente esercizio affabulatorio estetizzante, ricco di riferimenti culturali e/o letterari. In questo caso è peggio ancora, perché emerge una cinica strumentalità volta a sovrastare il pubblico con un profluvio furbesco di circostanze astruse. Il film non c’è, ovvero si finge di raccontare il making off di un film finanziato da un Festival di cinema danese e commissionato allo stesso Moguillansky. Una storia assurda che contiene cento altre storie. Al di là del presunto divertissement che fa sorridere solo nei minuti iniziali, purtroppo emerge anche un fastidioso e velleitario chiacchiericcio anticolonialista (e polemico verso gli europei) da parte dei buontemponi, amici e colleghi del regista, che sfruttano il rodaggio del fantomatico film, per cercare un presunto tesoro sepolto secoli prima. "Com os punhos serrados", dei giovani brasiliani Ricardo e Luiz Pretti e Pedro Diogenes, racconta la vicenda fantasiosa di tre giovani che, a Fortaleza, hanno creato una radio clandestina che irride il potere e interferisce le frequenze audio delle stazioni radiofoniche istituzionali con messaggi anarchici, musica e poesie ribelli. Un film del tutto velleitario, tra suggestioni oniriche, rievocazioni confuse di miti di precedenti rivoluzioni proletarie e alternative di altri Paesi, citate a sproposito, e grottesca apologia dei presunti movimenti di contestazione al governo emersi in Brasile nell’ultimo biennio.

Al contrario due lungometraggi suggestivi. "Favula", dell’argentino sessantenne Raúl Perrone, è un film inclassificabile. Un’opera sperimentale-narrativa, con un flusso di immagini mute che rappresentano situazioni di amore, passione e morte attraverso paesaggi esotici e stranianti. Un film girato in un vivido bianco e nero, con una straordinaria colonna sonora che mescola motivi lounge, hip hop, classici ed etnici. "Los ausentes", del messicano Nicolás Pereda, è un documentario realistico e dolorosamente poetico. Un film esteticamente rigoroso che descrive in forma anticonvenzionale la vicenda di un povero contadino settantenne privato dalla legge del piccolo appezzamento di terra, e della casa vicino alla spiaggia, dove ha sempre abitato perché risulta  privo dell’atto di proprietà. Costretto a emigrare, si troverà a girovagare sulle montagne e non otterrà alcuna solidarietà e ospitalità rouge

 

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67. FESTIVAL INT. DEL FILM DI LOCARNO

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06 - 16 / 08 / 2014

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