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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 67. CANNES FILM FESTIVAL 2014 I SCHEDE CRITICHEI DI GIOVANNI OTTONE I 2014

FESTIVAL DI CANNES 2014

 

SCHEDE CRITICHE

 

 

DI GIOVANNI OTTONE

 

Cannes 2014

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SEZIONE COMPÉTITION OFFICIELLE

WINTER SLEEP, di Nuri Bilge Ceylan (Turchia) / Palme d’Or

Vite difficili / Tre personaggi intrappolati in un limbo esistenziale

Papusza

"Winter Sleep" Nuri Bilge Ceylan

 

Winter sleep è un  magnifico affresco  delle relazioni umane, ma anche una disanima pluristratificata e coraggiosa delle contraddizioni nella società turca di oggi. La storia si svolge in inverno in un piccolo boutique hotel isolato, in Anatolia, nella regione turistica della Cappadocia. Aydin, il proprietario cinquantenne, è un intellettuale, ex attore teatrale di Istanbul, nonché editorialista del giornale locale. Sua moglie Nihal, molto più giovane, si dedica alla causa del sovvenzionamento delle scuole primarie locali. Necla, sorella di Aydin è una donna matura, amareggiata a causa del recente divorzio. Poco a poco emerge un grave conflitto tra il protagonista e una famiglia povera di suoi locatari che da mesi non possono pagare l'affitto.Aydin è un “pensatore” tormentato che ama confrontarsi con la sorella sui temi dei suoi articoli: la morale, la coscienza, il buon comportamento dei musulmani.

Necla discute con Nihal su quale sia il miglior comportamento per fronteggiare una violenza subita. Aydin e Nihal si scontrano perché lei soffre a causa del paternalismo del marito, mentre lui le rimprovera l'ingenuità volontaristica. Emerge un matrimonio in crisi da tempo, con sofferenza reciproca. Sentimenti e valori si confrontano e si complicano senza una possibile sintesi. Nuri Bilge Ceylan è interessato al gap e alla tensione tra Istanbul e la provincia. Nei suoi primi film, Small town (1997) e Clouds of May(1999), ha rivisitato gli spazi rurali della sua infanzia. In Distant (Uzak) (2002), ambientato a Istanbul, ci ha offerto un’intensa meditazione sulla solitudine e sull’impossibilità dell’evasione. Con Climates (2006) ha compiuto un ulteriore passo nel percorso di amara riflessione su sé stesso. Con Three monkeys (2008) è passato all’osservazione ravvicinata dei destini di personaggi altri e diversi, in qualche modo tutti corrotti, colpevoli e bugiardi. In Once upon a time in Anatolia (2011) mostra uno sguardo penetrante, rivolto all’essenza della vita umana, e una capacità di raccontarla totalmente, senza giudicarla. Il suo cinema rappresenta costantemente sentimenti inespressi, assenza di appartenenza e resistenza alla identificazione con codici sociali predeterminati. In Winter sleep i personaggi vivono  con disagio perché oppressi da antiche e nuove contraddizioni e interpretano in modo errato la loro collocazione sociale. Ceylan ha dichiarato di essere stato ispirato da alcuni racconti di ?echov, ma ha anche ammesso elementi autobiografici.  Ha negato precisi riferimenti alla situazione politica contemporanea in Turchia, piuttosto ha precisato di voler rappresentare la natura umana, per toccare l'animo dello spettatore. Il film è caratterizzato da lunghi dialoghi, spesso di qualità letteraria, ma emozionanti, prevalentemente in interni, con rare note di humour. Visivamente è affascinante: una composizione molto attenta delle immagini, inquadrature fisse con la macchina da presa immobile, lunghi piani sequenza, un protagonismo degli sguardi e dei silenzi e una  fotografia eccezionale  dai toni scuri curata dall’abituale collaboratore di Ceylan, Gökhan Tiryaki.

