Domenica 20 aprile si è concluso il 33° Istanbul International Film Festival, uno dei principali Festival cinematografici che si svolgono in grandi aree urbane. La sua programmazione ha vantato quest’anno circa 220 lungometraggi, provenienti da una quarantina di Paesi, nel corso dei 16 giorni della sua durata. Il Golden Tulip Award, quale miglior film della sezione Competizione Internazionale, attribuito dalla Giuria Internazionale, presieduta dal noto regista iranianoAsghar Farhadi, è stato vinto da Blind, opera prima del regista norvegese Eskil Vogt. Il film è stato presentato in prima mondiale lo scorso gennaio al Sundance Film Festival e in seguito, a febbraio, alla Berlinale, nella sezione Panorama, e vi ha ottenuto lo European Label Cinemas Prize. Si tratta di un’opera insolita in quanto intende prospettare il mondo interiore di una donna cieca, mescolando elementi reali e irreali e rielaborando le regole dei generi, il dramma di coppia e il thriller. La protagonista è Ingrid (Ellen Dorrit Petersen), una trentenne che vive con Morten (Henrik Rafaelson), il marito architetto, in una bella casa in un quartiere residenziale. Divenuta cieca nel corso degli anni, non ha né il coraggio né la volontà di uscire di casa e trascorre le giornate ascoltando la radio, interpretando i rumori circostanti e rimuginando pensieri, ricordi, il suo desiderio di maternità e storie fittizie immaginate, che ci vengono comunicati attraverso la sua voice over. Pensa che Morten sia un uomo noioso, ma sospetta che la tradisca e che a volte si nasconda in casa per osservarla. Poi vi sono i loro vicini. Einar (Marius Kolbenstvedt) è un quarantenne timido e frustrato, ossessionato dai filmini porno che guarda compulsivamente su internet. Eilin (Vera Vitali) è una piacente trentenne svedese divorziata e costretta a rimanere in Norvegia per mantenere la custodia compartita di suo figlio.
"Blind" Eskil Vogt |
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Questa donna è oggetto delle fantasie di Einar che la spia di continuo, e, al tempo stesso mantiene un contatto intimo e segreto con Morten attraverso una chat line. Voigt costruisce un’elaborata struttura narrativa, mescolando realismo e suggestioni visive e fantastiche, facendo emergere ardue connessioni da fatti apparentemente disgiunti e spingendo il plot verso risvolti assurdi. Le interessanti composizioni delle inquadrature, la scelta di sequenze immerse in una luminosità lattescente, un sound design ardito e una scenografia di interni curiosa e stravolta costituiscono elementi funzionali al processo narrativo. Tuttavia nonostante una sceneggiatura piuttosto curiosa e un ritmo a tratti intrigante, lento e attento ai dettagli, il film risulta piuttosto pretenzioso e inconcludente perché, quando ci si rende conto che siamo di fronte a un gioco narcisistico, la tensione emotiva si spegne.
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La Menzione Speciale è andata a Papusza, scritto e diretto dalla coppia di coniugi polacchi Joanna Kos-Krauze e Krzysztof Krauze, già in competizione ufficiale al Festival di Karlovy Vary dello scorso luglio 2013. Il film è un biopic che racconta la storia vera e altamente drammatica di una donna coraggiosa e sensibile appartenente a una etnia perseguitata. È un’opera senza dubbio interessante e non priva di alcuni momenti commoventi. Papusza ("bambola" in lingua Rom) è Bronislawa Wajs (1908 - 1987), vissuta in Polonia. È la prima poetessa di etnia zingara di cui siano state pubblicate le opere. Poco dopo la nascita le viene predetto un futuro di onore, ma anche di dolore e di vergogna. Da bambina apprende a leggere e a scrivere in segreto, sfidando i divieti della tradizione familiare e del clan. Dopo essere scampata al genocidio operato dai nazisti (35.000 polacchi di etnia Rom furono uccisi nel corso della II Guerra Mondiale), la sua famiglia vende Papusza a uno zio più anziano, leader di una banda musicale, che la sposa. Nel 1949 lo scrittore ed etnografo Jerzy Fikowski, perseguitato dalla giustizia del regime comunista, si rifugia nel campo di gitani dove vive Papusza. Inizia a conoscere il modo di vivere degli zingari, le tradizioni e la musica e, pur essendo un gadjo (ovvero un non-Rom) impara i rudimenti della loro lingua. Poco a poco intreccia una sincera amiciziacon Papusza. La donna giunge a recitargli i suoi poemi in cui si mescolano passato e presente. Fikowski la invita a trascriverli. Nel 1951 l'uomo, essendo stato amnistiato, torna a Varsavia e pubblica un libro su storia, usi e costumi degli zingari polacchi, dopo aver ottenuto l'appoggio di alcuni intellettuali influenti. Nel frattempo il governo emette un decreto legge che impone agli zingari di abbandonare la loro vita nomade itinerante e li costringe a stabilirsi in case di muratura. La vita dei Rom diventa misera. Papusza, costretta dalla necessità (il suo bambino malato ha bisogno di cure), scrive a Fikowski e gli invia i suoi scritti poetici. Quest'ultimo riesce a farli pubblicare e a farle pervenire un compenso. Tuttavia, ben presto, i gitani iniziano ad accusare Papusza di aver rivelato i loro segreti e le loro tradizioni ataviche, attraverso i suoi scritti. La donna deve quindi subire l'ostracismo del suo stesso popolo, vive nell'isolamento ed è frastornata dai sensi di colpa.
