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px rouge FESTIVALS REVIEWS I CANNES FILM FESTIVAL I IL CINEMA DI JIA ZHAN KE I di GIOVANNI OTTONE I 2013

IL CINEMA DI JIA ZANG KE :

Uno Straordinario Sguardo Indipendente sui destini umani, tra finzione e documentario

 

 

 

 

di GIOVANNI OTTONE

Jia Zhan Ke

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Il quarantenne Jia Zang Ke appartiene alla cosiddetta “Sesta Generazione” dei registi della Repubblica Popolare della Cina che comprende anche altri autori quali Zhang Yuan e Wang Xiaoshuai. Filmmakers che hanno optato per un nuovo realismo e per stili più moderni, rifiutando una certa idealizzazione e le metafore della generazione precedente quali Cheg Kaige e Zhang Yimou. Sono cineasti formatisi negli anni della cosiddetta “apertura” del regime comunista all’economia capitalista che hanno realizzato i loro primi film nella seconda metà degli anni ’90 in condizioni di semi-illegalità, qualificandosi come artisti underground, ignorati dal sistema di distribuzione nazionale. In effetti Jia fondò nel 1995 la prima società di produzione cinese realmente indipendente, la Youth Experimenrtal Film Group, e dopo aver ricevuto il plauso di gran parte della critica internazionale, a partire dal 2000 ottenne finanziamenti stranieri, tra cui quelli dell’Office del regista giapponese Takeshi Kitano, per realizzare i suoi film successivi.

Fin dai suoi primi film ambientati in aree provinciali rurali (Pickpocket, del 1997, e Platform, del 2000) e, successivamente, in aree industriali e a Pechino (Unknown Pleasures, del 2002, e The world, del 2004) ha trattato i temi del disorientamento e dell’alienazione della gioventù cinese, degli squilibri sociali dovuti allo sviluppo economico e alla globalizzazione e della limitazione della libertà e dei diritti individuali imposti dall’apparato statale e di polizia. I suoi personaggi amari, duri e individualisti, determinati, ma votati al fallimento dopo amene peregrinazioni, sono protagonisti di piccole e tragiche storie.

Dal 2006, con Still Life, con i documentari (Dong e Useless) e poi con i film presentati al Festival di Cannes (24 City, del 2008, e I wish I knew, del 2010), ha scelto un registro che combina finzione e documentario, confondendo e sovrapponendo le due entità con un risultato poetico e “politico” di grande rilievo emotivo ed estetico. Rappresenta personaggi e scene di vita reali in contesti esistenziali e sociali di mutamenti epocali, nel Sichuan, nella regione delle Three Gorges, sulle rive del fiume Yangtze, a Chengdu e a Shangai. Le testimonianze dei personaggi raccontano i cambiamenti dell’ambiente e le loro problematiche e sofferenze, a partire dal passato fino ad oggi. Le loro relazioni si collocano in una dimensione ambigua, tra realismo e astrazione, tristezza rassegnata e sprazzi di vitalismo, nostalgia o desiderio e aspettativa materialista di futura affermazione sociale. Il suo stile è improntato al realismo stilizzato, con molte sequenze statiche che configurano uno speciale “tempo storico”. Privilegia densi piani prolungati e piani sequenza in un contesto di narrazione lineare, ma discontinua e sorprendentemente ellittica, che spesso mostra le conseguenze delle azioni prescindendo dalle cause. Il senso della luminosità della fotografia e la qualità del suono sono impressionanti.

Analizziamo quindi più in dettaglio alcuni dei film citati, quelli realizzati a partire dal 2004. Shijie (The world) (2004), presentato alla Mostra di Venezia, è un racconto drammatico, amaro e venato di tristezza da cui emerge la determinazione delle giovani generazioni nella Cina contemporanea a raggiungere la felicità viaggiando all’estero o emigrando. I personaggi del film sono apparentemente duri ed individualisti, proprio per la loro provenienza dalle povere regioni rurali dell’interno. La vicenda è ambientata originalmente e metaforicamente in un parco di divertimenti a tema, “The world”, a Pechino, che contiene le repliche in scala delle principali attrazioni mondiali (Tour Eiffel, Tower Bridge, Taj Mahal, ecc.). In quel luogo terribilmente surreale, isolato dal contesto urbano, una cantante e ballerina, Tao, vive una contrastata storia d’amore con uno dei guardiani, Taisheng. Attorno a loro compaiono vari tipi umani emblematici del malessere sociale della Cina moderna: cospiratori sociali, gangsters, curiosi businessmen e poveri ex contadini addetti a pericolosi lavori nella rigogliosa industria edilizia.