MOMMY, di Xavier Dolan (Canada) / Prix du Jury ex-aequo

Madre, figlio e l’altra

Una commedia travolgente e amara sull’amore e sull’amicizia

Papusza

"Mommy" Xavier Dolan

 

Con Mommy Xavier Dolan ripropone il tema della relazione madre - figlio che era al centro di J’ai tué ma mère (2009), il suo folgorante primo film. Tuttavia  questa volta costruisce una più raffinata dialettica drammatica e pone al centro la figura della madre, anziché quella del figlio Ha dichiarato di aver  voluto realizzare un film sull'amicizia, con tre personaggi che hanno ricevuto duri colpi dalla vita e che, per un breve periodo si fondono in uno. Mommy è ambientato in una cittadina del Québec. Diane Després (Anne Dorval) è una giovanile vedova quarantenne. Vive in una bella casa di un quartiere residenziale, ma economicamente si barcamena . Deve badare a suo figlio Steve (Antoine-Olivier Pilon), un sedicenne iperattivo, esibizionista, già recluso in precedenza in riformatorio per comportamenti violenti. Madre e figlio sono legati da un amore viscerale, ma Steve non esita a insultarla ferocemente quando rimproverato o contrariato.

Poi Diane conosce Kyla (Suzanne Clément), una nuova vicina trentenne, intrappolata in un matrimonio non felice, che inizia ad offrirle amicizia e supporto. Poco a poco tra i 3 personaggi si stabilisce un feeling: le 2 donne si confidano e Steve, aiutato da Kyla, studia e collabora. Ma poi Diane deve fronteggiare un grosso guaio. Fin dal suo esordio Dolan ha dimostrato una grande maestria nel descrivere il tipico ambiente piccolo borghese e nel tratteggiare ossessioni moralistiche, desideri occulti e comportamenti non politicamente corretti. E anche nel rappresentare, con serio disincanto, gli intrecci tra amore e sessualità nelle sue varie tipologie. Ha dichiarato la sua cinefilia giovanile e la sua ammirazione per Gus Van Sant e Paul Thomas Anderson.  Nel corso dei suoi film, Les amours immaginaires (2010), Laurence Anyways (2012) e Tom à la ferme (2013), ha progressivamente affinato la caratterizzazione psicologica dei personaggi e ha costruito atmosfere vitali e romantiche sui generis. L’intensità delle situazioni e il caleidoscopio dei sentimenti contribuiscono a un cinema colorato e creativo, che fonde una comicità mai banale e momenti dolorosi. Mommy ripropone due delle sue attrici più assidue (Anne Dorval e Suzanne Clément). Il film ha tra i suoi punti di forza i dialoghi spumeggianti, spiritosi e pieni di slang québecois.  Ancora una volta la scrittura e la messa in scena di Dolan denotano scelte estetiche originali: uno screen format ridotto quadrangolare che simboleggia la condizione esistenziale difficile e una straordinaria fusione di immagini e di musica. La colonna sonora di noti hits pop e rock degli anni '90 e inizio 2000, secondo Dolan, è incorporata nei personaggi.

SEZIONE HORS COMPÉTITION ET SÉANCES SPECIALES

Papusza

"Maidan" Sergei Loznitsa

 

MAÏDAN, di Sergei Loznitsa (Ucraina / Olanda)

Uno straordinario racconto per immagini della rivolta popolare di Kiev, contro il Presidente “traditore” filorusso Yanucovych, dal novembre 2013 al marzo 2014. Il cinema di Loznitsa mostra lucidamente da sempre il percorso storico di corruzione delle coscienze operato dai regimi comunisti dei Paesi dell’Europa Orientale nel corso di 70 anni. Nel film vuole rappresentare il popolo senza mediazioni: quindi sceglie un unico angolo visivo e solo poche didascalie esplicative che narrano la cronologia dei fatti salienti. Un collage di inquadrature fisse prolungate della folla in movimento nella Piazza Maïidan, accompagnate da brani di comizi o drammatici appelli. Il palco con gli oratori è fuori campo e viene inquadrato solo quando vi sono i preti ortodossi. Facce di ogni età e un lavoro eccezionale di esaltazione dei rumori, voci, canti, spari e tamburi ritmati.