Il contenuto drammatico, e a tratti poetico, del film, girato in bianco e nero, è esaltato dalla ampia gamma di toni della fotografia curata da Krzysztof Plak e da Wojciech Staron. Inoltre un altro merito viene dal fatto che buona parte di Papusza è parlato in idioma Rom, con presenza di attori coadiuvanti gadzi. La messa in scena, pur rispettosa delle tradizioni gitane, appare tuttavia piuttosto convenzionale e la rappresentazione della vita nell'accampamento mostra spesso immagini stereotipate.Per altro, nonostante diverse sequenze enfatiche e una recitazione dei protagonisti spesso sopra le righe, non mancano alcuni momenti di efficace e sincera evocazione di una figura femminile dignitosa, sensibile e sofferente. La narrazione non avviene secondo una scansione cronologica tradizionale e si sviluppa attraverso una mescolanza di flashbacks e flashforwards di epoche diverse del secolo scorso. I registi vorrebbero forse far intendere la peculiare concezione del tempo e della storia nella cultura dei Rom, ma indeboliscono la carica emotiva del film. |
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"Papusza" Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze
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Commentiamo quindi i principali altri Premi assegnati ai film turchi della Competizione Nazionale da parte della Giuria Internazionale presieduta dal noto regista turco Dervi? Zaim.
Il Golden Tulip Award al miglior film turco della sezione Competizione Nazionale è stato assegnato a I am not Him di Tayfun Pirselimo?lu. Allo stesso film sono andati anche il Premio alla miglior sceneggiatura, dello stesso Pirselimo?lu, e, ex aequo, il Best Music Award, assegnato a Giorgios Komendakis, autore della colonna sonora. Ben o de?ilim (I am not him) è un eccellente dramma esistenziale con al centro il tema dell’identità e della fascinazione per quella di un ”altro”. Il protagonista è Nihat (Ercan Kesal), un cinquantenne solitario e introverso, perennemente imbronciato e impassibile, che lavora nella cucina della mensa di un ospedale. Un tipo che è turbato quando si rende conto di essere oggetto delle attenzioni di Ay?e (Maryam Zaree), una misteriosa trentenne assunta come lavapiatti. Nonostante sia stato informato che Necip, il marito della donna, stia scontando una lunga condanna in carcere, Nihat, benché riluttante, accetta un invito a cena da parte di Ay?e. Nell’occasione gli capita di osservare attentamente una foto del consorte della donna e di rendersi conto di una sua incredibile somiglianza con quello sconosciuto che sembra il suo gemello senza baffi. In breve inizia una relazione con la donna.
"I Am not Him (Ben O degilim)", Tayfun Pirselimoglu |
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Poi si trasferisce nell’appartamento dell’amante e stabilisce con lei una convivenza matrimoniale. Ma per Nihat la situazione è al tempo stesso strana e ambiguamente morbosa. Ay?e si impegna attivamente perché la loro unione sia felice, ma l’uomo non mostra grande passione se non per assomigliare sempre più a Necip. Ne scaturisce una sequela di avvenimenti inaspettati, fatidici e surreali. Anche in questo film il regista resta fedele alla sua cifra narrativa minimalista, priva di enfasi, lenta, ma emozionante e sfrutta benissimo l’espressività dei suoi attori. Costruisce un affresco intrigante e problematico, del tutto alieno da una fuorviante lettura di disturbo mentale. In effetti ha dichiarato che il tema dell’identità, perduta o rubata o reclamata, è una metafora della Turchia contemporanea. Il suo protagonista scivola progressivamente e consapevolmente verso un destino ineluttabile, perché anche quando potrebbe sottrarsi, risulta dominato dal forte desiderio di essere l’altro.