Tokyo sonata

"Still Life ", Jia Zhan-Ke

 

Sanxia haoren (Still life) (2006), anch’esso in concorso alla Mostra di Venezia, ha vinto il Leone d’Oro. Si tratta di un’opera straordinaria, quantunque non ben classificabile, perché, pur nella finzione, ritrae scene di vita reale (e le vicende che racconta sembrano svolgersi naturalmente), in un contesto esistenziale e sociale epocale, di mutamento delle condizioni di vita, che coinvolge oltre un milione di persone comuni. È ambientato a Fengje, un antico villaggio sulle rive dello Yangtze River, nel Sichuan, che, entro il 2009, quando sarà terminata la gigantesca Three Gorges Dam, verrà completamente sommerso dalle acque del nuovo lago artificiale. In un ambiente devastato, tra le demolizioni dei palazzi, Jia Zhang-ke costruisce due linee narrative parallele. Sono le storie di due coppie. Han San-ming è un minatore quarantenne che viene dal nord del Paese e cerca la moglie e la figlia lasciate a Fengje 16 anni prima e non più riviste.

Un’infermiera trentenne arrivata, da Shangai, cerca il marito, impegnato da due anni nei lavori edili, per chiedergli il divorzio. Una delle coppie si ricostituisce, l’altra decide la fine della relazione. I personaggi vagano tra folle in continuo spostamento, tra la polvere delle strutture in demolizione e tra suoni e rumori. Incontrano gruppi di operai edili che provengono da tutta la Cina, sono arrivati nei cantieri o li stanno abbandonando per cercare lavori più remunerativi. Al paesaggio in trasformazione si contrappongono i corpi delle persone. Emerge la solitudine dei personaggi e la mentalità materialistica di molti. Le relazioni personali e sociali si collocano in una dimensione ambigua, tra realismo e astrazione, tristezza rassegnata e sprazzi di vitalismo. Anche a livello estetico il film è eccezionale: nei tagli documentaristici con uso di HD che ne rafforza il realismo, nei piani sequenza e nei primi piani su volti e corpi.

Dong (2006), presentato nella stessa occasione, è un documentario che segue il lavoro di Liu Xiaodong, un pittore, tra i più noti nella Cina contemporanea, classificabile come “realista cinico”. Dong è il nomignolo di Liu, un artista con esperienze anche di attore nei film indipendenti cinesi fin dal 1993. Il regista viaggia con lui e lo ritrae al lavoro nella regione delle Three Gorges, nel Sichuan, dove è in atto una gigantesca opera di demolizione di città e villaggi che saranno sommersi dalla creazione di un bacino artificiale dovuta allo sbarramento dello Yangtze River mediante una mastodontica diga. Liu dipinge con colori ad olio un enorme quadro che ritrae 12 operai, venuti da tutta la Cina, per le demolizioni. Ha un interesse specifico per i corpi maschili quasi nudi. Molte sequenze sono le stesse che compaiono in Still life.

 

 

in the fog

"Dong", Jia Zhan-Ke

Successivamente, nella seconda parte del documentario, si vede Liu al lavoro, in una grande casa di Bangkok, in Tailandia, mentre ritrae 12 giovani donne sensuali e indolenti. Dal film emergono una suggestiva affinità estetica tra il regista e il pittore ed un affascinante gioco di contrapposizione tra corpi maschili e corpi femminili secondo la regola degli opposti, yin e yang.

Wuyong (Useless) (2007), vincitore del Premio Orizzonti Doc alla Mostra di Venezia, è un documentario che, a partire dalla creazione di una famosa designer, stilista di moda, la cinese Ma Ke, offre un emozionante ritratto della condizione umana nella Cina contemporanea. Jia intervista le persone (e documentandone aspetti dell’esistenza quotidiana) che vivono in tre aree cinesi dove esistono fabbriche di produzione di abbigliamento destinato all’esportazione nei Paesi occidentali, ma anche i piccoli sarti di laboratori artigianali che lavorano per la popolazione locale e persino alcuni minatori.