El Ardor

"El Ardor" Paolo Fendrik

 

EL ARDOR, di Paolo Fendrik (Argentina)

Un thriller di genere che racconta la vendetta di un abile giustiziere. La storia “western” si svolge nella provincia Misiones. Sulle colline vivono onesti contadini in piccole proprietà isolate. Ma da qualche tempo una banda al soldo dei latifondisti, che vogliono coltivare la soia, li terrorizza, con violenze e incendi delle coltivazioni, costringendoli alla fuga.  Una notte attaccano una piccola fattoria dove si coltiva il tabacco: uccidono barbaramente il proprietario e il bracciante. Kai, un indio che li aveva avvisati del pericolo, riesce a nascondersi, ma non ad evitare il rapimento della giovane donna superstite. Insegue i mercenari nella foresta tropicale e li spia. Poi passa all'azione. Fendrik ripropone il tema del sequestro, già presente nel suo precedente El asaltante (2007). Le locations sono più attraenti della messa in scena, poco originale. 

SELECTION UN CERTAIN REGARD

Party Girl

"Party Girl" Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis

 

PARTY GIRL, di Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis (Francia)/ Prix d’ensemble

Un ritratto femminile drammatico, opera prima di un trio di giovani registi. Angélique è una quasi sessantenne amante della vita notturna e emotivamente prigioniera del suo ruolo di entraîneuse. Lavora in un bar-cabaret di provincia insieme ad altre donne attempate che si spogliano e fanno bere alcolici ai clienti. Un giorno inizia una relazione con Michel, un  mite cliente, ex minatore in pensione, che le propone sinceramente il matrimonio. Pur non amandolo, Angélique lascia il lavoro alla boite de nuit, inizia la vita in comune e prepara le nozze. Nel frattempo riallaccia i rapporti con i suoi 4 figli adulti. Nonostante il tentativo di cinéma-vérité, facendo reinterpretare la propria storia ai protagonisti non attori, il film risulta piatto e scontato e propone troppi luoghi comuni su sentimenti e passioni.

Loin de mon pere

"Loin de mon père" Keren Yedaya

 

LOIN DE MON PERE, di Keren Yedaya (Israele)

Un dramma sconcertante, lucido ed efficace. Il cinquantenne Moshe abita in un piccolo appartamento con Tami, sua figlia che ha vent' anni. O meglio ne possiede la psiche e il corpo. I due vivono in simbiosi. L'uomo ha relazioni sessuali spesso violente con la giovane che subisce passivamente. Ma  poi Tami si rimpinza compulsivamente di junk food, vomita regolarmente e si tagliuzza le braccia. Il padre lo sa e  si limita a rimproverarla e a medicarla. A Pasqua le impone persino la presenza di una sua amante. Tami fugge a Tel Aviv e riceve l’aiuto di una gentile sconosciuta. Keren Yedaya, anche femminista e attivista politica, ripropone il nodo di una relazione malata genitore-figlio, già presente nel suo film di esordio, Or (2004). Un’opera spietatamente realista e claustrofobica che mostra una ritualità quotidiana di estrema sofferenza.

Run

"Run" Philippe Lacote

 

RUN, di Philippe Lacôte (Costa d'Avorio)

Un originale percorso iniziatico di adesione alla violenza in Costa d'Avorio, un Paese africano afflitto da anni da ripetuti colpi di stato e conflitti armati, con migliaia di morti. Il ventenne Run corre veloce fin dall'adolescenza. Spara al Primo Ministro tiranno e lo uccide. Poi fugge e si nasconde a casa di Assa, un anziano oppositore che l’ha addestrato. Intanto ricorda in flashback le tappe della sua vita. Prima, ancora bambino, allievo di un “maestro della pioggia”, poi assistente di una cicciona che si esibiva mangiando a dismisura nelle piazze popolari. Infine membro di una gang di “Giovani Patrioti”, ambigua milizia di strada al servizio dell’uomo forte di turno. L’opera prima di Lacôte alterna forma e ritmo dell'action movie e intensi squarci documentaristici dei ghetti di Abidjan, ma difetta nella costruzione drammatica.