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Il Best Director Award è stato attribuito a Onur Ünlü, autore di Itirazim var (Let’s sin). Allo stesso film è andato anche il Premio al miglior attore, assegnato a Serkam Keskin. Si tratta di una brillante dark comedy, con tinte thriller, che contiene espliciti riferimenti all’ipocrisia e alla cupidigia di potere che animano l’operato di molti potenti e dei loro accoliti nella Turchia di oggi. Il protagonista è Selman Bulut (Serkan Keskin), un inconsueto Iman che gestisce con pochi mezzi una piccola moschea, in un vecchio quartiere di Istanbul. È un cinquantenne attaccato a piccole abitudini un poco paradossali e giocosamente beffardo, ma onesto e pronto a concedere fiducia al prossimo. Un giorno, durante la preghiera del mattino, un businessman, frequentatore abituale del tempio, cade a terra assassinato: si è udito un colpo di pistola, ma nessuno ha visto l’assassino. Ben presto l’Iman si rende conto che la polizia è inetta o forse non interessata a risolvere il caso. Inoltre si ritrova forzosamente coinvolto perché la vittima, prima di morire, ha depositato un’ingente quantità di denaro sul suo conto bancario. Quindi decidedi intraprendere la sua inchiesta personale, utilizzando metodi a dir poco bizzarri.
Ne deriverà una complicata girandola di avvenimenti e di colpi di scena, tra scene esilaranti, elementi pulp e reminiscenze dei polizieschi hard boiled. Saranno svelati segreti custoditi da anni ed emergeranno sia sorprendenti relazioni personali e sentimentali sia una filiera di usurai e di corrotti E risulterà che lo stesso Selman Bulut e le persone che lo circondano, o gli sono care, sono tutti collegati in qualche modo all’omicidio. Fino alla soluzione del mistero. La sceneggiatura scritta da Ünlü in collaborazione con Sirri Süreyya Önder è forse troppo elaborata e prolissa. Tuttavia è molto efficace sia perché sottintende la simpatia dell’autore nei confronti di un protagonista che incarna l’anima tollerante di molta gente di Istanbul, quella invisa al premier Erdogan, sia perché contiene un’eccellente disanima, in chiave pesantemente ironica, dei meccanismi del potere politico, economico e religioso. La narrazione è fluida, anche se in parte troppo precipitosa, e il regista riprende e stravolge noti clichés e canoni del genere noir. |
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"Let's sin (Itirazim var)" Onur Ünlü
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Il Premio Speciale della Giuria è stato vinto da Bir varmi?, bir yokmu? / He bû tune bû (Once upon a time), del regista kurdo Kazim Öz. Allo stesso film è stato attribuito anche il Premio al miglior film della Giuria dei critici della FIPRESCI. È un fresco e inconsueto docu-drama. Racconta la dura esperienza di un gruppo di lavoratori stagionali agricoli kurdi, rappresentando lo scenario di sfruttamento che sottende il larghissimo consumo di insalata sulle tavole dei turchi. E, al tempo stesso, narra, con arguzia, una rocambolesca storia d’amore adolescenziale. Al centro della vicenda vi è un povero e numeroso clan familiare kurdo. Come ogni anno, in primavera, guidati dall’anziano capofamiglia, uomini, donne e bambini compiono un lungo e faticoso viaggio in treno dalla loro casa, nelle campagne presso Batman, fino a un’area di vaste coltivazioni di lattuga nella regione di Ankara. Sono stati assunti da alcuni “caporali” per un periodo di alcune settimane. Insieme ad altre famiglie di braccianti, ragazzi e adulti lavorano a cottimo alla raccolta dell’insalata, con turni estenuanti e senza tutela. È un’attività molto faticosa che richiede rapidità e accuratezza, da svolgere sempre chinati, sotto il controllo dei più anziani e dei sorveglianti. Presso i campi hanno rizzato le loro tende e vivono accampati in modo precario.