Il regista e la designer condividono la necessità di recuperare la memoria dei processi di confezione dei tessuti a partire dai materiali naturali. In effetti le creazioni stilizzate e grezze di Ma, pur trionfando paradossalmente alla Fashion Week di Parigi, sono antitetiche alla haute couture. Jia, come ha dichiarato, quando gira un documentario vuole catturare il “dramma” interno alla realtà filmata e quindi vuole esprimere visivamente le sue impressioni soggettive. Da questo film non emergono ridondanti giudizi o testimonianze politiche, ma il clima sociale è perfettamente comprensibile. Lo stile di Jia è elegante e si avvale del suo talento di fotografo a cui si aggiunge la collaborazione di Yu Lik Wai. Le sue scelte estetiche sono ben determinate: ogni scena è stata concepita per rendere evidente, nel modo più naturale ed incisivo possibile, la sua dinamica interna.

 

 

Useless

"Useless", Jia Zhan-Ke

Er shi si cheng ji (24 City) (2008) è un film che combina magistralmente documentario e finzione cinematografica. Girato a Chengdu, esplora l’antico sito di una grande fabbrica meccanica in demolizione. La Chengdu Engine Corporation è conosciuta con il nome in codice di Fabbrica 420 perché fu adibita allo sviluppo di progetti segreti di industria aeronautica bellica quando, nel 1958, all’epoca del duro confronto politico e militare con l’Unione Sovietica, fu trasferita dalla sua primitiva sede, sulla costa, nell’entroterra cinese.

24 City

"24 City", Jia Zhan-Ke

 

Attualmente è in fase di smantellamento perché il suo sito sarà occupato da un lussuoso complesso residenziale che comprenderà uno shopping mall, un cinema e una scuola. Questa grande trasformazione edilizia ed urbanistica rappresenta l’occasione fattuale sfruttata da Jia Zhang-ke per ripercorrere, senza alcuna retorica, ma con profonda personale sensibilità umana, mezzo secolo della storia politica e sociale del Paese, dall’epoca maoista all’attuale status di colosso economico mondiale. Egli evoca un itinerario a partire dal presente, mediante l’esercizio della parola, raccogliendo lucide testimonianze esistenziali che raccontano il costo umano pagato da singoli lavoratori in un quadro collettivo. Nel film i lunghi monologhi degli intervistati, che raccontano loro esperienze di vita, ripresi frontalmente dalla telecamera, si interpongono con le immagini e i magnifici piani sequenza dedicati alle operazioni reali di smontaggio dei macchinari della fabbrica.

I nove interlocutori, di cui cinque autentici e quattro personaggi di finzione (tra cui tre attrici famosissime del cinema cinese: Lu Liping, Zhao Tao e la magnifica Joan Chen), descrivono momenti dolorosi, come il trasferimento forzoso in seguito alla riallocazione della fabbrica, crisi e separazioni familiari, persecuzioni politiche, ma anche i “privilegi” e gli svaghi di una parte dell’aristocrazia operaia. Rappresentano tre generazioni e fra loro vi sono vecchi operai e tecnici, nuovi ricchi e giovani laureati e quadri professionali. Gli uni sembrano nostalgici di una concezione del lavoro ormai superata e descrivono senza censura la società dell’epoca maoista, gli altri esprimono il desiderio e l’aspettativa di una futura affermazione sociale. Jia Zhang-ke ha costruito un film audace e maturo, raffinato e commovente, concentrandosi sui personaggi rappresentativi di veri destini umani, attraverso un approccio misurato, ma sottilmente partecipativo.

Shang hai zhuan qi (I wish I knew) (2010) offre un interessante e originale ritratto di Shangai, la grande metropoli cinese sede della Expo Universale durante il 2010. Il film si pone a metà strada tra il documentario e il saggio poetico. Esplora la storia della città attraverso le testimonianze di chi ne ha visti i cambiamenti, ma anche attraverso referenze presenti nel cinema e nei notiziari d’epoca, del secolo scorso. Vengono intervistate persone che vi hanno vissuto finora o che vi sono nate e hanno dovuto abbandonarla per varie ragioni.