Dohee-Ya

"Dohee-Ya" July Jung

 

DOHEE-YA (A GIRL AT MY DOOR), di July Jung (Sud Corea)

Un esordio maturo. Un dramma stratificato che mostra la forza dei sentimenti. Young-nam, giovane ufficiale di polizia di Seoul, viene trasferita in una cittadina della costa in seguito a comportamenti privati “non conformi”. Nella nuova sede, la donna timida, ma decisa a riabilitarsi, prende a cuore la sorte di Dohee. È una tredicenne infelice, abbandonata dalla madre e regolarmente picchiata dalla nonna e dal patrigno, rozzi e alcolizzati. L'uomo è benvoluto dai concittadini perché è il “caporale” che governa gli immigrati del sud-est asiatico necessari all’industria peschiera locale. Tuttavia, quando si scopre che Young-nam è lesbica, il fatto che ospiti Dohee, che si è legata profondamente a lei, precipita la situazione. 

Dohee-Ya

"The Salt of the Earth" Wim Wenders e Juliano Riberiro Salgado

 

THE SALT OF THE EARTH, di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado (Francia) / Prix Special du Certain Regard

Un documentario straordinario che ricostruisce l'itinerario esistenziale e professionale di Sebastião Salgado, brasiliano, di 70 anni. Un economista, divenuto fotografo nel 1973, durante l'esilio a Parigi, in fuga dalla dittatura militare brasiliana. Un uomo che ha percorso tutti i continenti, entrando in contatto con popoli indigeni, spesso minoranze estranee alla civilizzazione moderna, in Africa, America Latina e Oceania, e con le guerre e i genocidi degli anni '90, in Rwanda, Congo e nella ex Iugoslavia. Una persona dedicata, curiosa e sensibile: il più grande fotografo “sociale” vivente, umanista ed ecologista. Un film costruito con footage, ma soprattutto con i ricordi dello stesso Salgado che commenta i suoi incontri ed emozioni, mostrando i suoi famosi cicli di foto, ognuno frutto di anni di lavoro.

SEZIONE QUINZAINE DES REALISATEURS

GETT, THE TRIAL OF VIVIANE AMSALEM, di Ronit & Shlomi Elkabetz (Israele)

Un intenso dramma da camera che svela la difficoltà esistenziale delle donne in Israele, essendo obbligate a rivolgersi ai tribunali religiosi rabbinici per ottenere il divorzio. Gli Elkabetz, fratello e sorella, concludono la trilogia di film dedicati al matrimonio e alla famiglia, essendo i precedenti To take a wife (2004) e Les 7 jours (2008). Viviane, sposata da anni con Elisha, con cui ha 4 figli  maggiorenni, vuole il divorzio perché non ama più il marito, né sopporta le sue imposizioni e gelosie. L’uomo rifiuta. La causa si trascina per 5 anni, tra rinvii per assenze alle udienze di Elisha e ambiguità delle disposizioni conciliatorie dei giudici. Il film, illuminato dalla recitazione della stessa regista-attrice e di Simon Abkarian, registra l’iter cadenzato del processo, in un crescendo di situazioni assurde e penose e di scontri verbali tra i coniugi e con i giudici. Rigoroso ed emozionante, nonostante alcuni eccessi farseschi.

 

Gett the trial of Viviane Amsalem

"Gett, The Trial of Viviane Amsalem" Ronit e Shlomi Elkabetz

A HARD DAY, di Kim Seong-hun (Sud Corea)

Un poliziesco pieno di energia, con massicce dosi action, ma anche con gustosi  aspetti farseschi. Il trentenne Gun-su è un detective della polizia criminale. Una sera, mentre in auto sta correndo per presenziare le esequie di sua madre, viene avvisato che sta per avvenire una perquisizione del loro ufficio perché i vertici hanno prove della corruzione del suo team. Ansioso e preoccupato, investe un uomo e lo uccide sul colpo. In modo rocambolesco riesce a occultare il cadavere in un luogo “inaccessibile”. Ma nei giorni successivi riceve la telefonata di un misterioso ricattatore che afferma di avere prove del suo crimine “hit and run”. Inizia quindi una frenetica partita a scacchi tra i 2. L’opera seconda di  Kim Seong-hun tratta un tema non usuale in Sud Corea, la corruzione della polizia, e ricorda lo stile di Bong Joon Ho. Per altro il mix di suspence e commedia non sempre funziona.