"Once upon a time (Bir Varmis, Bir Yokmus)" Kazim Öz |
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In queste condizioni difficili sboccia una relazione sentimentale clandestina tra un giovane e una ragazza di due famiglie che si conoscono. Poi un giorno i due fuggono, gettando nella costernazione i rispettivi clan. Öz registra la vergogna, le accuse reciproche e un vivace confronto di posizioni attraverso interviste e testimonianze dei protagonisti, i genitori e i figli. Vi è anche una buffa intervista con il proprietario dei campi, un imprenditore che dichiara di avere 44 anni e di non volerne sapere di faccende amorose. Alla fine il problema più grave diventa quello della dote da corrispondere alla famiglia della futura sposa. Il film rappresenta un indubbio atto di documentazione e di denuncia di un fenomeno che in Turchia investe circa un milione di braccianti sottopagati, in maggioranza kurdi e con un’alta percentuale di minorenni. Ma il regista riesce anche a costruire una prospettiva più ampia, documentando cultura, costumi e sentimenti del suo popolo, quantunque presenti anche alcune forzature narrative artificiose e paradossali.
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Il Premio alla miglior attrice è andato a Vahide Perçin, per la sua interpretazione in Ayan Hanim, di Levent Semerci. Si tratta di una ricostruzione drammatica sperimentale dei turbolenti anni ’70 del colpo di stato del 1980 e degli anni successivi. Al centro del film, ambientato a Istanbul, vi è una famiglia piccolo borghese ordinaria composta da Ayan Hanim (Vahide Perçin Gördüm), una casalinga cinquantenne, suo marito Ahmet Bey (Selçuk Yöntem), un sergente dell’esercito in pensione, e quattro figli. Di questi solo il più giovane, non ancora maggiorenne, non è coinvolto nei movimenti radicali di opposizione, mentre gli altri tre ne sono parte attiva. Già nel 1977 partecipano agli scontri di piazza. Poi, dopo il golpe, inizia la disintegrazione della famiglia. La scenografia è squisitamente teatrale e comprende anche una ricostruzione in studio di Piazza Taksim. La narrazione configura una saga tragica in cui si consuma tutto il dolore della madre che vede i propri figli in pericolo e non riesce a salvarli. La messa in scena, visivamente impressionante e molto creativa, alterna sequenze stilizzate, con inquadrature ardite da varie angolature e movimenti di macchina inconsueti. Il regista propone varie scene drammatiche: scontri in strada, con cariche della polizia e dei militari, morti e feriti; brutali perquisizioni dell’appartamento della famiglia; confronti violenti tra i due coniugi e i poliziotti; strazianti incontri dei genitori con i figli latitanti. Interpone dialoghi e monologhi con numeri di danza moderna e punta, un poco eccessivamente, su ripetizioni e reiterazioni. E ancora, offre un raffinato mix di suoni, musiche e voci off.
Il Best Editing Award è stato assegnato al veterano Reha Erdem, autore del montaggio del film che ha diretto, ?arki söyleyen kadinlar (Singing women). È un’opera inclassificabile. Mescola suggestioni di dramma apocalittico, satira sociale, conflitti familiari ed esistenzialismo sui generis al femminile, nel quadro di un’oscura parabola densa di simbologie criptiche.