Si tratta di una vasta gamma di personaggi (diciotto) che rievocano esperienze personali e storie collettive che si sono succedute in una città in perenne evoluzione, a partire dagli anni ’30, tra rivoluzioni politiche e culturali, assassini eccellenti, cicli economici e flussi migratori. I protagonisti-interlocutori comprendono ad esempio la figlia di Du Yueshong, un noto gangster attivo negli anni ’30, e Han Han, romanziere e corridore automobilistico, considerato l’attuale blogger anti-establishment più popolare del Paese. Peraltro, considerato che Shangai è sempre stato storicamente il più popolare centro della produzione cinematografica cinese, prevalgono le rievocazioni collegate al settore. Vi è una discussione sull’opera di Fei Mu e in particolare sul suo film più riuscito, Spring in a small town. Zhu Quiangsheng rivela il costo politico che ha dovuto pagare per avere collaborato, come guida, al rodaggio di Chung Kuo.

 

in the fog

"I wish I knew", Jia Zhan-Ke

Cina, il controverso documentario realizzato da Michelangelo Antonioni nel 1972. Wei Ran rievoca la vita e la morte di sua madre, la nota attrice Shangguan Yunzhu, offrendo una testimonianza molto commovente. Jia si reca anche a Taiwan per conversare con Hou Hsiao-hsien. Quindi raggiunge Hong Kong per ascoltare una delle attrici protagoniste del film Days of being wild, di Wong Kar-wai. Infine segnaliamo la ricorrente presenza di una giovane donna, vestita di bianco, che peregrina nella città: si tratta di Tao Zhao, attrice feticcio presente in tutti i film di Jia. Se da un lato il regista evita accuratamente di glorificare il megaevento della Expo, dall’altro si nota una sottile vena patriottica che, francamente sorprende. In effetti il film stesso è stato celebrato come un evento perché comprende contemporaneamente sequenze girate in Cina, a Hong Kong e a Taiwan (pare che sia il primo caso nella storia del cinema cinese). Tuttavia proprio durante le interviste effettuate nelle tre “patrie” cinesi si notano spunti conformistici che celebrano l’orgoglio di essere comunque cinesi, nonostante le differenze di regimi politici (è nota la politica delle autorità comuniste della Cina per assoggettare al proprio regime le altre due entità territoriali). Inoltre, nonostante molti degli intervistati pongano in luce l’impatto deleterio dell’ideologia comunista sulle proprie esistenze e sul contesto sociale in generale, Jia sembra smorzare i toni, evitando di radicalizzare le tematiche delle libertà individuali e dei diritti civili. Al contrario occorre sottolineare le qualità estetiche del documentario. Le immagini del paesaggio urbano, girate in formato cinemascope, non sono mai banali. Le sequenze sono composte con un rispetto estremo per i soggetti ripresi e sono caratterizzate da un estremo senso della luminosità.

Jia ha riconosciuto pubblicamente di essere stato influenzato da autori quali Bresson, Fellini, De Sica, Ozu e soprattutto da Hou Hsiao-hsien. Rispetto ai suoi controversi rapporti con il Chinese Film Bureau statale (i suoi primi 3 lungometraggi sono stati banditi e hanno circolato solo nelle forma di DVD illegali), ha dichiarato nel 2004: “A livello personale l’approvazione del governo non ha modificato significativamente il mio processo creativo. Il mio principio basilare come filmmaker è lo stesso, sia che giri segretamente o apertamente: proteggere l’indipendenza della mia ricerca riguardante la società e le persone”. Il suo prossimo film A touch of sin, in Competizione ufficiale e in anteprima mondiale al prossimo Festival di Cannes 2013, è annunciato come un road movie atipico che combina quattro storie di vite complicate nella Cina contemporanea, da Guangzhou, metropoli del sud, ai villaggi rurali dello Shanxi rouge

 

 

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66. CANNES FILM FESTIVAL 2013

info

15 - 26 / 05 / 2013

A touch of sin

Still Life

Dong

24 City

Platform

I wish I knew

link
film

1997 : Xiao Wu, artisan pickpocket
2000 : Platform
2002 : Plaisirs inconnus
2004 : The World
2006 : Dong (documentaire)
2006 : Still Life
2007 : Useless (documentaire)
2008 : 24 City
2010 : I Wish I Knew (documentaire)
2013 : Touch of Sin

festival de cannes
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