 

A hard day

"A Hard Day" Kim Seong-hun

REFUGIADO, di Diego Lerman (Argentina)

Un dramma esistenziale con una suspence forzata. Un giorno Matias, di 10 anni, torna a casa dalla scuola e trova sua madre Laura ferita e dolorante. La donna, che da poco sa di essere nuovamente incinta, è stata picchiata da Fabián, suo marito. Madre e figlio sono soccorsi  dai servizi assistenziali e trasferiti in una casa rifugio. Matias trova un ambiente amichevole. Tuttavia, dopo alcune settimane, le autorità stabiliscono che possono ritornare a vivere con Fabián. Laura si sottrae e trascina Matias  da un domicilio di fortuna all’altro, con la paura continua di essere individuati dal marito. Lerman offre un esempio di “cinema popolare”, con il chiaro intento di suscitare emozioni forti nello spettatore. Ma, nonostante un buon finale, il suo sguardo è troppo manipolatorio e grossolano.

 

Refugiado

"Refugiado" Diego Lerman

PRIDE, di Matthew Warchus (Gran Bretagna)

Una commedia piena di energia che offre il ritratto di un’epoca in cui scontro sociale e politico e solidarietà avevano un forte significato. Nell’estate del 1984, in Gran Bretagna, il governo conservatore guidato da Margaret Thatcher si oppone al duro sciopero a oltranza del sindacato dei minatori, la Union of Mineralworkers, che lotta per evitare la chiusura delle miniere. A Londra alcuni gays e lesbiche organizzano un gruppo di solidarietà, il LGSM, e raccolgono fondi per gli scioperanti. Il film, che si avvale della brillante sceneggiatura di Stephen Beresford, e di un cast di ottimi attori, tra cui Bill Nighy e Imelda Staunton, rievoca, romanzandola, la storia vera del difficile incontro tra i minatori di una cittadina del Galles e i loro inusuali supporters, dalla diffidenza all’amicizia. Warchus, regista teatrale, costruisce una galleria di gustosi ritratti, condita da dialoghi trascinanti.

 

Pride

"Pride" Matthew Warchus

SEZIONE SEMAINE DE LA CRITIQUE

FLA Faire l'amour

"Fla (Faire: L'Amour)" Djinn Carrénard

 

FLA (FAIRE: L’AMOUR), di Djinn Carrénard (Francia)

Una commedia contemporanea tra Parigi e Perpignano. Un triangolo di ventenni insicuri e irresponsabili che si incontrano in situazioni di perenne conflitto. Oussmane è un musicista rap che vuole incidere il primo CD e diventare famoso, ma non rispetta gli impegni, pur avendo ricevuto un anticipo. Laure, ricca di famiglia, è una hostess di volo che ha avuto una fugace relazione con lui rimanendo poi incinta. Kahina, sorella di Laure, detenuta, ha ricevuto un permesso premio per incontrare suo figlio, ma si scontra con la burocrazia. Le due sorelle, in circostanze artificiose, fanno alternativamednte coppia con Ousmane. La storia è debole e puramente surrettizia a un susseguirsi di dialoghi  insipidi, noiosi e pieni di invettive. Un film di ambizione smisurata, ma non efficace, prolisso (225 minuti), con vuote contorsioni narrative e una telecamera che si muove in modo irritante.