Un film, probabilmente condizionato da dolorose vicende autobiografiche del regista, che appare irrisolto, pretenzioso, prolisso, ripetitivo e, a tratti, irritante. Ambientato in un’isola non lontana da Istanbul, racconta una situazione di fatale emergenza. In seguito ad un allarme per un imminente terremoto è stato emesso un ordine di evacuazione e gruppi di abitanti partono senza indugio. In un clima di abbandono e di progressive difficoltà materiali si svolgono le vicende di alcuni personaggi che hanno deciso di restare. Individui intrappolati tra insofferenze e odi reciproci, conseguenti a conflitti latenti, e grovigli di passioni patetiche e disfunzionali. Nel frattempo i cavalli muoiono a causa di un morbo misterioso. Ingenue, ma dissonanti e poco comprensibili, appaiono le scene di gioiosa fruizione della natura da parte di due personaggi femminili. Sembra che gli eventi configurino una sorta di severa lezione divina impartita agli esseri umani, in particolare ai maschi. |
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"Singing women (Sarki söyleyen Kadinlar)" Reha Erdem
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Il Best Music Award, assegnato ex aequo, è andato anche a Ali Tekba?, Serhat Bostanci e A. Imran Erin, autori della colonna sonora di Sesime gel / Were dengê’ min (Come to my voice), di Hüseyin Karabey. È un dramma rurale, costruito con sinceri toni poetici. È ambientato in un piccolo villaggio tra le montagne del Kurdistan ove restano vive antiche tradizioni comunitarie, come quella per cui tutti gli abitanti si riuniscono per ascoltare cantastorie erranti. Il film si apre con un’impressionante violento raid dell’esercito turco alla ricerca di armi e di simpatizzanti della guerriglia indipendentista. Alcuni uomini, fra cui Temo, vengono arrestati. Sua madre, l’anziana Berfé e sua figlia, la piccola Iiyan, sono molto preoccupate. L’ufficiale comandante turco ha dichiarato che Temo potrà essere rilasciato solo se verranno consegnate le armi nascoste. Berfé, disperata, si mette in contatto con alcuni contrabbandieri, che fanno la spola con l’Iraq, per comprare una pistola, utilizzando i risparmi che dovevano servire per il suo funerale. Quindi con la nipotina inizia una lunga marcia tra valli e valichi per recuperare l’arma. Un viaggio in cui le due donne dovranno mostrare coraggio e tenacia e in cui incontreranno pericoli, ma anche la inaspettata solidarietà di tre dengbejs, ovvero cantastorie ciechi. Una piccola odissea in cui si mescolano toni da favola, humour e soluzioni miracolistiche. La scelta di Karabey di descrivere condizioni di vita umilianti, evitando la retorica drammatica e mettendo a fuoco l’umanità dei suoi protagonisti e il loro attaccamento ai costumi tradizionali, risulta intelligente ed efficace.
"Image Manquante" Rithy Pahn |
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L’image manquante, del regista cambogiano Rithy Pahn, attivo documentarista da oltre vent’anni. Il film ha ottenuto il Council of Europe Film Award. Si tratta di un documentario poetico ed emozionante. Offre un'originale e commovente ricostruzione dettagliata di tutti gli aspetti della vita durante l'agghiacciante regime dei comunisti Khmer Rossi, al potere in Cambogia dal 1975 al 1979. Seguendo la criminale utopia “ugualitaria” del fanatico leader Pol Pot, formatosi in Francia, i guerriglieri deportarono nelle campagne i 2 milioni di abitanti della capitale Phnom Pen ed eliminarono tutti gli intellettuali. Costrinsero la popolazione a intraprendere una rieducazione a base di estenuante indottrinamento e di lavoro forzato nei campi e distrussero opere d'arte, film, libri e ogni tecnologia moderna: macchinari, medicinali, ecc. Donne e uomini, anziani e bambini, organizzati in gruppi separati, sorvegliati dalle milizie e ridotti alla fame, furono costretti a effettuare lavori inutili, con il continuo terrore di punizioni tremende e uccisioni sommarie.
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Alla fine si contarono 2 milioni di morti nelle fosse comuni nei campi. Da anni Rithy Pahn ricostruisce episodi di quell'epoca nei suoi documentari, tra cui il noto S 21, The burnt theatre e Duch, master of the forges of Hell (2003). Nel 1975 aveva 11 anni e fu deportato con la sua famiglia: fu l'unico sopravvissuto. In questo film, narrato in prima persona con la voice over di Randal Douc, cerca di andare oltre una fotografia dell’epoca, scattata dai Khmer Rossi, che li ritrae come guerriglieri sereni e tranquilli: cerca l’immagine mancante. Intreccia footage di filmini apologetici girati dagli stessi Khmer Rossi, rare immagini fugaci delle vittime ridotte alla fame a alla disperazione e memoria individuale del terribile trauma subito. Rappresenta situazioni della sua prima adolescenza felice in una famiglia della classe media e scene di “vita ordinaria”, durante l’allucinante regime dell’Angkar (l’organizzazione), retto da regole pazzesche, mediante statuette di argilla dipinte collocate in diverse piccole maquettes. Si allontana dal documentario classico e opta per una riflessione delicata sulla sua famiglia e sugli amici perduti, ma anche per un’analisi indimenticabile dei meccanismi dell’annientamento individuale e collettivo e dell’orrore |