Self Made

"Self Made" Shira Geffen

 

SELF MADE, di Shira Geffen (Israele)

Un piccolo film, gustoso e delicato, sul tema dell'identità, in una terra divisa da odio e violenza: Israele e Palestina. Michal è un'artista sperimentale trentenne molto nota. Vive a Tel Aviv ed è in attesa di esporre un'installazione alla Biennale di Venezia. Nadine, palestinese della West Bank e poco più giovane, è operaia in una ditta israeliana di mobili tipo Ikea. Entrambe vivono una fase di disorientamento esistenziale. Poi un giorno, ad un chek point di frontiera, si ritrovano, per uno strambo destino “magico”, l’una nei panni dell'altra, con le vite scambiate. Nella sua commedia surreale Shira Geffen ripropone lo stile poetico, fantasioso e teatrale di Meduzot (2007), suo film d'esordio. Confeziona un ritratto femminile tragicomico parallelo, ricco di humour intelligente. Da perdonare alcune esagerazioni comiche e il finale un poco debole.

Gente de Bien

"Gente de Bien" Franco Lolli

 

GENTE DE BIEN, di Franco Lolli (Colombia)

Un esordio di qualità, a valenza esistenziale e sociale. Eric ha 10 anni e vive in città. Quando sua madre deve andare lontano per lavoro, deve trasferirsi nell' umile alloggio di suo padre Gabriel, che conosce appena. Insieme si recano spesso nell'appartamento di Maria Isabel un’insegnante di ceto medio che affida a Gabriel lavori di imbiancatura e piccole riparazioni. La donna nutre simpatia per Eric e lo impone come amico al proprio figlio adolescente. Poi, in uno slancio caritatevole irresponsabile, viste le difficoltà relazionali tra padre e figlio,  propone di adottare Eric. Lolli confeziona, con toni sobri, il convincente ritratto, realista e intimista, di un incontro e di una incomprensione. Da perdonare una caratterizzazione un poco di maniera dei 2 ragazzini.

Hope

"Hope" Boris Lojkine

 

HOPE, di Boris Lojkine (Francia) / Prix SACD

Un eccellente esordio che racconta “dall’interno” il dramma durissimo dell’itinerario dei migranti, dell’Africa Equatoriale, nel Sahara e poi fino al Mediterraneo. Un gruppo di negri nel deserto. Hope, nigeriana, resta indietro, sola e sfinita. Léonard, camerunense, la soccorre. Continuano insieme il viaggio. In Mauritania trovano riparo in un casale diroccato, il “ghetto” dei camerunensi, ma devono pagare la gang che lo governa. Hope è obbligata a prostituirsi. Poi riescono a ripartire. Un susseguirsi di violenze, sconfitte e speranze che consolida il loro rapporto anomalo. Fino a Melilla in Marocco, tragico capolinea. Il francese Lojkine usa non attori. Mostra efficacemente, senza giudizi, il punto di vista dei giovani diseredati e confeziona un’opera con ritmo serrato, drammaticamente credibile.

Hippocrate

"Hippocrate" Thomas Lilti

 

HIPPOCRATE, di Thomas Lilti (Francia)

Un esordio interessante che mostra problematiche reali, purtroppo viziato da una logica di “cinema popolare”. Siamo in un grande ospedale pubblico di Parigi. I protagonisti sono 2 medici “interni”, in attesa di stabilizzazione nello staff: Benjamin, laureato da poco, e Abdel, algerino, più esperto e responsabile. Lavorano  entrambi  nella divisione di medicina generale diretta dal padre del primo. Assistiamo a casi emblematici: il cirrotico senza casa, paziente abituale, che muore per infarto cardiaco non compreso da Benjamin, medico di guardia; un'anziana con cancro diffuso su cui vi è una disputa su come curarla; strumentazioni rotte; i conflitti tra medici, infermieri e amministrazione. Lilti, medico e regista, racconta molte verità dietro la facciata, peccato che le mescoli con gli stereotipi e la goliardia da commediola.

 

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67. CANNES FILM FESTIVAL 2014

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14 - 25 / 05 / 2014

Winter Sleep

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Papusza

 

 

 

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